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Il complesso dell' Opera

Il Colosseo simbolo di Roma, il grande teatro simbolo della città capitale. Mirabilia Urbis. Cristina di Svezia. Una vicenda di progetti imponenti. Roma capitale d'Italia. Antonelli e De Merode. Domenico Costanzi. La prima di "Tosca". Lo spettro del Colosseo e Marcello Piacentini. La Radio e l'Auditorium. Il progetto di Ludovico Quaroni.

E' Roma la grande città che tutti i grandi teatri vogliono evocare. L'associazione fra i due concetti ha origine nelle rappresentazioni della città santa, che un solo particolarissimo oggetto rendeva distinguibile dalle altre, almeno fino al "cupolone" di Michelangelo: il Colosseo. Pochi edifici esistenti hanno dato luogo ad una stratificazione semantica paragonabile alla sua. L'anfiteatro venne costruito dalla dinastia dei Flavi, nella seconda metà del primo secolo dopo Cristo. Già la sovrapposizione degli ordini, che ne caratterizza il semplice esterno, divenuta nel Rinascimento canone compositivo degli architetti, ha un originario accento teatrale. Essa è tipica della architettura dell'Impero e si ritrova sopratutto nell'interno dei teatri, sulle elaborate frons scenae e nel loro esterno curvo. Disposto sulla semplice e gigantesca forma ellittica, il doppio di un doppio della città dispega così nella storia una straordinaria forza simbolica.

Nessuna descrizione manca di inserirlo nelle mirabilia urbis. Verso il XII secolo la sua forma convessa, traforata, scandita da colonne e facilmente riconoscibile, comincia ad apparire, insieme i primi elementi della città reale nelle rappresentazioni fino ad allora completamente fantastiche della città eterna, un cerchio di mura con generiche case all'interno, che illuminavano i codici miniati. Si dice che sorgesse, vicino ad esso, una colossale statua di bronzo di Nerone, alta trentadue metri, e che fu questa a dargli il nome. Un'altra ipotesi etimologica, meno attendibile, apre le porte dell'era cristiana: colis eum, adoralo.

La credulità medievale affermava che una costruzione tanto grande poteva essere solo opera del diavolo. O, diceva qualcuno, del mago più potente che l'umanità non cristiana avesse mai conosciuto, Virgilio. Proprio quel Virgilio che Dante eleggerà a guida del suo viaggio iniziatico che si snoda, fra simboli pagani, in uno spazio la cui somiglianza col Colosseo è stata più volte osservata. Luogo di martirio e di meraviglia, questo edificio, dove si diceva essere uno specchio che rifletteva "tutto il mondo", diventa luogo di memoria del cristianesimo medievale e passa nella letteratura, più o meno utopistica, e nell'iconografia rinascimentali unendo le valenze classiche a quelle religiose. L'idea che una città si identifichi con un grande teatro approda così alle prime formulazioni dell'ideologia urbanistica moderna.

Nella Roma barocca, pullulante di teatri allestiti con effimere impalcature di legno nei cortili e nei saloni dei palazzi aristocratici, il tema di "un teatro lapideo ... secondo l'uso degli antichi romani" appare in una esercitazione accademica, nel 1732, cinque anni prima della costruzione del S. Carlo di Napoli. In un progetto per un teatro presso il palazzo Riario alla Lungara della regina Cristina di Svezia, celebre promotrice delle art, figura un teatro costruito ex-novo e simile per impianto ai modelli classici. Sarà sempre Cristina di Svezia a far edificare il teatro Tordinona, o Apollo, nel 1670, la cui storia è intrecciata con la nascita dell'attuale teatro Dell' Opera. Nel 1789 l'Accademia di S. Luca bandisce un concorso per un grande teatro moderno nell'area occupata dal convento delle Convertite, sulla via del Corso, a pochi metri da piazza Colonna.

Ha inizio qui una vicenda di ipotesi e di progetti imponenti, in alcuni dei quali si può intravedere la forma curva del Colosseo, indice della presenza di uno spettro architettonico che si presenta e scompare con crescente frequenza a partire dalla metà del XIX secolo. Nel 1821, Pietro Sangiorgi ipotizza un grande teatro, di un neoclassicismo già ibrido, nello stesso sito del concorso di trent'anni prima. Un altro progetto di "Gran Teatro Italiano" é databile attorno al 1850. Un "nuovo teatro municipale" viene studiato da una commissione nel 1852. Nello stesso periodo due architetti, Luigi Fedeli e Antonio Lovatti, presentano altre due ipotesi che partono ancora dall'area delle Convertite per coinvolgere una vasta zona attorno a piazza S.Silvestro. In questi progetti, con molta evidenza, il senso della misura è un vestigio del passato: si tratta di strutture gigantesche, nelle quali sono ipotizzate sale per oltre quattromila spettatori assieme a cortili, piazzali, passaggi, botteghe, Borsa, Camera di Commercio, stabilimento di bagni, Accademia di S. Cecilia, ristorante, birreria, appartamenti da affittare e varie altre cose, oltre naturalmente alla soddisfazione del di superare per costi e dimensioni i maggiori e esempi esistenti. Queste scatenate frenesie fiorivano in quel mondo incantato e ormai del tutto inattuale, così ben descritto da Gregorovius, l'immobilismo (apparente) del quale era considerato dal più reazionario dei cardinali, Antonelli, una grazia celeste.

Nel settembre del 1870, approfittando della prima grande guerra moderna, le truppe d'assalto della giovanissima Italia si preparavano a dare al Vaticano la spallata decisiva. E' noto che Pio IX si rifiutò di aprire la città e volle che scorresse del sangue: poco, ma del tutto inutile. Come la decapitazione di Luigi XVI, la Breccia di Porta Pia è una violenza gratuita e sopratutto simbolica. Rotto a cannonate il fragile diaframma delle mura, nel giro un decennio alla città non più eterna verranno invece imposte gigantesche trasformazioni. Oppresso e sventrato il delicato tessuto di parchi e costruzioni rinascimentali e barocche che si trovavano dietro di essa, impassibili ed anonime facciate di ministeri si allineeranno lungo l'asse Pio, ora ribattezzato via XX Settembre, in una penetrazione che culmina con l'insediamento del re d'Italia nel palazzo del Quirinale e l'obbrobrio del Campidoglio michelangiolesco, soffocato dalla eccessiva e volgare colata marmorea del Vittoriano. Se il trasferimento della capitale a Firenze era stato la "prova generale" della degradazione di Roma, da caput mundi, a capitale d'Italia, già da tempo capitalisti, diseredati ed avventurieri andavano a Roma a cercar fortuna. La stampa papalina addita con disprezzo i nuovi venuti a seconda della provenienza geografica: "cafoni", "burini" e "buzzurri" rispettivamente dal sud, dal centro e dal nord. La quiete artificiale in cui la reazione al "progresso" aveva sospeso la città nell'ultimo decennio è definitivamente sconvolta.

Via Nazionale si chiamava, in origine, via De Mérode, dal nome di un alto prelato "moderno", detestato da Antonelli. Belga, ex ufficiale della Legione Straniera, sotto Pio IX era stato ministro delle Armi e aveva attribuito a sé stesso l'ufficio di Edile Curiale. Ora il "moderno" monsignor Francesco Saverio De Mérode collabora con la nuova amministrazione della città. Resosi padrone di una vasta prorietà terriera nella zona detta dei "monti", situata fra il Quirinale e la nuova stazione ferroviaria -l'unica reale modernizzazione realizzata da Pio IX verso la fine degli anni '50- gi&agra.ve; nel 1866 aveva iniziato un piano di sviluppo, che informerà il piano regolatore del 1873, attorno alla grande arteria che doveva unire la stazione ferroviaria con piazza Venezia. Si salva dalla lottizzazione una modesta area attorno al cinquecentesco villino degli Strozzi, "delizioso ricovero" di Vittorio Alfieri, immerso in "solitudini immense in quel circondario disabitato".

Domenico Costanzi, intraprendente maceratese, si era stabilito nella città già nel 1851, avviandovi una fiorente attività di costruttore e proprietario di alberghi. Nel 1875 egli realizza, a ridosso di via Nazionale la "locanda (allora si chiamavano così gli alberghi migliori) del Quirinale", ancora esistente. In quegli anni lo spettacolo esercitava una irresistibile attrazione sui nuovi ceti ed era considerato una impresa lucrosa. Politeami vengono proposti e realizzati in varie parti della città in via di sviluppo, dove vanno a costituire le pietre miliari dello sviluppo urbanistico. Risale a quest'epoca la prima collocazione di uno di essi sulla via Flaminia, anticipando le attuali ipotesi di collocazione dell'Auditorium, ma con il chiaro intento della valorizzazione di un'area allora periferica.

Nel 1876 Costanzi acquista l'area compresa fra la locanda Quirinale e il villino Strozzi, da quelli che l'avevano acquistata a loro volta dal De Mérode all'indomani della Breccia, e presenta subito una proposta al Comune perl'edificazione di un politeama nel nuovo quartiere. Il progetto, redatto dal milanese Achille Sfondrini, è pubblicato nel 1879. L'edificio è pensato nello "stile cinquecentesco", lo stesso del politeama Fiorentino e di tanti edifici pubblici dell'epoca. L'interno, capace di 3000 posti, è organizzato in tre ordini di palchi e due capaci gallerie. La decorazione è bianco e oro, i palchi sono scanditi da archi impostati su esili colonnine. Alla "Casa Reale" è riservato un palco di proscenio. L'illuminazione è a gas. La situazione urbana "fuori mano" e le sue caratteristiche intrinseche destinano chiaramente questo edificio a spettacoli popolari.

Intanto, con il fervore imprenditoriale che caratterizzava i primi anni della "liberazione", l'annoso discorso di un grande teatro riprende vita. Erano da poco iniziati i lavori di fondazione del Costanzi che lo spettro del Colosseo compare nuovamente, questa volta sotto le spoglie di un "Progetto di nuovo Teatro Regio" a firma di un ingegnere, Adolfo Lepri. La relazione segnala la necessità di sostituire il glorioso Apollo, che sorgeva a ridosso del Tevere. Il Consiglio superiore dei Lavori Pubblici ne aveva infatti deliberato la demolizione, nell'ambito dei grandi lavori destinati ad eliminare la piaga ricorrente delle inondazioni con la costruzione degli argini oggi esistenti. Mentre Lepri avanza la fantasia di un "edificio contenente il Teatro Regio nel centro, un Politeama e un'Arena nei due lati; e nei piani superiori un Liceo o conservatorio musicale, scuola di ballo, ecc." per far apparire l'altro suo, meno impegnativo, progetto del solo "Teatro Regio" una "inevitabile necessità", Costanzi riconsidera la sua ipotesi alla luce dei nuovi dati emersi -sopratutto del vuoto che avrebbe lasciato la demolizione dell'Apollo- chiama Sfondrini e gli ordina di rivedere il progetto. Sfondrini aggiunge un ordine di palchi e sistema la loggia reale nella posizione canonica al centro del secondo ordine. La crisi dell'edilizia della fine degli anni '80, colpirà anche questo cantiere, ponendo Costanzi in difficoltà economiche e costringendolo a vendere due importanti proprietà per pagare i debiti contratti nella costruzione del teatro. Come per il Massimo di Palermo, l'acquisto di palchi, proposto all'aristocrazia romana, non aveva suscitato alcun interesse. Gli ordini di palchi vengono così di nuovo ridotti a tre.

Il 27 novembre 1880, affidato a "Cencio" Jacovacci, lo stesso impresario che gestiva la stagione dell'Apollo, il teatro vene inaugurato con la Semiramide di Rossini. L'orchestra è affondata sotto il livello della platea "come nel teatro di Bayreuth"; il pubblico e la stampa non mancano di notarne la poca sonorità: " la banda del palcoscenico soverchiava l'orchestra...", "L'orchestra del Costanzi è troppo scarsa". Re Umberto e la regina Margherita presenziano all'inaugurazione e la candidatura alla successione all'Apollo, che verrà demolito nel 1889, è consolidata. Rimarrà l'Argentina a contendere il primato cittadino al teatro, ora preso in gestione dall'editore Sonzogno. Esso ospiterà importanti prime di Pietro Mascagni ed espugnerà la vetta con la prima assoluta di Tosca, il 14 gennaio del 1900. Domenico Costanzi era morto due anni prima.

Non per questo lo spettro si quieta. Nel 1886 il Consiglio Municipale decide di costruire un nuovo teatro, ora battezzato "Massimo", di fronte al vecchio Argentina nell'area oggi archeologica. Il progetto é firmato dagli architetti Cipolla e Grimaldi. All'inizio la cosa è presa sul serio, ma poi si arena su difficoltà negli espropri. Un altro progetto di teatro "Massimo" viene proposto da Augusto Prefetti al posto del palazzo delle Esposizioni di via Nazionale, realizzato da Pio Piacentini nel 1880. Nel 1914, in piena guerra mondiale, si ha notizia di un progetto di ampliamento del Costanzi, impostosi ormai come il più importante teatro romano, con la realizzazione di un palcoscenico gigantesco. Il progetto è firmato da un certo architetto Hay e rimane sulla carta. Subito dopo la marcia su Roma la società che gestisce il teatro avanza proposte di trasformazione alle autorità, per sottrarlo finalmente alle riserve che la modestia originaria dell'edificio continuava a suscitare.

Ma lo spettro visita ora Marcello Piacentini, avviato a diventare uno dei principali architetti del regime. Questi pubblica un opuscolo intitolato"Studi per il teatro massimo di Roma", che si apre con una radicale demolizione di ogni possibilità di miglioramento del Costanzi e avanza la prosposta di costruire un teatro ex novo sull' area occupata dai frati cappuccini, dove poi realizzerà, quasi dieci anni dopo, l'arcigna mole del ministero dell'Industria. Un occhio esacerbato potrebbe trovare questo edificio, ritmato da pilastroni, dalla rotondità del quale deriva la curva del tratto inferiore di via Veneto, una inquietante somiglianza col Colosseo. Tre anni dopo il Governatorato di Roma, ereditando il sogno secolare, delibera la trasformazione del Costanzi in "edificio destinato a sostituire per ora la costruzione del grande teatro lirico", affidandola allo stesso Piacentini. Il suo progetto vuole sottolineare la inadeguatezza del vecchio teatro, all'esterno con un cinquecento fuori moda e trascurato nei dettagli, all'interno con pesanti eccessi di dorature e senza alcun intento monumentale, che sarebbe risultato, secondo afferma con poca eleganza l'architetto, inadeguato alle "squallide bruttezze degli edifici prospicienti quell'area".

Il teatro fu ribattezzato "Teatro Reale dell'Opera". In quell'occasione furono apportate modifiche che compresero la realizzazione di ponti mobili idraulici per il sottopalco e la realizzazione del sipario di ferro. Nel 1928 venne realizzato un quarto ordine di palchi, che si trovò previsto nel progetto originario di Sfondrini. Si apportò qualche modifica funzionale al prospetto, che rimase però provvisoria. Nel 1933 il "Lavoro Fascista" ipotizzò un grattacielo di ferro e di acciaio dovre avrebbe potuto trovare sede il teatro lirico della capitale. Intervenne il musicista Casella, sostenendo la necessità di un teatro capace di almeno 4000 posti, accanto al quale si sarebbe dovuta realizzare una sala da 500 posti per spettacoli opere barocche e composizioni moderne. La sensazione di inadeguatezza del Costanzi, dichiarata e perseguita da Piacentini ed ammessa ma molti, rimase.

Fin dall'inizio della sua attività (1926) l'EIAR fa eseguire e trasmette, quando non appositamente commissiona, un numero strabiliante di opere (98 nel 1929, 63 nel 1931, 64 nel 1932, 53 nel 1933, 59 nel 1934, e così via) con grande successo di pubblico, alcune eseguite nelle stesse sedi di Roma e Torino dell'emittente, altre registrate dal vivo nei teatri, con evidenti problemi tenici. La politica culturale del regime crea le premesse per la realizzazione del "teatro di masse" nella duplice direzione dell'opera all'aperto e per radio, con lo sviluppo della quale allo spettro del "grande teatro" si affianca quello, straordinariamente somigliante, dell'Auditorium. Questo e quello compariranno insieme, negli anni '30 e fino alla guerra fra le grandi opere sognate dal Regime. Con la caduta del primato culturale dello spettacolo musicale, durato quasi tre secoli, il progetto di un "grande teatro per Roma" tornerà nell'ombra. Alcuni fra i più importanti teatri della capitale come il Manzoni e il Drammatico saranno demoliti o, come l'Adriano, passeranno ad altre funzioni. Nel 1959 sul vecchio Costanzi cala come una maschera funebre una nuova facciata, firmata da Piacentini morente ma fatta in realtà da un aiuto.

Negli anni '80-'85 l'amministrazione di sinistra torna a vedere nella costruzione di un teatro una mirabile occasione per una sua ri-fondazione della città, affidandola alla penna di un architetto fra i più critici e disincantati della generazione del dopoguerra: Ludovico Quaroni, che intitola il progetto, con luccicante triplo senso, "il complesso dell'Opera" e redige una relazione disseminata di luoghi comuni:

"Un edificio per il teatro deve esso stesso, indipendentemente dagli spettacoli che ospiterá, essere "spettacolo", rappresentare l'idea stessa della amministrazione comunale che pensa al tempo libero e alla sua cultura. In questo senso non dovrá preoccuparsi di essere bello nel senso intellettuale della parola, ma solo di generare in chi lo guarda prima di entrarvi, o semplicemente passandovi davanti, l'idea ufficiale, accademica se vogliamo, di edificio pubblico "rappresentativo". ... la stessa opinione della committenza, tramite Aymonino, mi è sembrata meno importante dell'assunto di fare all'esterno quanto in piú tempi è stato fatto all'interno, sia pure con altro spirito, forse con altri mezzi, con altra, ridotta, mia competenza. ... le soluzioni di primo approccio presentate vogliono essere l'occasione di un discorso con la committenza, non basato soltanto sulla parola scritta. Dai commenti liberi che verranno io cercheró di capire...

Il tentativo di repêchage ideologico è inconsistente e illusorio. Tutto il progetto trasuda la coscienza di essere destinato a rimanere sulla carta. Tafuri: "I commentatori hanno creato, intorno a questo ex tempore di occasione, un dibattito sproporzionato al suo valore ... Un ammasso di carta frettolosamente disegnata rimane a ricordare il tentativo di offrire un segno di nuova progettualità rivitalizzando il clima architettonico e le forze professionali, ma in definitiva chiedendo all'architettura di fare spettacolo, sostituendosi a una debolezza programmatica".


da Francesco Sforza, Grandi Teatri Italiani, Editalia, Roma, 1993