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Il pubblico e il suo doppio

L'Arena in età romana e rinascimentale. Avvisaglie di massa. Zenatello. Tutto di tutto. Un successo epocale. Arrivano le masse. Tutto e il contrario di tutto. Spunti testuali. Avvisaglie di guerra. Coazione a ripetere.

L'ente lirico veronese è senz'altro quello che ha la sede più inconsueta: l'Arena, grande anfiteatro che risale al primo secolo dopo Cristo. In epoca romana esso ospitava combattimenti di gladiatori e di belve, massacri di cristiani e forse naumachie. Temporaneamente usata come fortezza nel Medioevo, l'Arena ospitò poi "duelli giudiziari" (barbara prassi longobarda per decidere le controversie) ed esercitazioni militari. Considerata dalla vox populi opera diabolica per le sue dimensioni e per il facile asilo che offriva ai malviventi, diede spettacolo veramente infernale il 13 febbraio 1278, quando gli inquisitori vi arsero al rogo oltre 160 eretici catturati nella vicina Sirmione. Nel Rinascimento vi si tennero saltuariamente feste, giostre e tornei; nel Settecento anche "cacce ai tori", sorta di corride alla veneziana soppresse poi dagli austriaci.

Occasionalmente in età comunale e dal Cinquecento senza interruzioni la città si cura della conservazione e dei restauri del monumento, studiato, misurato e disegnato dai migliori architetti. Esso arriva così a noi in eccezionale stato di integrità. L'Arena non smise mai del tutto la sua attività spettacolare. La grande capienza delle gradinate faceva la fortuna dei comici dell'Arte fin dal Seicento. E' documentata nel Settecento l'erezione, di fronte ad esse, di un teatrino smontabile di legno. Goldoni ricorda i buoni utili che esso permetteva alle compagnie. Tale teatrino continuò a funzionare con alterna fortuna fino al 1919, ospitando fra gli altri Eleonora Duse al suo debutto. Manifestazioni musicali, balli ed opere vi si tennero per tutto il XIX secolo.

Fra la seconda metà del XIX secolo e l'inizio del XX vi si fa spettacolo d'ogni cosa, dalle fiere di bestiame al lancio di palloni areostatici, ai quali assistono i pubblici più eterogenei. Nei primi decenni dell'Ottocento vi si tenne una "Fiera fantastica umoristica", nella quale si potevano ammirare, fra l'altro, il Campanile di Giotto a Firenze, una delle 100 porte di Tebe, un elefante gigantesco, l'arco dei Gavi, la Piramide di Cheope, l'arco del Sempione a Milano, la Colonna Traiana e lo châlet della birreria Maas. Nel 1876 vi si tengono gare di tiro al piccione, nel 1866 i prigionieri di Custoza vi vengono rinchiusi; nel 1880 si compie per la prima volta il rito -poi entrato nella prassi areniana- dell'accensione e spegimento delle candele. Il primo tentativo di spettacolo "di massa" fu la rappresentazione di due balli di Luigi Manzotti, Pietro Micca e Sieba, nell'anno 1900. L'evento che motiva la presenza dell'Arena nel nostro libro fu una celebre rappresentazione di Aida, nel 1913. Da esso derivò la legge di istituzione dell'Ente Autonomo, del 1936. Perciò il racconto architettonico coinciderà con quello di questo evento, illuminante anche per le trasformazioni culturali e funzionali tipiche della fruizione di opere liriche nel nostro secolo.

Su questi precedenti cospicui germoglia l' idea di portare in Arena il famoso spettacolo verdiano nella intimità di una coppia di cantanti: un tenore, Giuseppe Zenatello, e un soprano, Maria Gay. Zenatello effettua alcune prove dell'acustica del luogo, che risulta ottima. Al di là delle sue intenzioni, in questa idea si combinano due elementi del costume culturale fra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo: lo spettacolo per le "masse" e la funzione culturalmente unificante, risorgimentale, attribuita alla drammaturgia verdiana. L'occasione è offerta dal centenario della nascita del musicista, eletto a pater patriae.

Il tentativo di raccogliere un pubblico effettivamente "italiano" attorno ad una manifestazione non meramente agonistica, che individuasse un carattere culturale nazionale, trova un' occasione quasi obbligata nell'Arena, edificio classico e quindi culturalmente qualificato, dotato di una lunga vicenda spettacolare che lo rendeva pronto all'uso e, sopratutto, capacissimo. Zenatello affida la scenografia dello spettacolo a Ettore Fagiuoli, un giovane architetto veronese con interessi di archeologia, che crea una disposizione che non rispetta rigidamente l'assialità tradizionale dello spettacolo lirico, permettendo al pubblico di assistere allo spettacolo anche da posizioni molto angolate.

Nel 1913, lo spettacolo operistico di repertorio conosceva ormai una notevole diffusione internazionale. A dodici anni dalla morte di Verdi, il suo lascito era considerato un "testo sacro" della cultura nazionale. Il numero delle repliche era enorme, ma la qualità sempre più scadente. L'Aida, nelle intenzioni di Verdi l'ultima fatica prima di autocollocarsi "a riposo" occupava un posto privilegiato nel gradimento del pubblico più popolare. Nella tradizione esecutiva dell'opera , tutta giocata sulla lacerazione fra trionfale grandiosità "alla moda" e solitaria tragedia dei singoli, il gusto delle scene di massa tendeva a prevalere sui momenti intimisti. Tanto che ne erano già state allestite esecuzioni all'aperto, a Bayonne nel 1901 e in Egitto, davanti alle piramidi, nel 1912. E' questo il diretto precedente dello spettacolo veronese.
 

Il successo fu travolgente, epocale. Il risultato è stato riproposto recentemente da Gianfranco De Bosio. E' a partire dai suoi minuziosi appunti di lavoro che possiamo tentare un catalogo degli elementi meno evidenti di cui il compatto amalgama di quella storica Aida è composto.Il pubblico dell' Arena (1931)


Il prezzo minimo dei biglietti (una lira) era alla portata di ognuno. Il concorso fu enorme, stimato in ventimila persone a replica. La scala della manovra propagandistica, centrata sulla diffusione in migliaia di copie del bel manifesto di Codognato, era stata a scala nazionale. L'evento ha così due pubblici, l' uno empirico, l'altro raggiunto dai mass-media embrionali dell'epoca. In tutti e due è adombrato il pubblico, anonimo e passivo, al quale ci hanno abituato le prime forme del loro sviluppo: il cinema e la TV. La mondanità di mezza Europa si da convegno a Verona. Nelle edizioni successive verranno organizzati viaggi di massa. Ancor oggi gli organizzatori della stagione vanno fieri degli incassi resi possibili dalla gigantesca struttura dell'anfiteatro. "Il mondo e sua moglie" è un titolo di giornale rimasto famoso. Racconta Novello Papafava dei Carraresi, un aristocratico veneto che si trovava fra gli spettatori: "...quella sera era avvenuto qualche cosa che superava la sfera della storia dello spettacolo ed incideva nell'animo di un popolo, perché migliaia e migliaia di persone avevano vissuto, semplicemente e sinceramente, un momento di identità e di intuizione ed espressione degli schietti valori della propria vita". Il primo di questi due pubblici, quello concreto, si trova di fronte ad uno'evento del tutto inconsueto, scintillante di momenti di "verità"; vero prima di tutto il pubblico, campione finalmente rappresentativo di quel popolo al quale il melodramma, e quello verdiano in particolare, aveva permesso di credersi unità culturale, nella lunga attesa dell'unità politica. Nella retorica dello spettacolo all'aperto la comunità culturale della nazione sembra potersi avvertire realizzata.

Le "verità" che punteggiano l'avvenimento risultano da smentite, provenienti dal testo, dalle consuetudini esecutive, dalle circostanze ambientali, ecc., che rinfrancano l'atteggiamento fideistico nei loro confronti quanto banalizzano e involgariscono lo spettacolo. "Vero" in questo senso è l'Egitto, fatto di colonne di cartapesta spostate come una modernissima scenografia modulare a creare i vari quadri dell'opera e utilizzate a sostegno dei riflettori; "vera" la musica, ma pure trascurate nell'ascolto e nell'esecuzione le delicate sfumature del testo originale ("..." commenterà il direttore, Tullio Serafin). "veri" i cavalli e i buoi del trionfo, mai richiesti dal testo; "vero" il testo tradizionalmente destinato ad un pubblico di èlite, ma ora popolare; Anche il senso architettonico è quello di una conferma accompagnata da una smentita:"vero" lo spettacolo da teatro, ma fatto all'aperto; popolare, ma culturalmente qualificato dall'edificio classico, quindi "veramente" popolare; "vera", nei confronti del contenitore, la scenografia assiale, ma anche centrale, eccetera. Il testo varato da Verdi quarant'anni prima offriva del resto consistenti appigli per una fruizione credula come quella richiesta al pubblico areniano. Il "plot" era stato fornito al musicista bussetano da Auguste Mariette, un famoso egittologo di origini francesi, al quale era stato affidato, nell'Egitto di Ismail, un compito ufficiale di fondazione culturale del nazionalismo egiziano, in forme la cui matrice francese si può far risalire alla prima colonizzazione bonapartista. Lo stato egiziano, emancipato di recente dal protettorato turco, era allora impegnato in senso espansionistico verso il Sudan e in un'opera come il canale di Suez. La vicenda della guerra fra Egizi ed Etiopi ha quindi un referente storico preciso, nei confronti del quale Verdi era rimasto piuttosto distaccato, preferendo assistere alla prima parigina piuttosto che alla prima assoluta cairota. Nell'opera è presentata l' immagine di un nazionalismo, primitivo, teocratico, sanguinario, spietato. Il vero "vero", che si pretende non inventato, si snocciola come un rosario lungo tutta l'opera e i miti ad essa connessi, dal ritrovamento di un cadavere murato in una tomba da Mariette durante gli scavi, ai costumi, dei gioielli, delle acconciature, tutte cose la cui "scrupolosa esattezza storica" era stata propagandata ab origine. L'evento che si presenta come tutto e il contrario di tutto eserciterà una gigantesca forza attrattiva. Un signore straniero osserva: "Bello è indubbiamente lo spettacolo verdiano che stiamo gustando, ma immensamente più grande e stupefacente è la visione reale di una massa umana...".

Il pubblico di questa Aida è troppo numeroso per essere riconoscibile. Il Corriere della Sera descrive una folla enorme rimasta fuori, che si era contentata di ascoltare senza vedere. Si sa che beve fiaschi di vino, che è pauroso e canaglia. Fuori dell'Arena travolge col suo impeto una delle cabine di legno che funge da botteghino, qualcuno cerca di rubare gli incassi, a disperdere la ressa compare l'esercito, con le baionette innestate. In Arena, ammira i prodigi dell'illuminazione elettrica. Sempre l'esercito si occupa della fornitura di energia , occasione per Fra Giocondo, pseudonimo di un cronista dell' "Adige", di infiorettature di sapore futurista: "Non sentite voi terribilmente giovane e vibrante questa dominatrice del ventesimo secolo, che vi abbacina e vi uccide, che vi circonda e travolge, che vi da ogni suo potere e si fa vostra schiava, mentre vi potrebbe annientare con la sua forza? ... oggi Fra Giocondo, per amor vostro, si è fatto sapiente ed è penetrato nei còvoli più reconditi, bassi ed oscuri...ha allibito ogni mezzo minuto trovandosi davanti al naso il cartellino lugubre con il teschio e le ossa incrociate...". Non è, purtroppo, una coincidenza. L'esaltazione della guerra era, da almeno dieci anni, un luogo comune del giornalismo e della letteratura impegnata. Panegirici delle virtù del "caldo bagno di sangue nero" (Papini), odi alla mitragliatrice, alla distruzione, alla morte (Marinetti), unite agli altri luoghi della retorica futurista, l'elettricità, la velocità, ricorrevano nelle composizioni di operatori intellettuali che a vari livelli si erano impegnati con entusiasmo a preparare il paese all'immane carneficina, questa si veramente unificatrice, che incombe sulla grande recita. Le battute di Fra Giocondo sono un frammento di questa vasta operazione di propaganda.

La credulità che contraddistingue il pubblico areniano prende qui connotazioni meno festose. L'astratta dimensione "nazionale" dell'evento, dalla quale il pubblico empirico subisce l'attrazione è -per quanto lo riguarda direttamente- solo la negazione della sua concreta identità personale. Non a caso l'Altare della Patria, il monumento di fronte al quale verrà celebrata la "vittoria", contiene i resti di un soldato al quale è stato strappato, con la vita, anche il nome. Il nazionalismo ottecentesco sfocia nei conflitti mondiali. Per limitarsi allo spettacolo, tale negazione prelude al completo anonimato del pubblico dei primi mezzi di comunicazione di massa, ridotto ad astratte considerazioni di quello che dovrebbe essere un carattere "nazionale" nelle considerazioni delle autorità e a mere variabili numeriche nei conti dei produttori. Questi significati erano recuperati in un'altra Aida all'Arena, non a caso dovuta al migliore degli scenografi-architetti italiani, Luciano Damiani, che individuava con precisione il primo significato architettonico-acustico dell'Arena, luogo di spettacolarizzazione della morte dei gladiatori. "Durante i sopralluoghi la cosa che mi colpiva maggiormente era la riverberazione del suono al centro dell'ellisse minore: battevo le mani ad altezze diverse e più avvicinavo il battito a terra, più questo veniva amplificato".In quello spettacolo, più che la "rigorosa esattezza storica", lontana se non estranea alle intenzioni di Verdi, era sottolineato il tema della partenza e del ritorno da una guerra sanguinosa ed immotivata, della "perdita da parte dell'uomo non solo della propria vita, ma anche della dignità e delle qualità più intime", ben altrimenti presente nelle intenzioni espressive del grande bussetano. Come ognuno sa, in tutto l'ultimo atto i protagonisti cantano già chiusi in quella che sarà la loro tomba.

Nella recente ripresa dello spettacolo del '13, l' atteggiamento nei confronti della tradizione esecutiva di questo testo non è stato in fondo diverso da quello degli autori di quella storica edizione. Anche De Bosio ha consultato egittologi, alla ricerca di una storicità mitizzata della quale facevano ormai parte la scenografia di Fagiuoli e tutte le altre superfetazioni sul testo verdiano, in modo simile a quello in cui il "vero" Egitto era stato proposto ai volonterosi fruitori. Riconoscendo con sicura sensibilità teatrale lo spirito del '13, De Bosio non ha trascurato di consultare lo stesso Damiani e gli altri uomini di teatro di valore riconosciuto che avevano avuto esperienze areniane. Il risultato si propone così come una sintesi e un punto di arrivo, riesumazione di quello stesso significato di "scrupolosa esattezza storica" che seduceva gli spettatori più creduli del fantastico Egitto parigino del 1876.

L'Ente Lirico veronese avverte da allora una vigorosissima coazione a replicare questo spettacolo in quasi tutte le stagioni. Lungi dall'essere una deviazione di una istituzione che sembrerebbe preposta alla presentazione del nuovo, tale coazione a ripetere un evento di fondazione carico, in ogni suo dettaglio, di profonde ambiguità e contraddizioni, che vanno accentuandosi ad ogni ripresa, ne manifesta una inclinazione più radicata ed originaria, inerente all'istituzione e alla natura degli Enti: quella di costituire, nei confronti del divenire storico, pericolosamente magmatico negli anni '30, il punto fermo di una fondazione statuale che poteva sperare di essere tale solo a condizione di accogliere tutto e il contrario di tutto. Come in effetti fece il fascismo.

Altre Aide si ebbero negli anni seguenti al Lido di Venezia, allo Sferisterio di Macerata e allo Stadio Flaminio, da poco costruito a Roma, quest'ultima di fronte a sessantamila spettatori. La manifestazione romana verrà spostata nel1937 alle Terme di Caracalla, dove si tiene tutt'ora, di fronte ad alcuni ruderi romani ridotti a fare da sfondo. Il personale della manifestazione areniana era costituito in gran parte dai professori d'orchestra della Scala, che in estate si trovavano senza occupazione. Un motivo non secondario della stabilizzazione delle manifestazioni estive negli anni '30 è la riorganizzazione corporativa dello spettacolo lirico imposta dal fascismo e l'esigenza che ne consegue di occupare continuativamente i professori d'orchestra in forza agli Enti Lirici.


da Francesco Sforza, Grandi Teatri Italiani, Editalia, Roma, 1993