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Semper eadem

Il mito di Venezia. La decadenza. Carlo Lodoli. Andrea Memmo. Il concorso. Giannantonio Selva. L'incendio del 1836. Il laboratorio di scenografia. Il Settecento immaginario del 1854.

Venezia. Mito di libertà e di equilibrio, mito politico di buongoverno e giustizia, mito architettonico di armonia, utopia reale, mito letterario di morte. Mito che, in tempi più e meno recenti, prende forma di merce da vendere a stuoli di compratori sempre più vasti. Nessuna città ha posto altrettante energie a fare mito di se stessa come questa, dando vita ai suoi multiformi rituali: le feste che segnavano i differenti periodi dell'anno; le cerimonie che circondavano la figura del doge, le processioni, terrestri ed acquatiche, gli spettacoli. Qui, dove la maschera era un capo d'abbigliamento quotidiano, il rito teatrale aveva un posto la cui importanza era riconosciuta anche dalle autorità ecclesiastiche. I massimi gradi della gerarchia intervenivano regolarmente in baùtta alle rappresentazioni. Le organizzazioni religiose spesso possedevano teatri propri e prendevano parte vivace alle attività teatrali della città. L'aristocrazia trovava nel teatro il suo più naturale divertimento e -insieme al ceto "pre-borghese" che vi lavorava- una fonte di reddito, per l'attrazione fortissima da esso esercitata su veneziani e forestieri. 

Ciò che sia i gesuiti che il Consiglio dei Dieci tolleravano -malvolentieri, ma tolleravano- erano le "stanze per commedie" situate in quartieri fuori mano, luoghi di comportamenti "dishonesti", di prostituzione, di disordine, che arrivavano a contagiare i palchi infimi dei teatri più importanti. Il confine fra la libertà e l'arbitrio si sfuma, alla fine del Settecento, nelle luci ambigue della decadenza veneziana. Mentre l'isolamento politico della Repubblica e l'inattualità del suo sistema di governo si fanno più sensibili, la vigilanza sui sottoposti si irrigidisce, onde evitare ogni possibile rivendicazione politica, il libertinaggio aristocratico raggiunge i più sfrenati eccessi. Nella descrizione dei teatri e delle stanze di quei tempi lasciataci da Giacomo Casanova, assiduo frequentatore e protagonista in questi e in quelle delle più mirabolanti avventure, ora ridotto a spia del Consiglio dei Dieci, si può avvertire un tono ambiguo: "...donne di mala vita e giovanotti prostituti commettono ... quei delitti, che il governo, soffrendoli, vuole almeno, che non sieno esposti all'altrui vista...". Siamo nel 1780, fra pochi anni sarà costruito il La Fenice.

In fondo anche il pensiero di un illuminista radicale come frate Carlo Lodoli era l'espressione del tentativo di evitare fratture brusche nella vicenda politica della Serenissima, l'incombere delle quali era avvertito con grave emozione. Alcuni dei suoi discepoli, come il libraio Pasquali, non potranno ricordare senza commuoversi l' opera di appassionata pedagogia illuminista svolta da Lodoli, amico di Giambattista Vico e di Apostolo Zeno, in rapporti epistolari con Montesquieu, frequentatore della casa del console inglese Smith, che costituiva il collegamento fra la cultura veneziana e quella inglese. Il frate aveva riunito attorno a sé i più promettenti rampolli dell'aristocrazia, per formare la nuova classe dirigente sui problemi e le tecniche del buongoverno attraverso lo studio dei documenti amministrativi che era riuscito ad ottenere dal Consiglio dei X. Non a caso, la teoria lodoliana che ogni rappresentazione architettonicamente corretta debba trovare il suo esaustivo fondamento nella sua funzione d'uso rimuove alla base la possibilità stessa di applicare alla progettazione una ideologia, di qualsiasi segno. Sarà questa rimozione a fare del "funzionalismo", che ha qui il suo vortice originario, quasi una metafisica negativa, incubo dell'architettura contemporanea. A Parigi queste teorizzazioni si caricheranno invece di valenze ideologiche positive nel pensiero dell'abate Laugier, che informerà le posizioni di un altro teorico francese, Pierre Patte, il quale a sua volta influenzerà i principali architetti e teorici successivi. Nel momento della costruzione del La Fenice, attorno ai temi dell'ideologia architettonica illuminista e in particolare a quelli che riguardano l'edificio teatrale si era formato un consenso diffuso internazionalmente, in seno alla cultura neoclassica. I teorici illuminati vogliono sopprimere dai loro argomenti ogni evidente ambiguità: "Se non vi si scrive al di fuori: questo è un teatro, nemmeno Edipo ne indovinerebbe l'uso (...). Gli ingressi, le scale, i corridori, sembrano condurre ... a una prigione, e al più sucido lupanare" scrive, vent'anni dopo Algarotti, Francesco Milizia, il più noto italiano fra i primi teorici dell'architettura moderna. Nel suo Trattato formale e materiale del Teatro, pubblicato da Pasquali nel 1773, si trovano le più radicali formulazioni critiche dei teatri allora esistenti e l'ipotesi moderna del suo valore civile. Il paradosso è che saranno proprio le riforme illuminate, frantumando l'intreccio di conservatori, scuole, accademie e compagnie della Calza ad inaridire i muschi sui quali erano cresciuti i teatri musicali veneziani sei- e settecenteschi. Nel secolo successivo e nei primi decenni del nostro molti sipari caleranno per l'ultima volta.

Ispiratore della costruzione del La Fenice è un aristocratico, già discepolo di Lodoli, Andrea Memmo, responsabile della più importante della divulgazione del pensiero del "Socrate dell'architettura" (che di suo non aveva scritto un rigo): gli Elementi dell'architettura lodoliana (1786). Dopo aver ricoperto importanti cariche di governo, Memmo aveva realizzato una delle imprese urbanistiche più "illuminate" della Repubblica, il Prato della Valle di Padova. Egli vuole utilizzare al fine di una rifondazione politica della Repubblica in disfacimento un conflitto d'interessi esploso fra la famiglia Venier e i palchettisti del S.Benedetto, pochi anni dopo l'incendio e la riapertura di quest'ultimo. Caldeggia quindi l'erezione di un nuovo teatro, raccogliendo in un opuscolo dal titolo Semplici lumi tendenti a render cauti i soli interessati (...) prima che dieno il loro voto a quel modello che tra diversi all'occhio lor materiale e non intellettuale maggiormente piacesse (1788) le più recenti formulazioni ideologiche sul tema.

Semper eadem. Il motto dell'impresa del nuovo teatro esprime un ideale di continuità. All'architettura viene fatta l'ambigua richiesta di una forma capace di parlare di una nuova, tutta programmatica, positività sociale del più vecchio dispositivo di spensieratezza aristocratica, che ora aspira a presentarsi come un "nobile divertimento" e a situarsi nei luoghi più centrali della città. Il sito destinato all'edificazione del La Fenice rimane incerto fino all'ultimo. Quello scelto alla fine è prossimo a piazza S.Marco, ma non immediatamente a ridosso, e nemmeno affacciato sul Canal Grande, come volevano precedenti proposte degli architetti Tommaso Temanza e Pietro Bianchi. Il concorso aperto ad architetti "nazionali e forestieri" bandito per il progetto è anch'esso espressione dell'intenzione di allargare gli orizzonti veneziani alle "idee nuove" che ormai circolavano ovunque in Europa. Ma il primo atto della nascita del nuovo teatro è la violazione, con l'appoggio di Memmo, allora Procuratore di S. Marco, di una legge del 1753, che limitava ai sette già esistenti il numero dei teatri della città. Partecipano 28 architetti, fra i quali alcuni dei più noti dell'epoca, veneziani e non, come Cosimo Morelli, attivo soprattutto nello Stato della Chiesa , Giuseppe Pistocchi, responsabile del teatro di Imola e, a Venezia, del progetto di più radicale ispirazione "miliziana" e Pietro Bianchi, veneziano. E' quest'ultimo ad adontarsi e a protestare contro l'ambiguità del verdetto che conferisce al suo progetto il primo premio, una "consolazione", puramente economica, ma assegna la vittoria al giovane Giannantonio Selva.

Nato nel 1751, Selva è destinato a diventare una delle figure di punta del neoclassicismo veneto. Di carattere chiuso e "rustego" era entrato in contatto, nel corso della sua formazione, con l'ambiente intellettualmente più qualificato. Dopo avere studiato l'architettura sotto la direzione di Temanza, aveva passato tre anni a Roma e altri due viaggiando in Europa per impratichirsi nelle diverse forme del costruire. Amico di Canova, protetto dal conte Buonuomo Algarotti (fratello di Francesco) e dal Memmo, era stato lui a disegnare la planimetria del sito allegata al bando di concorso. La qualità più notevole del suo progetto è la semplicità "ideologica", di probabile ispirazione lodoliana, che Selva persegue e che caratterizzerà altri suoi teatri, come il progetto per Trieste (vedi sotto) e quello per Adria. Il teatro annuncia la sua presenza in città con ben due facciate: una sul Rio Menuo per le gondole, che gli aristocratici preferivano quando il tempo era inclemente, e l'altra sul campo S. Fantin, per il pubblico a piedi, di architettura molto semplice e razionale. In una superficie piana, leggermente divisa in campiture da semplici cornici ortogonali, che inquadrano le finestre, due statue e bassorilievi di ispirazione neoclassica. All'interno Selva segue la ormai consueta estetica neoclassica di riunire in fascioni semplici i parapetti, senza eccedere nel rilievo della decorazione. I tempi di costruzione sono estremamente rapidi e in meno di due anni il teatro è concluso e inaugurato il 16 maggio 1792, con I giuochi di Agrigento del conte Alessandro Pepoli. Le cronache ricordano il grande afflusso di turisti in quell'occasione.

"Non c'è governo più traditore e più vigliacco" esclamerà Bonaparte. Mentre gli eserciti delle grandi potenze si preparavano a mettere a ferro e fuoco l'Europa, la diplomazia della Serenissima architettava compromessi e vaneggiava salvezza in una inattuale neutralità. Le carte di Lodoli, inviso agli aristocratici più reazionari, recuperate dopo la sua morte, marciranno nelle soffitte di Palazzo Ducale. La decorazione subisce frequenti modifiche, la prima delle quali, in azzurro e argento, ha luogo in occasione della visita (pacifica) di Napoleone nel 1907. L'anno successivo essa viene completamente rinnovata e lo stesso Selva realizza la loggia imperiale definitiva abolendo tre palchetti. Nel 1828, deteriorata dall'uso e dal fumo delle candele, viene completamente rifatta da Giuseppe Borsato in uno stile nel quale si avvertono le prime pesantezze romantiche. Nel 1836 un incendio distrugge completamente il teatro. Venne incolpata una stufa austriaca, unica intatta in mezzo alle rovine fumanti, carboni e vetri fusi. Si salvarono la facciata, qualche stucco e le restrostanti sale apollinee. La ricostruzione venne affidata ai fratelli Tommaso e Giovanbattista Meduna, allievi del Selva che si misero all'opera nella dichiarata intenzione di ricostruire l'opera del "maestro", non senza tralasciare di correggere, nell'occasione, un certo numero di inconvenienti che si erano manifestati dopo l'inaugurazione. Nel rifare la decorazione i Meduna si ispirarono al Settecento, con spirito romantico.

Com'è normale in una città che deve guadagnare all'acqua ogni pollice di terraferma, nessuno spazio rimane inutilizzato. Il paragone più immediato che salta alla mente di un visitatore, che abbia la fortuna di venir condotto nei più riposti recessi dell'edificio e ragguagliato circa la loro funzione da gente esperta è quello di aggirarsi fra gli organi di un essere vivente di vita intensa. Adattandolo alle loro meno sospettabili esigenze i collaboratori delle messe in scena lo hanno trasformato nel corso degli anni. Il La Fenice è uno degli esempi più significativi della qualità principale della tipologia "all'italiana": la capacità di tenere assieme e far convivere ogni possibile diversità, secondarne gli amplessi, covare i concetti nuovi, aiutarli a rompere il guscio, proteggerli nei loro primi voli e presentare infine al suo pubblico, con la più ricca pompa, le novità così generate.

Venne realizzato allora, sopra le cosiddette "Sale Apollinee", l'attuale il laboratorio di scenografia. Tutti i grandi teatri d'opera ne avevano uno, ma pochissimi lo hanno conservato intatto nel corso delle stagioni. Ancora oggi, fra il personale del teatro, per "scenografia" non s'intende il complesso delle "opere morte" dello spettacolo. Questa parola indica invece solo una attività, la pittura delle tele, insieme al luogo dove si svolge. Situato sopra il foyer, l'attuale laboratorio venne progettato da Meduna nel 1836, di concerto con Francesco Bagnara, allora riconosciuto scenografo veneziano. Accessibile solo attraverso una stretta scala a chiocciola e certi altri disagevoli passaggi nelle soffitte, esso è costituito da uno stanzone ben illuminato da finestroni semicircolari e tutto pavimentato di legno di abete. Nel teatro "all'italiana" il laboratorio di scenografia aveva la sua situazione canonica: fra il soffitto degli ambienti riservati al pubblico (allo stesso livello, in palcoscenico, c'è la torre scenica) e le capriate del tetto, dove potevano venire distesi i fondali perché i solai dovevano portare il minor numero di appoggi. Ecco la ragione funzionale, documentata, delle grandi travi reticolari di legno, capolavori di carpenteria, che sorreggono il tetto: lasciare libero il pavimento per potervi inchiodare, tagliare e dipingere le tele distese. C'erano spazio, luce, aria, collegamento con il palcoscenico.

Nel 1833 vengono effettuati i primi esperimenti di illuminazione a gas, che non danno un esito soddisfacente. Si torna all'illuminazione tradizionale fino al '44, quando viene installato un impianto collegato alla rete cittadina, allora entrata in funzione. Nel 1848, nel corso dell'insurrezione, il palco imperiale venne di nuovo abolito per fare spazio a tre palchetti, come nella Fenice settecentesca, ma subito ripristinato dagli austriaci l'anno seguente. Nel 1854 Giovambattista Meduna vince un concorso bandito per il completo riarredo della sala, che egli esegue questa volta in un gusto "alla Berain, che si accosta a quello che comunemente appellasi Rococò, ma volgente alla Renaissance per renderlo di maggiore sveltezza e leggiadria". La scelta dei motivi decorativi da una "tavolozza" storicistica prelude chiaramente al prossimo avvento dell'eccletismo. Il seguente giudizio di Pietro Selvatico, riportato opportunamente da Giuseppe Pavanello nella sua ricostruzione della vicenda della decorazione del teatro, definisce con esattezza lo stile che è possibile vedere nel La Fenice di oggi:

E' meno babelico, per esempio, il rinnovato teatro della Fenice a Venezia, in onta della colluvie d'intagli dorati che sta inchiodata sui parapetti de' palchetti e del boccascena; ma invece d'essere, come pretenderebbe, un rococò alla Luigi XV, è un'accozzaglia di sfarzose ornature barocche sovrapposte alla rigida linea classica; una parrucca a sacchetto sulla testa di Pericle; la giubba ricamata alla Voltaire sopra l'usbergo di Giulio Cesare (...). E come mai l'ingegnoso cavalier Meduna, nel consultare il Rumpp e il Berain, da cui trasse quella moltitudine di svariati ornamenti, non s'accorse che il rococò ricusa, ad ogni costo, il consorzio colla orizzontale e colla verticale, e ci salta a bardosso, ghiribizzando in capriole ed in iscambietti, tanto perche non sia dato vedere, che a bricioli, quelle sue capitali nemiche? Né con questo intendo dire che manchi di sfarzosa eleganza il teatro la Fenice; non intendo scemar credito a parecchi ornamenti benissimo immaginati; intendo solo dire che tutto le decorazioni non concordano colla vecchia ossatura classica che si volle lasciar intatta.
Pavanello aggiunge che la sala del 1854, proiettata "in un Settecento immaginario, celebrava il mito di un tempo felice, quando la città, allora Serenissima era una capitale della cultura e dell'arte (...). Entrando nella fulgida sala teatrale, il pubblico poteva illudersi che quel passato senz'ombra, quel tempo in cui la città era stata sovrana, lieta, ammirata, fosse tornato a rivivere: era un meraviglioso spazio d'evasione, ideato per resistere all'afflizione dell'età presente".

Il Rumpp, un volume di disegni incisi per mobili in un ponderoso stile tardo barocco tedesco con un uso abbondante della marqueterie e della decorazione intagliata, e il Berain, raccolta di incisioni dell'inventore dello stile Luigi XIV, ai limiti del rococò, sono qui trattati come cataloghi di elementi ornamentali dai quali scegliere gli ornamenti più adeguati al caso. In questa trasfigurazione "commerciale" della sala del Selva si può vedere una bella profezia della Venezia di oggi, divenuta emporio a buon mercato di emozioni "culturali". Alimentato anche dal progressivo incremento del turismo, il carattere conservatore della città non impedì che si apportassero le tipiche modifiche di fine secolo: nel 1878 i palchi del IV ordine vengono sostituiti da una galleria. Nel 1904 vengono eliminate le tramezzature dei palchi laterali del III ordine, così trasformati anch'essi in galleria. La ribalta fu ridotta nel 1937 e realizzato il golfo mistico, contemporaneamente ad importanti lavori in palcoscenico, dove furono realizzati i ponti mobili di sollevamento del piano del palco e rialzata la soffitta e nel foyer, l'atrio
del quale fu raddoppiato. 


da Francesco Sforza, Grandi Teatri Italiani, Editalia, Roma, 1993