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Il teatro delle farfalle

Il teatro di Casa Savoia. L'incendio del 1936 e il progetto di Morbelli e Morozzo della Rocca. Carlo Mollino. Pregi e difetti dell'impianto del Regio. Organicismo ironico quasi sarcastico.

Il ruolo aulico dell' antico teatro di casa Savoia, modello in questo del S.Carlo, persiste nella centralissima posizione del Regio. A pochi anni di distanza dal S. Carlo, e in questo suo modello, esso nasce come appendice del palazzo della casa regnante. I suoi membri possono recarvisi attraverso una galleria aperta nelle Segreterie. Il nome di "Regio" nasce in verità prima, nel 1681, quando fra i tanti luoghi dove venivano eretti teatri effimeri se ne privilegiò uno, il Salone delle Feste in Palazzo Vecchio. Fu Carlo Emanuele III ad avvertire l'esigenza di stabilizzare gli spettacoli, a dimostrazione della continuità della fortuna della casa Savoia.

L'architetto di corte Juvarra é da lui incaricato nel 1733 del progetto di un nuovo teatro, non realizzato, ma precedente diretto di quello che verrà costruito nel 1740 e concepito come parte integrante delle strutture dove s'accentrava il potere. Il primo Regio, nel sito attuale, è costruito da Benedetto Alfieri, dopo la partenza di Juvarra per la corte di Spagna. Un gruppo di aristocratici, riunito nella "Società dei Nobili Cavalieri", si accollerà parte delle spese di costruzione. Il conte Nicolis De Robilant si interessa della parte scenotecnica. Il teatro, costruito su una pianta ad ellisse e con volta concava, viene giudicato favorevolmente dai visitatori esteri impegnati nel rituale grand tour in Italia e gode di una notevole fortuna letteraria. "Le plus étudié, le mieux composé, le plus complet qu'on voie en Italie... le plus richement et le plus noblement décoré qu'il y ait dans le genre moderne", così lo definisce J. J. Lalande nel suo Voyage d'un François fait en Italie dans les années 1765-1766. Ammesso nelle tavole dell'Enciclopedia costituirà per decenni uno dei riferimenti di prammatica per la progettazione e la costruzione dei grandi teatri europei. L'ingresso principale, attraverso i portici della piazza, ispirerà l'ingresso al coperto della Scala. Gli accessi per i "Domestici e la Gente ordinaria" sono differenziati da quelli dei frequentatori dei palchi. Vicino ad una sala con funzioni di foyer si trovano ambienti per il gioco e botteghe per rinfreschi.

Per tutto il Settecento il Regio rappresenta un tipico esempio di teatro barocco, sede di una vita artistica e mondana solo parzialmente condizionata da quella ritualità protocollare, istituzionale e già larvatamente moderna, che caratterizzava a Napoli le apparizioni dei Borboni al S.Carlo. A Torino, salvo che nelle occasioni più importanti, la corte preferisce sedere nelle logge di proscenio. Il teatro fu inaugurato il 26 dicembre del 1740 con l'Arsace, libretto di Antonio Salvi, scene di Giuseppe Galli Bibiena e musiche di Francesco Feo. Già cinque anni dopo si rendono necessari i primi lavori di restauro. La vita del vecchio Regio, architettura di festa anche nei materiali impiegati, è punteggiata da interventi di manutenzione, fino all'incendio che la dissolverà nel 1936.

Con l'arrivo delle truppe napoleoniche il teatro cambia nome e diventa Teatro Nazionale. Vengono apportate lievi modifiche secondo il gusto del tempo, la cui più significativa sembra essere la trasformazione del palco della Corona in "sei Loggie uniformi alle altre già esistenti". Si ordina quindi di scrivere "a Caratteri d'oro Teatro Nazionale" e di trasformare gli ornamenti a giudizio del cittadino incaricato dell'operazione "purché sieno democratici e Repubblicani", e i colori "Repubblicani Francesi". Tali trasformazioni "rivoluzionarie" hanno un sapore quasi farsesco: viene costituita una società degli "Exnobili", incaricata di "provvedere (...) che venga nel prossimo Carnevale esposto sulle scene "un Dramma Serio Repubblicano colla solita magnificenza degli anni scorsi". Poi il nome cambia ancora, prima "Grand Théâtre Des Arts", poi -al passo con le fortune napoleoniche- "Imperiale". Anche la Restaurazione si attua senza traumi, consistendo in un semplice ritorno del teatro al nome precedente e in una riorganizzazione dei vecchi cerimoniali, affidata fra gli altri a due personaggi dell'aristocrazia dai nomi pittoreschi di Gran Falconiere e Gran Cacciatore. Spese per adeguamenti e manutenzioni si continuano a compiere con la consueta oculatezza.

Carlo Felice, il Savoia più appassionato di spettacoli, preferì affidare la gloria del suo nome al teatro che fece edificare a Genova (ne parliamo nel prossimo capitolo) da poco annessa e non manifestò per il Regio particolari riguardi. Con Carlo Alberto, salito al trono nel 1831, l'architetto Ernesto Melano viene incaricato di una completa ristrutturazione insieme al noto artista bolognese Pelagio Palagi, che cura la decorazione secondo l'ormai diffusissima e un po' stanca moda neoclassica, con pronunciate venature di romanticismo, nell'intenzione espressa di "trasportare l'immaginativa degli spettatori in età passate; dando al teatro moderno alcun ché d'antico". La trasformazione, effettuata nel 1837, non incontra il favore dei torinesi e, se pure mancano critiche aperte, vive il rimpianto tradizionalista per il vecchio teatro reale. Anche in questo tardivo adeguamento al gusto corrente ormai diffuso si può cogliere un parallellismo con il S.Carlo, ristrutturato una quindicina di anni prima da Niccolini. Ma mentre il teatro napoletano era stato completamente ricostruito dopo l'incendio, quello torinese sarà oggetto di un' operazione di maquillage, sia pure in grande stile, con la quale il nuovo re vuole sottolineare la propria modernità. Non si interrompe per questo il lavorìo attorno alle infrastrutture dell'edificio, ai deterioramenti delle quali si é continuamente costretti a far fronte. La contablità di corte continuerà a scandirne con minuzia documentaria la storia. Si arriva così alla data, fatidica, del 1848. Per quanto attiene alle cose strettamente teatrali e torinesi, si configura in questo anno il passaggio di poteri (e di oneri) dall'amministrazione centrale a quella cittadina. La Corte si mostra sempre più intenzionata, anche per la crescita dei costi delle rappresentazioni, a staccarsi dal teatro, che rimane così una entità autonoma, la cui "sorveglianza e direzione" resta delegata al questore e -per la prima volta, e non senza qualche polemica- al sindaco della città. La questione del passaggio al Comune andrà avanti una ventina d'anni e si concluderà solo il 6 luglio 1870. La composizione sociale del pubblico scende di livello e la programmazione si adegua ad esso, moltiplicando le rappresentazioni e accogliendo le opere più popolari.

Emotivamente, Torino era rimasta legata al Regio di Alfieri, tanto che nel 1861 l'architetto Angelo Moja riceve l'indicazione di rinnovare la decorazione della sala, ancora bisognosa di cure, rifacendosi all'originaria decorazione "barocca". Anche questa strana trasformazione, nella quale l'architetto non fa uso dei documenti, pur disponibili, ma segue piuttosto un orientamento eclettico (fra due anni sarà costruita l'Opéra di Parigi), raccoglie un modesto consenso e non elimina l'aura di inadeguatezza che aleggia sul Regio. Cavour stesso si era preoccupato del problema, più che altro per assicurare la sicurezza degli uffici limitrofi, la cui vicinanza al teatro, in quell'epoca di frequenti incendi, era considerata pericolosa. Così nel 1856 l'architetto Domenico Ferri aveva stilato cinque eleganti progetti che prevedevano la realizzazione di un nuovo teatro, in un sito diverso, ma che rimasero sulla carta e gli servirono solo ad ottenere altri incarichi di prestigio. Da questa data le ipotesi di costruire un teatro completamente nuovo si susseguono: nel 1860 è presentato un progetto Martin-Franklin; lo stesso anno uno di Carlo Farcito di Vinea di fare un teatro in palazzo Madama. Simile il progetto Polani, apparso nel 1881. Nel1888 Daniele Donghi presenta un "Progetto di teatro diurno e notturno con anesso salone e dipendenze ad uso del Municipio di Torino" a piazza Venezia. Nel 1888 Salvatore Levi ipotizza un Politeama nel giardino della Cittadella. Tutti rimarranno irrealizzati. Ancora nel 1888 viene proposta dall'architetto Ferdinando Cocito una riforma del vecchio Regio. Nel 1900 Comune incarica l'architetto Ceppi di studiare i miglioramenti possibili. Quattro anni dopo sarà la volta del progetto dell'architetto Antonio Vandone.

Alla fine i nuovi lavori, divenuti improrogabili per una rigida ordinanza prefettizia di chiusura del vecchio e fatiscente teatro, saranno affidati a Cocito. Una grande galleria si apre sopra la sala, che prende così una forma simile ad un politeama, con tre ordini di palchi, capace di circa duemila spettatori. Cresce anche la volumetria dell'edificio, che sarà inaugurato il 26 dicembre del 1905. Cospicui e costosi lavori di ampliamento e migliorìa verranno compiuti ancora fra il 1924 e il 1927. Poi, nel 1936, un incendio misterioso distrugge completamente la sala. La reazione degli amministratori è pronta e l'anno seguente viene bandito un concorso per la ricostruzione del teatro, richiedendo ai progettisti una capacità di tremilacinquecento posti, in linea con l'inclinazione del fascismo per le grandi folle. L'anno seguente è nominato il progetto vincitore, redatto dagli architetti Aldo Morbelli e Robaldo Morozzo Della Rocca, diretto antecedente del progetto del Regio di oggi. La realizzazione iniziò nel 1938, ma fu interrotta dalla guerra. Riducendo a duemilasettecento i posti richiesti, Morbelli e Morozzo avevano ipotizzato una sala simile a quella risultata dalla ristrutturazione operata da Cocito trent'anni prima, dove tre ordini di palchi separavano una vasta platea da due capaci gallerie. Nel 1848 il Comune, forse sull'abbrivio delle megalomanie del passato regime, chiede ai progettisti di portare a quattromila posti la capacità del costruendo edifico, inaugurando così una lunga serie di ripensamenti e polemiche che dureranno fino al 1965. Nel dibattito le sinistre ripropongono il tema di una "casa della cultura", sopratutto destinata alla edificazione culturale dei ceti più popolari. Nel 1965 di una "Nuova impostazione del progetto" saranno incaricati Carlo Mollino, titolare della cattedra di composizione architettonica della Facoltà di Architettura e gli specialisti (Zavelani Rossi, Sacerdote e Vaccaneo) che già collaboravano con l'arch. Morozzo, il quale così risulta il solo a venire sostituito.

Dalla forte personalità di Mollino, che rompe con la vicenda storica che si era accumulata sulle sale precedenti nasce un' architettura tipicamente novecentesca.

"Nell'atrio un po' scuro di un albergo, nel luglio del 1960, credetti di vederlo ed esclamai: "che fai a Napoli?. Si trattava invece di Eduardo De Filippo", racconta Roberto Gabetti. Nel panorama italiano degli anni '50 e '60, Carlo Mollino è un personaggio tanto notevole quanto difficilmente classificabile. Nato nel 1905, la sua vicenda architettonica e artistica, facilitata dalla professione del padre, costruttore, si dispiega fra il primo e il secondo dopoguerra e segue una linea del tutto originale, evitando ogni partecipazione ai diversi "manifesti" o "movimenti" nei quali gli intellettuali di quel periodo cercavano di costruire soggetività collettive da contrapporre alla "banalizzazione" imposta da un divenire storico fattosi urgente e che sembrava pronto a travolgere ogni tentativo isolato di resistenza. All'opposto, Mollino si arrocca in un isolamento sdegnoso e spesso ironico, in cui si avvertono echi chiari dei temi che allora agitavano i più sensibili artisti italiani ed europei: "La polemica sull'architettura iniziata e condotto in Italia per opera di due uomini indimenticati ed uccisi nella rabbia di due gruerre mondiali, Sant'Elia e Pagano, è viva ed attuale più che mai". Ricorre nella rara critica che non ha trascurato di occuparsi di lui il riferimento alle conclusioni del grande surrealismo, da Man Ray, a Gaudì, a Dalì, alle quali egli sembra avvicinarsi senza interrompere la lettura delle opere Croce, la cui fondamentale dialettica fra contenuto e forma è rintracciabile in tutto il suo lavoro.

"La società oggi non ha forma e quindi non ha stile: la facilità tecnica, grafica, visiva, di comunicare anzi rappresentare immediatamente e contemporaneamente documenti di vita e perciò di gusto anche lontanissimi nello spazio e nel tempo, non l'ha educata: l'ha confusa, viziata, imbarbarita. La società ha cessato di pensare, informatissima e incolta". La storia fornisce ormai all'architetto, solo di fronte all'opera, nient' altro che materiali, frammenti. In Mollino, la contrapposizione fra individuo e società è strutturale, insanabile: "L'artista attuale è fatalmente condannato a questa torre d'avorio anche quando dà la sua fede alla massa e alla collettività". Alla base delle sue decisioni c'è una problematica etica vissuta fino alla provocazione.

Difficile individuarlo, eppure riconoscibile in una qualsiasi delle molte maschere che amava indossare: architetto, ma anche artigiano, aviatore acrobatico, pilota di macchine da corsa, fotografo, scenografo cinematografico, romanziere. Voleva volare. Nella sue opere polimorfe, che vanno dalla scrittura alla scenografia, dal design all'urbanistica, nutrite di una profonda e vissuta preparazione filosofica, ricorrono due temi semplici: l'ansia della donna e quella dell'ascensione e della velocità. La prima trova spazio nelle "ambientazioni" delle sue privatissime garçonniéres, teatri della sua tragedia privata, dove Mollino, armato di macchina fotografica, attira, cattura, profana, ritocca e riproduce all'infinito la forma misteriosa del corpo femminile, tuffandosi senza esitazioni e con piena coscienza nell'eccesso e nel cattivo gusto. La seconda lo trasporta a disegnare e pilotare velivoli acrobatici e automobili avveniristiche, anima la sua passione per lo sci e l'alta montagna, la sua ammirazione per Antonelli, l'architetto della Mole. Questa poetica dello scatto, del movimento, così diffusa negli anni di formazione di Mollino, in lui si fa guizzo caratteriale, depurato dalla retorica futurista, ma piuttosto costretto in un insistente lavorìo attorno alle minuzie artigiane della produzione industriale: Mollino disegna cloche, giunti snodabili, mobili e oggetti di design nei quali sono state rintracciate le leggere strutture di macchine volanti, scatti animali, profili femminili. Fra questi due estremi si dispiega una produzione architettonica della quale il teatro Regio è una delle ultime occasioni: Mollino morirà solo, nel suo studio, pochi mesi dopo l'inaugurazione.

La maggior parte dei pregi e dei difetti dell'impianto teatrale del Regio è riconducibile più agli orientamenti correnti che alle scelte soggettive dell'architetto. La sospensione del giudizio nei confronti della dimensione ideologica dell'opera proposta non significa però agnosticismo: "... sono contrario al teatro totale che considero uno svilimento della realtà. E nemmeno credo che sia il caso di parlare di teatro polivalente... Ci sono tante sale a Torino per fare della cultura ... la mia prima preoccupazione è stata quella di far coincidere l'architettura attuale con lo spirito dell'ambiente del teatro lirico". Nell'occasione specifica, egli si riallaccia al progetto del gruppo Tedesco-Rocca-Pellegrini, presentato al concorso del '37, e lascia lo studio del funzionamento tecnico ed acustico della "macchina" ai tecnici che avevano già lavorato per Morbelli e Morozzo Della Rocca. La disposizione dei posti in sala è a platea unica, posta su un declivio abbastanza pronunciato, e la distanza massima fra i posti più lontani e la linea di boccascena arriva così a 40 metri. Attraverso la mediazione wagneriana e in parallelo con l'affermazione delle idee democratiche, l' atto di accusa dei teorici illuministi ai palchetti riscuoteva da decenni un rinnovato consenso. Nella seconda metà del XIX secolo le critiche che abbiamo visto lanciate contro la depravazione morale simboleggiata dai palchetti si ripresentreranno identiche e dove i borghesi avevano odiato "le oziose ciance" degli aristocratici dell'ancien régime, i nuovi progressisti vedranno -effettivamente, del resto- sedere gli odiosi detentori del capitale. La critica classista ai palchetti diventerà poi un luogo comune della ideologia novecentesca. La soluzione "egualitaria" a platea unica sarà tipica di molti progetti di teatri contemporanei. Altra caratteristica corrente per i progetti teatrali di questi anni è come abbiamo visto la presenza di una sala teatrale più piccola nel sotterraneo, per 400 posti.

Gli elementi tipici dell'edificio teatrale vengono assemblati insieme come citazioni, come il lampadario, descritto come una "nuvola luminosa"; o come l'unica fila di palchi in barocca degradazione verso la scena; o ancora come la decorazione del soffitto, "arabesco ad incastri di un gusto che, volendo sottilizzare, si potrebbe definire un felice travestimento barocco". Il perimetro della sala, a ferro di cavallo, appare anch'esso una citazione, debolmente motivata dalla corona dei palchetti, 36 in tutto. La descrizione del progetto redatta da Mollino offre una metafora di gusto organicistico: "...una forma intermedia fra l'uovo e l'ostrica semiaperta, dove alla cerniera delle valve corrisponde il palcoscenico". Il boccascena, il punto più delicato della sala, è ridotto a un'apertura ovale. L' organicismo distaccato ed ironico assume un gusto amaro: per esso Mollino propone "un aggettivo...ancora alla moda: psichedelico, forse inconscia profanazione ad opera di quel gusto che, volenti o nolenti, muta in noi col mutare del tempo". Il palcoscenico viene realizzata una macchina gigantesca, capace di penetrare attraverso l'apertura "a video" nella sala, creando in essa uno spazio scenico centrale in mezzo agli spettatori. Zavelani Rossi è contrario, ma in questo caso Mollino insiste per realizzare una macchina "celibe" che, nella vita successiva del teatro, non verrà mai utilizzata.
 
 

Interno del RegioE quasi un sarcasmo. Cura particolare Mollino dedica alla scelta del colore delle poltrone, ottenuto con la mescolanza di due rossi, vermiglione e carminio, con i quali egli ottiente una tinta "cinabro" che risale le pareti fino allo sbalzo dei palchi. La ricerca di una particolare tonalità di rosso si trova anche in Oberon, un romanzo che Mollino aveva scritto molti anni prima: "un rosso micidiale ... Oberon cercava proprio quel rosso, forse quello della maschera de La morte rossa di Poe". Il foyer, che spesso è stato definito "piranesiano", è forse l'ambiente più caratteristico della poetica dell'architetto torinese, con un sistema di passerelle che portano ai punti d'ingresso in sala e distribuiscono i percorsi del pubblico verso le uscite, evitando qualsiasi corridoio. Un passo, nel romanzo già citato, sembra anticiparne di trent'anni la descrizione: "Ma nessun artificio varrebbe a costruire tanta potenza di sensazione, senza architettura; è come se un rito solenne mancasse nel tempio. La folla fissa soggiogata il prodigioso padiglione, sale come allucinata, senza trovare ostacoli, le leggere scale, color lilla delle caramelle, lungo la pancia purpurea del cilindro e senza sapere come si trova in alto, a livello della balconata ... sente, senza sapere con precisione, che va a vedere qualche cosa di molto emozionante. Questa, per noi, è vera architettura". Lo spettacolo del romanzo era una sfida alla morte quasi circense, in motocicletta.
 
 
 

"Nel suo studio, Mollino disegnava il marchingegno per tracciare le centine del controsoffitto e l'attacco del mancorrente alle ringhiere... -racconta P.Enrico Seira, testimone del cantiere- era bello vedere le solette nervate diramarsi in tutte le direzioni, sostare un poco sulle esili colonne d'acciaio a croce e ripartire con sbalzi spropositati. I lavori di rifinitura hanno attutito non poco questo effetto". Pochi anni prima dell'assegnazione dell'incarico era stata stupidamente demolita una delle sue creazioni più poetiche ed apprezzate, la sede della Società Ippica, della quale forse qualcosa rivive nel Regio. "Dentro tutti gli spazi possibili devono coesistere perciò non è possibile esprimersi con l'ordine gerarchico della prospettiva". Piccoli salottini, scale mobili, grappoli di lumi di sfere bianche di vetro sono disseminati nel vasto ambiente, utilizzabile anche separatamente dalla sala teatrale, che assume così i connotati, sconcertanti in un ambiente pubblico, di un privato estroflesso. La forma delle pareti vetrate, dalle quali traluce la vita interna di questa inquietante architettura, somiglia a quella dei fianchi di una donna, o meglio al profilo di una guêpière, uno di quei capi di biancheria intima femminile piccante, descritti in cataloghi che furono rinvenuti, copiosi, nello studio dell'architetto, dopo la sua morte.

Questo teatro è, chiaramente, "firmato". Ai nomi comuni dell'ideologia e ai loro vari camuffamenti - qui in scelte ideologiche di forma e funzione di una sala teatrale, là in scuole architettoniche che fondano, analogamente, la loro identità su una supposta "resistenza all'eccletismo"- Mollino oppone la sua eroica vicenda personale e la sua compromissione diretta: "...verso quel totale eccletismo ci avviamo e da esso prendono vita le opere autentiche (...) opere che esprimono appunto l'individua realtà di questo volto comune che è il nostro mondo, il nostro gusto". Questa contrapposizione fra autenticità individuale e banalità è alle origini di un'architettura contemporanea che è stata frequentemente definita "barocca" e si propone umanissima e tragica. Mollino non faceva mistero di non essere interessato al teatro e di andare molto più volentieri al cinema. Eppure alla sua morte ne aveva progettati quattro e realizzati due, oltre ad una fantastica sala da ballo. Nel suo riconoscibilissimo stile, "personale", nel senso etimologico di maschera: che racconta della libertà "invidiabile" dell'architetto, demiurgo di una sfera immaginaria nella quale il committente, il pubblico hanno "la consistenza di una farfalla o di un pipistrello".


da Francesco Sforza, Grandi Teatri Italiani, Editalia, Roma, 1993