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I "Cappuccini"
di Emilia Belzoppi
   
A otto chilometri da San Marino, nei pressi di Verucchio, sorge il Convento dei Padri Cappuccini soppresso sotto il governo di Napoleone I. Passato in stato di totale decadenza, il padre di Emilia lo compera, lo restaura e lo destina come residenza estiva. Si parla anche del quartierino a San Marino, dove la famiglia si ritira durante l’inverno. Leggi anche ...

 

Babbo, contro la volontà della nonna e della zia Luigia, vecchia zitella, sorella del povero nonno, comperò in Verucchio dai Signori Ripa il convento dei Padri Cappuccini che venne soppresso sotto il governo di Napoleone I. Questi signori che facevano luogo di villeggiatura e siccome abitavano in paese, la vicinanza glielo rendeva un soggiorno comodo e piacevole. Lo abitavano, così come era, anzi lasciandolo andare alla peggio, tanto che quando passò nelle mani di papà era in totale decadenza.

Si racconta che quei signori vi facessero raduni e baldorie notturne e che la nonna, vecchia signora di nome Violante ed il marito Signor Andrea proibivano assolutamente simili cose, sicché la nuora che era di gran spirito e i figli insieme (erano tre), pensarono di spaventare i poveri creduli vecchi, trascinando catene e rotolando una palla di cannone per il corridoio, facendo credere che le anime dei poveri fraticelli, chissà come condannate, tornassero irrequiete al loro antico possesso.

Così i poveri vecchi tornarono alla loro casa, lasciando libero campo ai giovani di fare ciò che a loro gradiva. Questi nobili signori, poco dopo, morirono e furono sepolti nell’antica chiesa dei Cappuccini, già da qualche tempo soppressa e poi venduta insieme al convento e alle loro povere spoglie.

Quando, nei restauri, la mamma volle accomodare una bella chiesina, prima di fare il piantito, chiese se volevano levarli ovvero se farne una lapide che ricordasse dov’erano le ossa degli avi loro; ma essi risposero che si facesse pure il piantito perché trovavano inutile farvi una dimostrazione, dopo tanti anni.

La prima volta che babbo condusse la mamma a vedere questo ameno luogo, condusse anche me e Giacomina.

Sorge, questo fabbricato, sul culmine di una collina più alta di quella dove é il paese; è esposto a mezzogiorno, contornato di alberi e, rimpetto alla porta di mezzogiorno, vi era una folta capanna di alberi di olmi che metteva in un lungo viale di alberi fronzuti che davano un piacevole rezzo; in fondo vi era selvetta nella quale crescevano fragole, mammole, madreselve, ciclamini e tanti altri vari fiorellini che ci facevano innamorare.

Vi si va dal paese, uscendo dalla porta di Passarello ove sono due vie, una detta la lunga, che è carrozzabile, l’altra più breve, via Cupa, a metà della quale s’incontra, a destra, un vaghissimo monticello denominato Monte Ugone, dall’essere un fortino di Ugo Malatesta e sul quale esiste ancora una torricella rotonda fabbricata proprio dirimpetto ai Cappuccini; per tradizione, si dice essere un luogo di vendetta di quelli antichi feudatari.

Questo sito di care memorie era ricoperto di un tappeto di finissima erba e talmente smaltato di primoline, che era un piacere ad ammirarlo.

Di rimpetto al paese, sopra un piedistallo di bianchissimo sasso, sorgeva una grossa croce tinta di rosso che, colle sue larghe braccia, sfidava i venti e le procelle. Ho riflettuto più volte: su questa croce, un santo simbolo di pace innanzi al paese ove regnano tante passioni e tanti dissidi.

Bene sta quella Croce: nel chiostro il rintocco della sua campana, massimo nel silenzio della notte, quando chiama i fraticelli a pregare per lunghe ore, desta, anche nel cuore battagliero, un pensiero di pace e forse l’invidia verso chi veste l’umile saio; mentre la Croce, con la sua maestosa presenza, proclama agli animi turbolenti: pace fratelli, pace per amore di quel Dio, che su questo duro tronco, morì per voi.

Per questa via più breve, si accede anche oggi al Convento; rimpetto a questo era la chiesa e la porta del Chiostro. Entrando, si era subito nel cortile da due lati porticato a loggia inferiore e superiore, mentre agli altri due lati era il fabbricato.

Quando vi andammo si mangiò dai signori Ripa e sebbene contassi appena sette anni, mi ricordo delle gentilezze che ci usarono; e siccome io vestiva da uomo ed era vispa ed aveva lunghe anella bionde cadenti sugli omeri, mi accarezzavano e mi davano dei dolci.

Il fabbricato, come innanzi dissi, era in totale stato di decadenza: al pianterreno mancavano i pianciti; al refettorio i muri erano scrostati, senza vetrate le finestre e, dalle ferrate di queste, cresceva il cardo selvatico, l’ortica ed altre erbacce. Il di fuori pure era incolto e tutto dava l’idea dell’abbandono, della trasandatezza e del vandalismo. Nella casa, un tempo di Dio erano immondizie, fieno e rottami. Gli altari erano mezzi diroccati; candelabri, lampade, cantaglorie, via crucis, parte appese, parte a terra ... tutto ammuffito, sudicio e malandato. Sebbene bambine, quello stato di cose ci colpì e maggiormente perché la mamma si era fatta seria, mesta ... veniva raccogliendo qualche cosa e lo posava sull’altare.

Si uscì presto di lì e l’aria balsamica, il sole ridente, la buona compagnia dei padroni dissiparono la mestizia d’una impressione ricevuta al pensiero d’un passato tanto diverso dall’avvenire che stava per svolgersi in questo luogo.

Il contratto si effettuò e dopo qualche mese, si veniva a farvi delle sfuggite piacevoli. Noi correvamo nel bosco e nei campi ed i nostri genitori andavano ideando i restauri dal farvi per renderlo comodo ed abitabile.

Nel maggio di una bella primavera, ci dissero che si sarebbe venuti a Verucchio, ai cappuccini. Si fecero dei preparativi: si approntarono letti, suppellettili per la casa, utensili di cucina. Ne caricarono due birocci; babbo, mamma e la Giacomina sopra degli asini, io e Checchina, una per cesta, sopra un altro. Vincenzino lo portava la mamma, mentre Zino lo faceva portare da una donna.

Quante volte abbiamo fatto questi viaggi di andata e ritorno. Noi bambine sempre in cesta colle nostre bambole, i loro lettini e tutto il resto.

Il disopra del convento era abitabile; erano celle e lunghi corridoi. La scala era di mattoni con, in cima agli scalini, un regolo di legno. Sul pianerottolo, al muro era un’immagine di Maria Santissima che allattava il bambino. Nel braccio più lungo del corridoio, pure sul muro, una bella immagine dell’Immacolata col capo contornato di dodici stelle e il serpente sotto i piedi.

Papà prese muratori, falegnami, operai ed in breve tutto cambiò aspetto. Furono fatti muri, cantoni in pericolo, atterrate pareti, fatti pianciti e soffitti, imbiancate e dipinte stanze, rifatta la cucina, la camera da desinare, da ricevere, da lavorare con stufe, caminetti, studio per il babbo; tutto ciò al pianterreno. In poco tempo, sorse un giardinetto di vaghi fiori, muriccioli adorni da più che cento vasai ed in pochi anni tutto fu posto a coltivazione. Fabbricò la casa al colono e tutto intorno fu messo a frutta, gelsi, verdura e fiori.

Man mano che si andava crescendo in età, cresceva in noi l’amor della cara patria nostra e la non si lasciava mai senza rammarico, né si tornava senza baciare le sante zolle del nostro libero nido.

Un dì, non ricordo di quale anno, inoltratosi l’inverno, la mamma ed il babbo erano venuti ad abitare il loro quartierino d’inverno, in S. Marino; essa consisteva in una stanza lunga e stretta, tutta interna, salvo la facciata in fondo che aveva una larga e ben difesa finestra; alla parte opposta, una grande e comoda alcova ove era il letto e la cuna; e di lì, per mezzo di una porticina, in uno stanzino oscuro ove era un lettino per noi tre grandi, un tavolino, una cassettina ed al muro un gran quadro di S. Teresa che portava scritto “O patire o morire”.

La camera di mamma era il nostro soggiorno: vi era un caminetto, nostra delizia ove ci scaldavamo, cocevamo castagne e tortelli; inoltre dava all’ambiente un tepore primaverile. Dirimpetto al muro opposto un sofà, un tavolo da lavoro, la poltrona di mamma e alcune seggiole. Le pareti erano dipinte e adorne di quadri; il piancito ben coperto di stuoie ove i piccini si sollazzavano ruzzolandoci sopra.

Mi pare di rivedermi, ora, in quella camera: la mamma al suo posto e noi tutte al nostro lavorare oppure attorno ad essa, che c’intratteneva in racconti e parlari di religione, di morale e di cose che erano volte al formare il nostro animo alle virtù.

Babbo, per solito, stava nel suo studio. Molti signori della città, il medico, lo speziale, il segretario degli affari esteri e vari nobili venivano a trovarlo e s’intrattenevano con lui sulle notizie politiche, sugli affari del nostro Stato.

Noi cedevamo il nostro posto e ci ritiravamo accanto alla finestra, finché la mamma diceva: - Potete andare.

Si salutava e si varcava la porta con forzato contegno e, appena fuori eravamo uccelletti usciti di gabbia e via a precipizio in cucina, per le scale, nei soffitti ... e un ridere, rincorrerci, un fare a
braccia ... che era un piacere.

Eravamo vivaci e piene di salute!

 
Presentazione
13 luglio 1892
I Cappuccini
Grandicelle
Viva Belzoppi
Il buon santolo
Altri dolori
Papà Reggente
Vicende politiche
Garibaldi rifugiato
Gli esuli
I giovani dalmati
Omicidi
Onoranze
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