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Variazione triestina

Il porto dell'Impero. Piermarini e Pittoni. Il neoclassicismo triestino. Il conte Antonio "Faraone" Cassis e Gian Matteo Tommasini. Selva e Piermarini. Problemi nel cantiere. Arriva Pertsch. Verso il Reichsstil.

Fra la metà del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento Trieste si trasforma da piccolo centro in grande città. Le intenzioni austriache, di farne uno dei più importanti nodi di traffico commerciale, sbocco dell'Impero sul mare adriatico, si concretizzano in provvedimenti economici, istituzioni politiche e nei piani urbanistici che faranno sorgere, attorno al compatto nucleo medievale, i borghi teresiano, giuseppino e franceschino.

Le ipotesi di realizzare un nuovo teatro, qui come altrove simbolo di modernità, provengono dal ceto degli affaristi. Nel 1776 Antonio Mezzodì, orafo, e Carlo Giuseppe Maurizio, commerciante ed "appaltatore di pubblici balli", avevano avanzato proposte alle autorità per la sostituzione del vecchio teatro S. Pietro, giudicato insufficiente e "tutto pieno di schiopature" con un nuovo edificio. Tali proposte vengono respinte perché "tutto il pubbblico sarebbe stato vittima dei capricci, dell'arroganza e dell'ingordigia di un privato". Seguono altri progetti e proposte, spesso con la richiesta esplicita di creare per l'erigendo teatro una situazione di monopolio, di fronte ai quali le autorità si mostrano tiepide. "Pour moi je suis toujours persuadé que notre théatre est suffisant pour 30 ans encore", afferma in una lettera del 1784 il barone Pierantonio Pittoni, una figura di spicco nella vita amministrativa e culturale della città, sottoposta al rigido controllo imperiale. Egli manifesta un flemmatico distacco anche quando l'ipotesi della realizzazione di un nuovo teatro viene avanzata da Giuseppe Piermarini, realizzatore sei anni prima della Scala di Milano, capitale del Lombardo Veneto. "Mr. Piermarini voudroit abattre la maison de ville pour faire un nouveau théatre. Ça m'a surpris d'abord, mais dès que Giusti m'a expliqué son caractère, j'en ai été convaincu, qu'il voudroit fare une trés grande dépense, pour avoir beaucoup à faire", scrive nel 1784.

La rivoluzione francese e le guerre napoleoniche faranno la fortuna della città. "Il nostro commercio prospera sulla distruzione d'Europa, e ciò mi fa pena". E' ancora Pittoni, capo della polizia e futuro direttore del teatro, frutto proprio di quella prosperità, che scrive nel 1795 al conte Carlo di Zinzendorf. Nonostante i pesanti contributi di guerra imposti dai francesi nel 1797, all'atto della prima occupazione della città, le attività commerciali riprendono la fase espansiva dopo il trattato di Campoformio, raggiungendo un livello di floridezza mai prima conosciuto. Pur colpita da tre gravi epidemie di vaiolo, la popolazione della città aumenta in modo continuo.

Il livello qualitativo dell'architettura fa anche lui un balzo in avanti, in seguito alla facilità di importare manovalanza e progettisti. Il gusto architettonico dell'epoca, facilitato dalla notoria funzionalità degli apparati amministrativi austriaci, troverà qui l'occasione di cristallizzarsi, facendo di Trieste uno dei complessi neoclassici più unitari d'Europa. Le due più importanti realizzazioni di questo periodo, il Teatro e la Borsa, interessano una zona limitrofa al nucleo più antico del centro della città, già occupata dal cantiere della Compagnia orientale, dove si sposteranno funzioni fino ad allora gravitanti sulla centrale piazza S. Pietro.

Il Teatro e la Borsa sono il espressione del particolare rapporto che l'amministrazione austriaca imponeva al florido ceto mercantile borghese. L'insufficienza del S.Pietro era ormai lamentela comune e l'Handbillet dell'imperatore Giuseppe II, del 1784, mette fine alle esitazioni circa l'opportunità di realizzare il nuovo teatro. Il conte Steinlein, capo della Cesarea-Regia Direzione degli Edifici Militari, avanza una ipotesi progettuale. Le proposte si moltiplicano, senza successo, da parte del Corpo Mercantile e di funzionari commerciali particolarmente prestigiosi. Fra loro c'è da un misterioso personaggio, spinto a Trieste dalle condizioni particolarmente favorevoli agli affari e forse da qualcos'altro.

Arrivato con capitali rilevanti, ne celava gelosamente le fonti. Si sa che, profugo da Damasco, riparò a Genova nel 1780 e che da lì passò a Venezia, da cui però dovette ripartire per il desiderio della Repubblica di non "dispiacere al Sultano". Nei primi tempi a Trieste vestiva all'orientale e andava sempre accompagnato da due piccoli mori. Creato conte del Sacro Romano Impero, fu anche insignito del titolo di eccellenza ed ascritto nel numero dei "Patrizi di Trieste". Chi fosse in realtà Antonio Cassis era questione che aveva eccitato a Trieste le più pigre curiosità. A lui che univa il mistero alla ricchezza, il nomignolo di "Faraone" era particolarmente appropriato.

Date l'insuccesso delle ripetute istanze del conte Antonio "Faraone" Cassis sia alle autorità locali che a quelle viennesi per il permesso di edificare un teatro, si potrebbe sospettare che Gian Matteo Tommasini, commerciante livornese che svolgeva funzioni di console del granduca di Toscana Ferdinando II e che riuscì ad ottenerlo dalla Cancelleria Aulica, abbia agito da prestanome; visto che solo un mese dopo il contratto con il municipio egli vende il progetto del teatro al Cassis, al quale del resto già apparteneva l'area interessata, molto centrale, e che sul frontone del teatro venne applicato lo stemma del Cassis, poi soppresso. In pratica fu il Tommasini a rimanere il protagonista della costruzione. A lui tocca dirimere le molte questioni da essa sollevate.

L' impresa del nuovo teatro assume fin dall'inizio il carattere di una trattativa "commerciale" fra un privato da un lato e l'amministrazione della città dall'altro. Tommasini intende fondare, con il teatro, una impresa redditizia: prevede di affiancare alla sala teatrale una sala da ballo, "per sua propria speculazione" e avanza anche lui pretese di monopolio, che vengono contestate da Pittoni. Formalmente l'amministrazione difende il diritto di Tommasini a scegliere l'architetto. Ma contemporaneamente gli offre, insieme all'autorizzazione ad edificare, "sette fogli di eccellenti planimetrie e spaccati" elaborati dalla Cancelleria Aulica come suggerimento.

E' il 1798. A Trieste, i più credibili modelli di edifici teatrali sono evidentemente due: la Scala di Milano (1778), capitale dell'amministrazione imperial-regia, per ragioni politiche. E il recentissimo La Fenice di Venezia (1792), per l'affinità culturale e la vicinanza geografica della Serenissima. Affidarsi al Piermarini, architetto-funzionario, espressione diretta dell'apparato amministrativo e riconosciuta autorità in campo di progettazioni teatrali, avrebbe probabilmente significato per Tommasini rinunciare ad ogni autonomia, per quanto riguardava la formulazione del progetto. Non sorprende dunque il suo orientamento verso il funzionalismo radicale e culturalmente motivato di Giannantonio Selva, l'amico di Canova, il fine architetto del teatro veneziano. Selva godeva inoltre della simpatia del conte Pompeo Brigido, un influente aristocratico vicino agli ambienti veneti, destinato ad assumere la carica di governatore della città.

La prima facciata disegnata da Selva è semplice e razionale come la dimostrazione di un teorema. Sulla sua superficie piana emerge uno scarno colonato d'ingresso, che ricorda da vicino quello disegnato per La Fenice. Un solo ordine, ionico, per le colonne del primo piano. Nessun tentativo di mascherare l'asimmetricità dell'impianto interno nel prospetto verso il mare, che contiene la grande porta di servizio del palcoscenico.

Ma a Trieste gli appoggi di cui gode Selva non sono paragonabili all'influenza e al prestigio del vecchio Memmo a Venezia. La burocrazia, che approva i disegni entra nel merito delle sue scelte progettuali. Il conte Steinlein li definisce "abbozzi", critica la facciata "troppo semplice e povera" e ne suggerisce una rielaborazione. Alla semplicità programmatica, della quale è avvertibile la matrice lodoliana, viene opposta la decoratività ufficiale del Reichsstil. D'altra parte si preme sul Tommasini, facendo presenti gli impegni presi e i termini di consegna. Sui piani rielaborati da Selva si appuntano in seguito nuove critiche, questa volta circa la forma della sala ed altri dettagli dell'interno. I disegni vengono encomiati, ma soltanto un mese dopo vengono richieste nuove modifiche, questa volta del tutto formali, alla composizione della facciata. Mentre Tommasini, che avverte che le cose stanno prendendo una brutta piega, commissiona ad un altro architetti un nuovo progetto di facciata, che immancabilmente viene scartato, arriva da Venezia la risposta del Selva, una sostenuta protesta della sua responsabilità di progettista:

"Ogni autore buono o cattivo ch'ei sia ha il proprio carattere ed è quello che forma l'originalità. Niente di peggio che il risultato di varj caratteri. Perciò insta l'autore che non siano alterati gli ornamenti della facciata poiché sarebbe togliere l'effetto di quell'insieme ch'egli si è prefisso e dal quale ne ridonderà a lui solo il biasimo o la lode.

A lui credere l'aggiungere ornamenti alle finestre indicate del secondo ordine sarebbe pregiudicare a quella semplicità che in tal parte si è prefissa. Ha in ciò la scorta de' più accreditati autori, e il solo Palladio ne porge copjosi esempi. Venezia, 20 febbraio 1799 Gianantonio Selva, Architetto Veneto".

Un errore, probabilmente. Improvvisamente, il 9 marzo 1799, a soprintendere alla realizzazione del progetto del Selva viene nominato Matteo Pertsch, un giovane architetto tedesco, nato a Buchhorn sul lago di Coblenza nel 1769, ma sopratutto discepolo a Brera, fra il 1790 e il 1794, di Giuseppe Piermarini. Le prime modifiche apportate dal Pertsch al progetto del Selva vengono immediatamente approvate.

Richiesto di un parere sulla questione Piermarini scrive da Milano pesanti critiche del Selva alle autorità. In cantiere i lavori ritardano in seguito alle continue modifiche apportate al vecchio progetto, ma il consigliere Guicciardi respinge seccamente le lamentele di Tommasini al riguardo, scaricando su di lui tutte le responsabilità. Pertsch da parte sua impone con malagrazia di disfare il già fatto e gli animi si scaldano fino ad un urto violento fra l'architetto tedesco e il "proto-muratore" Francesco Zucca, che minaccia di dimettersi. Tommasini coglie la palla al balzo e congeda Pertsch. Questi pretende il pagamento immediato e trattiene tutti i piani dell'edificio. Tommasini comunica la cosa a Guicciardi, chiamando Pertsch "prepotente e incivile". Guicciardi rimanda i contendenti dal giudice, ma impone la restituzione dei disegni.

Alla fine sorgerà un edificio "senza padri". La facciata è attribuibile a Pertsch, ma non senza difficoltà: il cronista dell' "Osservatore", all'indomani dell'inaugurazione, non nomina nessuno dei due architetti, pur riferendo le misure, esatte fino allo scrupolo, della nuova opera. Il teatro sarà attribuito a Pertsch solo nel 1807, dalla piccola guida di Trieste di Ignazio Kollman.

La facciata realizzata ricorda da vicino quella della Scala, da cui differisce per l'adozione di un ordine gigante, già presente nel secondo progetto di Selva ed esteso da Pertsch alle ali laterali. Il risultato è stato riconosciuto addirittura migliore di quello della Scala, ma certo ha perso la sobria linearità originaria, per uniformarsi, come La Scala, al codice stilistico del Reich. Ne è stata notata la somiglianza con il castello di Klesheim di Fischer Von Erlach a Salisburgo. Ma, a differenza della Scala che, pur manifestando una propria autonomia, tende ad usare un linguaggio abituale alla configurazione della città per non romperne il tessuto, il teatro triestino, anche se di misure più contenute, vuole imporsi con una presenza monumentale. Come manifestazione della "Kaisertum Oesterreich" esso entrerà nella pubblicistica. Pertsch, che inizia la sua attività con questo progetto, diventerà la figura di maggior rilievo del neoclassicismo triestino.

Il teatro venne inaugurato il 21 aprile 1801 dall'opera "Ginevra di Scozia, libretto di Gaetano Rossi, musica di Simone Mayr, se "impensate combinazioni" non avessero reso impossibile la rappresentazione dell' "Annibale in Capua" di Antonio Salieri.

Solo pochi anni dopo l'inaugurazione, l'impianto originario mostrerà una certa inadeguatezza funzionale. Le polemiche scoppiate durante la progettazione e la grande sala da ballo "speculativa" voluta da Tommasini avevano gravato sulla struttura degli ambienti di servizio al palcoscenico, che per il buon funzionamento di un teatro hanno importanza vitale, e risultavano ridotti fin dalle origini al minimo indispensabile. D'altra parte l'evoluzione civile della città portava al teatro frange sempre più consistenti di borghesia medio piccola e di popolo, che tendevano a riempire tutti gli spazi liberi, mentre l'evoluzione della tecnica esecutiva induceva la crescita dell'orchestra. Prende avvio così una lunga serie di modifiche e proposte di ampliamento del teatro per adeguarlo al nome di "Grande" che gli era stato imposto per distinguerlo dagli altri teatri della città. Sull'originaria impostazione rigorista dell'organismo tutte queste modifiche hanno un sapore di forzatura, tanto evidente quanto di incerta efficacia.

Secondo la vecchia tradizione, alcuni palchi vennero arredati con lusso; ad esempio quello al n. 9 del primo ordine, che aveva specchi con cornici di legno mogano, forniti di viticci per le candele, guanciali di seta, una cortina di "manto" alla porta e pitture eseguite da Giuseppe Bisson, che costavano 70 fiorini d'Augusta. Già nel 1821, solo venti anni dopo l'apertura, viene abbassato il pavimento della platea, per agevolare la visione del palco ai suoi occupanti. Originariamente il teatro aveva 5 ordini di palchi e il "loggione", formato da 11 palchi centrali e due zone laterali libere a disposizione della "plebe". Nel corso dei molti rimaneggiamenti tutti i palchi degli ordini superiori al secondo vengono eliminati per fare posto a capaci gallerie, prefigurando quello che sarà l'impianto tipico dei politeami. L'aspetto odierno deriva dai grandi restauri condotti da Eugenio Geiringer, che realizzò l'attuale, profondo loggione, cambiando la struttura e la posizione di quasi tutte le scale e costruendo l'attuale facciata verso il mare, che avanza di qualche metro la vecchia fronte settecentesca. Sistemazioni vennero compiute nel 1898 e nel 1930.

Ai ripetuti rinnovi della decorazione della sala partecipano Alessandro Sanquirico, già attivo a Milano, Tranquillo Orsi e Cosroe Drusi, collaboratori nella decorazione del La Fenice nel '37, il triestino Giuseppe Gatteri e molti altri. Quella visibile oggi è opera di Josef Horwath, un giovane architetto viennese, realizzata nel 1884.

Abbondano, nella storia dell'edificio, le proposte di ristrutturazioni radicali, come quella di Meduna, (1841) Scala (1873) Boccardi e Polli (1905) , E. Nordio (1922), U. Nordio e V. Frandoli (1935). Il nome del teatro cambierà cinque volte: "Nuovo", D"Di Trieste", "Grande", "Comunale" e "Verdi". Nel 1861 la proprietà del teatro, rilevata nel 1835 da Moisé Hirschel dagli eredi del Cassis, passa al comune. La direzione rimane nominata dai palchettisti. Il quarto ordine è trasformato in galleria centrale, mantenendo però nove palchi per lato. la decorazione viene rifatti a in stile "pompeiano". Alla fine del 1889 la galleria viene estesa ai palchi residui e nel 1930 si ricava un'altra galleria dal terzo ordine. Nel 1919 la direzione del teatro diventa di nomina comunale. Le stagioni vengono ancora appaltate ad impresari privati. Nel 1846 viene adottata l'illuminazione a gas e nel 1889 quella elettrica. La capienza, seguendo la tendenza generale già segnalata, cresce dai 1400 posti dell' inaugurazione ai 2000 dopo i restauri del 1884, ai 2100 posti previsti dagli ultimi permessi di agibilità.

La riforma dell'orchestra venne iniziata nel 1906, con il suo abbassamento di 40 centimetri e l'ampliamento in senso longitudinale, decisamente sporporzionato al vecchio impianto, è portato a termine nel 1960.


da Francesco Sforza, Grandi Teatri Italiani, Editalia, Roma, 1993
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