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Il palco reale

Il Leviatano. L'unica capitale d'Italia. La magnificenza civile. Prime sedie in platea. Abitudini del pubblico napoletano. Topografia del controllo. Niccolini e la facciata neoclassica.

"Questa sala ... è un colpo di stato. Essa lega il popolo al re meglio della costituzione concessa alla Sicilia, che si vorrebbe avere a Napoli..." dice Stendhal nel 1826. Ottant'anni prima, quando il teatro venne costruito, il vocabolario politico non conosceva certo la parola costituzione. Andava piuttosto facendosi sempre più evidente come l'esistenza e la permanenza di un potere politico fosse il risultato di equilibri, guerre, intrighi politico-dinastici e a volte di equilibrismi, in una scacchiera europea dalla quale gli stati non potevano più considerarsi indipendenti. I primi segni della presenza del Leviatano, il gigantesco animale, allegoria hobbesiana del grande stato moderno, erano in questa Europa le città capitali.
 

Nel S. Carlo di Napoli sono riassunti i caratteri dell'epoca barocca e si manifestano i primi segni della seguente. L'aspetto arcaico dell' impresa è la situazione urbanistica: il teatro nasce infatti, nel 1737, come protuberanza laterale della reggia. Moderno é invece l'obiettivo che Carlo III di Borbone persegue, seppure per episodi -come l'apertura di strade e la costruzione di palazzi- non integrati in un vero piano: dare a Napoli la forma di una capitale europea, paragonabile a Londra, a Parigi, ma sopratutto a Vienna. Un' altra osservazione di Stendhal confermerà il successo dell'impresa: "Napoli è l'unica vera capitale d'Italia". Le cronache insistono sulla rapidità della costruzione (270 giorni), significativamente affidata ad un militare: l' "ingegner colonnello" Giovanni Antonio Medrano. Raccontano anche della subitanea apertura, durante la recita inaugurale, di un collegamento diretto con la Reggia del quale Carlo III, arrivando, aveva lamentato la mancanza. L'aneddoto è falso, ma segnala adeguatamente le intenzioni del sovrano: controllare direttamente quanto avveniva nel teatro ed essere prontamente ubbidito. Sul sito occupato dagli alti e disadorni bastioni del palazzo del viceré, l'"ingegner colonnello" progetta la nuova sala a partire dai migliori e più recenti esempi di teatri: l'Argentina e l'Alibert di Roma, il Filarmonico di Verona e il progetto juvarriano del Regio di Torino. Il teatro viene dedicato a S. Carlo Borromeo, il grande controriformatore.


Si voleva che fosse un luogo del tutto particolare. Il personale che vi lavorava godeva di una speciale giurisdizione militare, che lo sottraeva al giudizio dei tribunali ordinari. Unita al rigido controllo stabilito sull' edilizia ecclesiastica, la creazione di questa ambita "immunità", simile per qualche verso alle tradizionali prerogative delle immunità religiose, sembrerebbe sottolineare l' orientamento antipapale e "neoghibellino" della nuova monarchia, testimoniato nel nuovo teatro dalla frequenza di Metastasio, il "poeta cesareo", nel repertorio e dal ritmo "viennese" delle stagioni, scandito da onomastici e genetliaci della famiglia reale.

Un diplomatico sabaudo chiamava il meridione italiano "les Indes de la cour de Vienne". Napoli allora era un vivace centro commerciale, tappa obbligata per viaggiatori, più o meno esperti dei teatri delle più importanti capitali europee, e quindi inclini a stabilire confronti. Nei diari di viaggio di De Brosses, Sharp, De La Lande, Burney, Duclos, Sade, Coyer, Kotzebue, Orloff, Stendhal, Mayer, il S. Carlo occupa un posto di rilevo ed apre spesso l'elenco dei monumenti visitati. Non manca di sorprendere la sua eccezionale ampiezza. "Vi posso garantire che il solo palcoscenico del teatro di Napoli è più grande di tutta la platea dell'Opera di Parigi" racconta nel 1740 Charles De Brosses. Gli architetti vengono a rilevarne la pianta e a prenderne le misure. Inizia qui la lunga rincorsa alla magnificenza civile, nella quale i teatri d' Europa si contenderanno la palma dei primati quantitativi, sia in generale che per parti: il teatro più grande in assoluto, la sala più capace, il palcoscenico più vasto. Le rappresentazioni grafiche dei vari teatri arriveranno ad adottare espedienti prospettici più o meno raffinati per far apparire più vasto di quanto non sia lo spazio della sala, e i responsabili a dichiarare capienze esagerate. In questa gara il magnifico prende il posto del bello, e viene a sua volta soppiantato dal puro e semplice "grande". Così nel S.Carlo al palcoscenico si oppone il palco destinato al sovrano. Questi, come vedremo, tornerà presto a preferire gli spettacoli privati all'interno della reggia, lasciando la sala al gusto meno raffinato dei numerosi spettatori.

Il fenomeno della crescita numerica del pubblico, e con essa delle misure e del numero dei teatri, ha dunque rilevanza europea e continuerà da allora senza interruzione, permettendo ai visitatori di stabilire paragoni. Abituati alle misure raccolte degli altri teatri, che non contenevano di solito più di mille persone, e spesso molte meno, essi non mancano di segnalarne i difetti: "...si deplora, per quanto possa piacere allo sguardo, la grandiosa ampiezza del teatro: le voci si perdono nell'immensità dello spazio e anche l'orchestra, per numerosa che sia, ne viene a soffrire", afferma Samuel Sharp, un viaggiatore inglese. De Brosses riferisce che il re "ha il suo palco nella seconda fila, di fronte alla scena: la distanza è eccessiva, data la grandezza smisurata del teatro, in una parte non si vede nulla, mentre nell'altra non si sente una nota. I teatri Aliberti e Argentina a Roma sono molto meno grandi, più comodi e raccolti".

A Napoli, la funzione di luogo d'assemblea di notabili era stata svolta fino ad allora dal teatro di S. Bartolomeo. Il suo impresario, Angelo Carasale, verrà incaricato di smembrare il vecchio teatro, riutilizzandone il legname nella costruzione del nuovo. Il re permetterà l'erezione, in suo luogo, della chiesa ancora esistente della Graziella. La nobiltà, che aveva al S. Bartolomeo palchi in "fitto perpetuo", si affretterà a partecipare alle spese di edificazione, gareggiando per il palco più o meno vicino a quello reale. "I palchetti dal n. 10 al n.19 furono riservati al Re e alla corte; il n. 9 toccò al cardinale Acquaviva d'Aragona, il n. 8 al principe di Francavilla, il n. 7 al principe di Maddaloni, il palco n. 6 al Principe di Stigliano, il n. 20 al principe di Avellino, il n. 3 al principe della Riccia, il n. 1 al duca di Belcastro. E così si schierò attorno al re Carlo III tutta la nobiltà del regno" (Croce). Nelle capitali che, come Torino e Napoli, non aveva no "subito l'ascendenza delle istituzioni comunali nel Medioevo e nel Rinascimento" (Rosselli), ogni aspetto della attività dei teatri rispondeva alle direttive di governo.

La disposizione del pubblico nei palchi era visibilmente gerarchica. Come il piano nobile dei palazzi gentilizi, nei teatri "il secondo ordine (non importa se fossero in tutto quattro, cinque o sei) era sempre il più aristocratico, e infatti, in tutti i teatri primari tranne quelli di Trieste e Livorno, era quasi esclusivamente occupato dalla nobiltà, almeno nella stagione di punta. In alcuni teatri il primo e il terzo ordine avevano lo stesso rango del secondo, ma di norma erano un po' meno prestigiosi e quindi un po' meno cari; i palchisti di questi ordini, in qualche teatro primario o secondario, comprendevano membri dell'aristocrazia insieme a banchieri e professionisti: avvocati, medici, funzionari" (Rosselli). Nella consuetudine barocca la platea era una sorta di piazza coperta frequentata da servi e clienti, nella quale si poteva trovare al massimo qualche panca di legno. Ora fanno la loro comparsa in essa poltroncine, munite di chiave secondo un uso dei teatri veneziani, che si potevano affittare sera per sera con poche restrizioni (non poteva entrare "gente storpia di plebe"). Fra questa gente "nuova" l' "Intendente" assicura con maniere quasi poliziesche il rispetto di una rigida etichetta. L'applauso spontaneo è proibito: occorre attendere il primo segnale di gradimento dato dal re, l' unico inoltre a poter richiedere un bis.

Il 4 novembre 1737, giorno onomastico del sovrano ebbe luogo l'inaugurazione con l'opera Achille in Sciro, libretto di Pietro Metastasio, musica di Domenico Sarro.

Ai contemporanei il S. Carlo appare dunque più adatto agli spettacoli grandiosi che non al raccoglimento necessario alle esecuzioni musicali. E il pubblico, con il suo comportamento, sembra confermare questa inclinazione "Subito dopo il tremendo fracasso che fa il l'uditorio durante la rappresentazione dell'opera, ecco comincia il ballo: e subito il silenzio si fa generale. C'è chi sostiene che si potrebbero benissimo udire i cantanti se il pubblico se ne stesse più silenzioso... I napoletani vanno a vedere e non a sentire l'opera", racconta perplesso Sharp.Il palcoscenico è vasto abbastanza per accogliere evoluzioni di militari, cariche di cavalleria quasi vere, trionfi con animali esotici come cammelli ed elefanti, al limite della portanza delle strutture del palco.

Il sovrano sembra apprezzare più gli oggetti offerti alla sua vista che non al suo udito e non commuoversi più di tanto alle esibizioni dei più famosi castrati. Situato nel secondo punto focale della sala, opposto al palcoscenico, il suo palco, enfatizzato da una gigantesca corona posata su di esso a mo' di baldacchino, gli consente di godere della più perfetta illusione scenica e di dominare con il solo volgere dello sguardo la nobiltà distribuita nei palchi. Quest'ultima, per guardare lui, deve invece, con molta evidenza, girare la testa e il corpo. Le donne, tradizionalmente in prima fila, sono soggette allo sguardo di quest'unico uomo, che ordina agli altri militari e giovani cavalieri di non trattenersi sulle scale del teatro "per fare gesti amorosi e disonesti e dire parole alle dame che vanno nei palchi". Nel teatro si delinea una sorta di topografia del controllo erotico-sociale.

Di carattere erotico-sociale erano stati del resto gli equilibrismi politico-dinastici di cui si era servita Elisabetta Farnese per insediare il proprio figlio, Carlo III di Borbone sul trono delle Due Sicilie. Ci resterà una ventina d'anni, per poi prendere il mare verso la Spagna. Il suo successore, Ferdinando, già negli anni '60 era tornato a preferire al S. Carlo una sala del palazzo, ove era allestito, come prima della costruzione del S. Carlo, un "teatro particolare", facendovi tra l'altro rappresentare opere buffe, che al S. Carlo erano interdette. Nel 1768 il riarredo di questa sala fu affidato, come poi quello del S. Carlo, a Ferdinando Fuga. Nel 1774 l' Orfeo di Gluck venne dato su ambedue i palcoscenici: l'originale, con tre personaggi e cinque mutazioni, per il gusto elitario del sovrano e della sua piccola cerchia; una versione più adatta al gusto corrente, sfrondata dei tratti più innovatori, con otto personaggi e sette mutazioni, al S. Carlo. Nato per enfatizzare la presenza del re, il palco reale finirà per sottolinearne le assenze, sempre più frequenti.

Nel corso del Settecento l'interno del teatro, organizzato dal Medrano secondo curve, pieni e vuoti tipicamente barocchi, viene rifatto un paio di volte, nel 1742 secondo indicazioni di Giovanni Maria Galli Bibiena, e nel 1776 da Fuga. Vennero apportate modifiche al boccascena, nel tentativo di migliorare l'acustica, inserendo in esso grandi colonne corinzie e alcuni palchetti di proscenio, che però susciteranno critiche per il "pregiudizio -così arrecato- per l'illusione dello spettacolo".

Dopo i moti del 1799 il "Real Teatro" venne ribattezzato "Teatro Nazionale". Questo cambio di nomi fu, fino al 1809, la modifica più rilevante, anticipazione di un intervento analogo, ma più radicale e significativo: la realizzazione di una nuova facciata. Il teatro si era andato caricando di valori civili e pedagocici. Conforti, ministro dell'iterno a Napoli nel 1799, afferma: "Se vi è un'istituzione pubblica per i giovanetti, una ve n'è ancora per gli adulti, necessaria sopratutto a tutti coloro, che sono stati avviliti sotto a un lungo dispotismo. Essa è appunto l'istituzione che si presenta ai cittadini sotto il velo del piacere. Il Teatro, onde si propaga ugualmente il vizio e la virtù, a misura della direzione che gli si da deve formare uno degli oggetti più gelosi della cura e della vigilanza delle Amministrazioni, per non soffrire, che il popolo venga da altri sentimenti animato che da quelli del patriottismo, della virtù e della sana morale". L'architettura, soprattutto religiosa, manierista e barocca, si era servita della facciata come di uno strumento retorico, curvandola, spostandola a volte dall'asse principale di simmetria e facendole perdere gradualmente la relazione con l'edificio che caratterizzava l'architettura rinascimentale. La cultura illuminista raccoglie questo elemento architettonico ormai autonomo e lo carica dei propri valori morali e politici, che prendono ancora una volta a modello l'antichità classica. La facciata deve annunciare alla città ed ai suoi abitanti, dotati di diritti civici, l'organismo che copre. Lo stile neoclassico contrapponeva, in architettura, semplici e dinamiche volumetrie alla complessa opulenza delle ultime metamorfosi del barocco e del rococò, nelle quali era individuata la persistenza dell'ancien régime. 

L'ingresso originario del S. Carlo era poco più di un portone. I suoi frequentatori abituali conoscevano bene la sala che si trovava dietro di esso. Il suo splendore era solo per loro. Quando Gioacchino Murat salì sul trono sentì il bisogno di intervenire sull'edificio che aveva rappresentato, forse più d'ogni altro, la struttura politica precedente. E ordinò all'architetto francese Lecompte di disegnare una nuova facciata, che presentasse alla città il teatro, non più "Reale", ma "Nazionale". Dopo alcune polemiche fu lo scenografo del teatro, Antonio Niccolini, ad ottenere l'incarico. Il suo lavoro, ispirato ai più autorevoli esempi francesi, incontrò i gusti dell'epoca: "Ci congratuliamo dunque col signor Niccolini per averci dato un edificio che porta in fronte il carattere dell'uso a cui è destinato", fu il saluto del "Corriere di Napoli". In tempi più recenti un critico come Emil Kaufmann, nella sua Architettura dell'Illuminismo, ha classificato in questa architettura fra i migliori esempi dei principi compositivi delle tendenze moderne:

"Ciascuno dei due piani è disegnato individualmente ed è posto in urto con l'altro nel modo più energico. Le colonne del secondo piano sono in contrasto con l' orizzontalismo del cornicione laterale e della balconata. Sotto la balconata stessa pannelli a rilievo e piccole nicchie si alternano, in libero ritmo, con la scansione delle aperture in alto e in basso. E' scomparso tutto ciò che era caro ai costruttori barocchi: non solo la concatenazione, l'integrazione, la gradazione, ma anche il movimento e la flessibilità. Eppure, sebbene ogni parte sia indipendente, il complesso possiede una vigorosa unità". Nei casi più estremi gli architetti "illuministi" compongono facendo riferimento a forme geometriche pure (il cubo, la piramide, la sfera) e semplificando al massimo gli ordini classici, preferendo fra questi i più semplici, il dorico e lo ionico. Ma anche in quelli che continuano ad identificare nei maestri del Rinascimento i loro modelli la moda neoclassica è avvertibile, sopratutto nella semplicità della decorazione, nella ricerca di chiarezza espressiva, nel rapporto dinamico e spesso contraddittorio fra i differenti volumi, nei giochi di ombre e di luci che annunciano il romanticismo. Nella facciata di Niccolini, cinque archi vigorosamente bugnati si contrappongono ad una fila di colonne ioniche, con dinamica semplicità. All'interno l'architetto opera alcune trasformazioni, introducendo un lampadario centrale -del quale Stendhal osserverà l'effetto di appiattimento delle decorazioni sceniche- e sostituendo la decorazione del soffitto, che fingeva un ordine di palchi dipinto in falsa prospettiva -molto criticato- con un velario di stucco, ad imitazione delle tende che coprivano i teatri classici.

Fu il fuoco, ospite temuto quanto frequente dei teatri illuminati con fiamme vive, a rendere necessario, nel 1816 il completo rifacimento della sala, della quale venne incaricato lo stesso Niccolini, la cui nuova facciata si era miracolosamente salvata dall'incendio. Senza recepire le indicazioni dei trattatisti più radicali, che propugnavano strutture a gradoni simili a quelle dei teatri di epoca classica, l'assetto interno della sala è semplificato con piccole modifiche: i parapetti dei palchi sono raccolti in fasce unitarie, rese evidenti dall' arretramento dei tramezzi di separazione. L'arcoscenico è sottolineato da quattro colonne corinzie e si apre, davanti ad esso, una fossa d'orchestra. Il velario di stucco viene ripristinato. Su di esso è dipinto Apollo che presenta ad Athena i grandi poeti del mondo, da Omero ad Alfieri.

Dietro la nuova facciata del Niccolini venne prevista la realizzazione di una trattoria e di una sala da gioco (in corrispondenza delle colonne del primo piano) con le quali l'impresario al quale era affidato il teatro, Domenico Barbaja, famoso per i suoi rapporti con Rossini, si proponeva di incrementare i suoi introiti. Nella nuova sala, inaugurata il 12 gennaio 1817 con Il sogno di Partenope di Urbano Lampredi, musica di Simone Mayr, vennero in seguito effettuate modifiche di poco rilievo,. Sia il salone per la pittura delle scene, sia i grandi meccanismi per il movimento delle quinte al di sotto della superficie lignea del palcoscenico sono stati conservati.

L'illuminazione a gas vene introdotta nel 1844 e sostituita nel 1890 da quella elettrica. Un sipario di sicurezza di amianto venne messo in opera nel 1910 e sostituito nel 1928 da uno metallico. Nel 1936 sulle fini dorature a foglia della sala verrà stesa una pesante coltre di porporina, dalla quale recentemente è stato liberato un dettaglio, qui riprodotto. Nel 1937 vene costruito un nuovo foyer sul lato orientale, in sostituzione di quello originale, occupato da un circolo privato ai primi del Novecento. Nel 1941 venne effettuata il taglio della ribalta, che arretrò di oltre due metri. La fossa d'orchestra verrà poi dotata di un piano mobile.

L'esistenza dell'antico laboratorio di scenografia, che nella maggior parte degli altri teatri é stato soppresso, si può ricondurre all'importanza, al S. Carlo, della componente visuale degli spettacoli, che offrì al suo architetto, Niccolini, la possibilità di stabilire al suo interno una scuola di scenografi divenuta presto famosa. Tale preponderanza della componente visuale degli spettacoli é pure all'origine della creazione di una famosa scuola di ballo. Il ruolo pubblico svolto dal teatro si espresse in una cospicua proliferazione di rappresentazioni dello stesso, sia in incisioni che sulle sue proprie scene, che rappresentarono più volte i momenti salienti della sua storia, in special modo l'incendio che lo distrusse. Un doppio del S. Carlo, che poteva accogliere solo repertorio serio, fu costituito dal S. Carlino, dedito principalmente al comico e nel quale si diede più di una rappresentazione satirica degli spettacoli e degli spettatori del suo fratello maggiore.


da Francesco Sforza, Grandi Teatri Italiani, Editalia, Roma, 1993