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Il macchinista e l'impresario

La lunga tradizione fiorentina. Il teatro della Pergola. Modifiche ottocentesche. I martelli fiorentini. Macchinisti e impresari. La legge sul diritto d'autore. Firenze capitale. Il Politeama Fiorentino. Il Comunale e il Maggio Musicale Fiorentino.

Firenze può vantare una vita drammatica fra le più ricche d' Europa. Sul terreno delle sacre rappresentazioni e delle feste carnascialesche fiorirà qui la drammaurgia rinascimentale. Qui vengono dati i primi drammi in lingua latina. Qui il teatro di prosa in volgare matura frutti come la "Mandragola" di Machiavelli. Qui ancora si trova, nella celebre "Camerata", la prima radice dell'opera in musica, che si sviluppa splendidamente nel corso del XVII, del XVIII e del XIX secolo. In tempi recenti le sue scene hanno ospitato la lunga e gloriosa vicenda del Maggio. Ma a Firenze, che pure è stata capitale d'Italia dal 1865 al 1870 e città "italiana" per antonomasia, non è mai stato costruito un grande teatro che reggesse il paragone architettonico con quelli delle più importanti città italiane.

Il teatro dove l'opera lirica la lasciato la sua più cospicua memoria è l'antica sala di via Della Pergola, costruita nel 1656 su progetto di Ferdinando Tacca nel luogo di un tiratoio dell'Arte della Lana desueto da una frazione aristocratica dell'Accademia Degli Immobili che aveva abbandonato il teatro del Cocomero. La Pergola è considerato uno dei primi esempi di sala "all'italiana", trovandosi in esso tutti gli elementi dei quali è costituita questa tipologia, in particolare la disposizione verticale dei palchi. Il teatro è in attività quasi ininterrotta da oltre trecentocinquant'anni. Ma oggi, se vi cercassimo qualcosa di straordinario resteremmo delusi. Già da fuori il teatro non si noterebbe. L'esterno si riduce a qualche cornicione di un mezzo rifacimento ottocentesco, che sembra voler lasciare il posto a una facciata vera e propria, allora immaginata, ma di cui non si sentì mai una reale necessità. Che il teatro fosse in via della Pergola lo sapevano tutti. L'ingresso, leggermente più grande di un portone normale, è marcato nella linea della strada solo dalla tettoia che gli venne attaccata sopra ai primi del Novecento. L'intonaco rosso bruciato è stato dato di recente, per metterlo un poco in evidenza, non senza aver ritrovato, col consueto romanticismo dei restauratori, "le coloriture originali". Dalla fondazione ad oggi l'interno è stato ricostruito una mezza dozzina di volte, la prima nel 1688 dal veneziano Filippo Sengher, in occasione dell'ascesa al trono di Cosimo III e del matrimonio di Ferdinando con Violante Beatrice di Baviera. Nel 1717 l'adunanza dell'accademia decise una ulteriore miglioria, l'ampliamento del palcoscenico verso la sala (dunque in un senso opposto alle momdifiche che prescriveranno di qui a pochi decenni gli intellettuali illuminati), assieme ad uno svincolamento dalla vita cerimoniale di corte dell'attività del teatro, al quale si potrà d'ora in poi accedere a pagamento. E' una svolta decisiva, agevolata dalla politica liberale di Giangastone. L'attività della Pergola conosce un periodo di grande splendore. Altre modifiche vengono apportate al palco e alla platea nel 1724. Nel 1729 vengono realizzati alcuni ambienti per ospitare gli artisti non fiorentini.

L'ingresso degli spettatori paganti è occasione dei primi dissapori fra aristocratici e "gente nuova" e di piccoli adeguamenti al teatro, al quale vengono aggiunti ambienti "per comodo del popolo". Fra il 1750 e il 1755 il teatro venne ristrutturato dalle fondamenta. Furono incaricati del lavoro l'architetto Guido Mannajoni e Antonio Galli Bibiena, al quale l'incarico di prestigio gioverà per l'ottenimento di quello del teatro di Bologna. Venne fatto largo uso di muratura in luogo del legno, per motivi di sicurezza contro gli incendi. Negli ultimi decenni del Settecento, nell'atteggiamento prevalentemente liberale del granducato lorenese nei confronti del teatro fanno la loro comparsa provvedimenti restrittivi, censura, imposte, oltre che di un uso "sociale" della struttura, frequentemente a perta al pubblico (al quale si richiedeva di essere "pulito") del tutto gratuitamente. Nel 1784 Mannajoni venne incaricato di un ulteriore restauro. Con l'avvento di Napoleone l'interesse civile per le cose teatrali balza in primo piano, ribadito da un documento del Gran Consiglio che dichiara, nel 1798, che "presso un popolo libero, il teatro deve essere una scuola di libertà e di costume ... la commedia smaschererà l'orgoglio brutale dell'aristocratico, l'impostura dell'ipocrita supertizioso, l'ambizione ridicola del ricco, le cabale dell'intrigante, l'avarizia del provisioniere, la venalità d'un magistrato, l'infamia del falso patriota.... Nel 1810 l'intervento statale ridurrà a due i teatri ammessi per la città.

All'inizio dell'Ottocento la Pergola riceve l'attributo di teatro "massimo". Lavori programmati per ingrandire il teatro e affiancargli un salone da ballo furono rallentati fino al 1804 da misure fiscali imposte all' Accademia. Passata la ventata napoleonica, la restaurazione lorenese ebbe, per il teatro, carattere di ritorno alla precedente floridezza. La totale liberalizzazione dell'attività teatrale si accompagnò ad un sostegno governativo alla Pergola (nel frattempo apertasi alla prosa) che avviò nel 1814 e nel 1820 nuovi lavori di modernizzazione, che si susseguono con frequenza: rinnovo delle decorazioni nel 1826, nuovo impianto di riscaldamento nel 1832, modifiche al soffitto nel 1836, nuovo sistema antincendio nel 1840, nuovi camerini nel 1843.

Ancora radicali modifiche vennero effettuate negli anni fra il 1855 e il '56, dall'architetto Gaetano Baccani. Il foyer fu realizzato sopprimendo un antico complesso di ambienti e ambientini poco adatti alla funzione civica che La Pergola aveva assunto fin dai primi del secolo. Con le sue colonne di finto marmo un po' troppo grandi per lo spazio ci parla del teatro come rito sociale, tipicamente ottocentesco. E' allora che venne realizzata la grande macchina di sollevamento del piano della platea a quello del palcoscenico, così da realizzare un unico grande ambiente in occasione di balli pubblici. Con il passaggio della capitale a Firenze Vittorio Emanuele II acquistò un palco del teatro. Nel 1867 l'ingegner Telemaco Buonaiuti, uno specialista di sale teatrali, venne incaricato di realizzare un loggione in luogo del quarto ordine di palchi. Venne progettata allora una facciata che rimase però sulla carta e introdotta l'illuminazione a gas (sostituita nella notte di inizio del nuovo secolo da quella elettrica)

La sala è un ibrido tipologico, che risulta dalla sostituzione, operata nel 1912, degli ultimi due ordini di palchi della sala del '67 con le esili colonnine di ferro e le capaci balconate del progressismo dell'inizio del secolo.

Dietro c'è il nulla. Sapientemente situato all'interno della fabbrica, dilungato dai tumulti della contrada, come recita un documento seicentesco dell'Accademia, non arriva in palcoscenico nemmeno l'eco dei pur notevoli frastuoni di oggi, che turberebbe il necessario raccoglimento. Molto in alto c'è la rastrelliera di travetti di legno alla quale si possono appendere le tele dipinte. Come è abituale in un teatro all'italiana, il pavimento è inclinato verso la sala, per aiutare l'illusione prospettica. Dal punto di vista architettonico questo vano vuoto, gigantesco e disadorno rimanda all'importanza che in teatro riveste la tecnica di lavoro.

Il primato moderno della Pergola fu un primato di fatto. Le sue misure sono contenute rispetto a quelle degli altri teatri della città. La lunga e complessa vicenda delle modifiche, qui delineata per sommi capi, suggerisce un modo di interpretare il genius loci teatrale della città che Edward Gordon Craig, uno dei padri del teatro contemporaneo e appassionato studioso delle sue tradizioni, aveva eletto negli anni '30 a sua dimora stabile: fermare l'attenzione su quanti vi si fermano a lavorare. "Può il cardinale serenissimo girsene alle scene e quindi tornare al trono senza che niuno se ne accorga", recita un panegirico dell'architettura della Pergola steso poco dopo la sua inaugurazione. L'arte di nascondersi, in teatro, è fondante. Skené era, nel teatro greco, la tenda che nascondeva gli attori. Su di essa è cresciuta una cultura "minuscola", più antica di quella del foyer, sottile e capace di raggiungere a volte la profondità, forse l'armonia. Qui, dove "tutto è vero", nascono immagini che hanno la stessa corporea sostanza delle pietre dei muri, sogni fatti di cose anche troppo comprensibili e materiali, per chi le guarda da vicino.

I personaggi che abitano in questa parte del teatro e sono incaricati del suo funzionamento, artigiani abituati a lavorare nell'ombra, sono chiamati "macchinisti". Il nome ne ricorda l' origine seicentesca, quando si costruivano le complicate macchine dei cambi a vista, dei voli e delle apparizioni e l'architetto-scenografo veniva anteposto al musicista. Persiste in loro la memoria del primato teatrale dei secoli che videro la fortuna dei comici italiani per tutta Europa, la crescita dello splendido giardino del teatro musicale, la diffusione della tipologia architettonica del teatro -appunto- "all'italiana". Bruno Mello, autore del Trattato di scenotecnica , l'unico moderno manuale italiano del palcoscenico -conosciuto da tutti gli scenografi- che descrive con accuratezza e naïveté veri segreti della finzione, e con lui tanti altri, alcuni dei quali in odore di leggenda in questo piccolo mondo, sono cresciuti sui palcoscenici fiorentini. A loro, tutti gli artisti del "Maggio" hanno lasciato qualcosa. Gli oggetti del lavoro di questi artigiani sono le imprevedibili e spesso caotiche intuizioni degli artisti. Come gli antichi comici dell'Arte, secondo la felice definizione di uno studioso, Ferdinando Taviani, essi sono "specializzati a non essere specializzati". Questa particolarità si riflette nella semplicità della tecnica e nell'efficacia dell'attrezzatura. Un gesto solo: piantar chiodi. E' la pratica più caratteristica dei nostri macchinisti, in quantità che all'estero, in occasione delle tournées, destano lo stupore dei colleghi indigeni. Alla cintura, nient'altro che una borsa piena di chiodi di due o tre misure diverse e un martello. I chiodi sono quelli comuni di ferro dolce che si trovano dapertutto. La borsa ha regole costruttive piuttosto precise. Il martello è molto speciale. I macchinisti passano intere mezz'ore a mostrarsi l'un l'altro questo attrezzo esoterico, oggetto di bramosie e abbastanza spesso di furto. Non se ne fanno più come una volta. Il segreto della sua forgiatura, una sequenza di bagni in acqua e olio a partire dal buon ferro dei binari ferroviari, è ormai perduto (ma si dice che qualcuno ancora, alla Pergola...). Lo stesso tipo di ferro esiste in tre (quattro?) misure, adatte ai diversi lavori (ecco l'unica "specializzazione") del palcoscenico. Sul legno del manico, sulla sua stagionatura e sul modo di inserirlo nel ferro in modo che formi con esso un corpo unico si possono ascoltare lunghe disquisizioni. Come anche sul modo di usarlo: un macchinista esperto pianta un chiodo da cinque centimetri con tre colpi. I più vecchi ne posseggono diversi esemplari. Nelle famiglie artigiane che ancora esistono questo attrezzo si tramanda di padre in figlio. Accade che esso venga citato nel testamento. E regalare il proprio martello in vita a un macchinista più giovane è un segno memorabile di affetto e stima: "Questo martello, me lo ha regalato Tizio, quando lavorava nella compagnia del Tal dei Tali...". L'importanza di Firenze come piazza obbligata di passaggio delle compagnie in viaggio fra Nord e Sud si avverte in queste tracce. Considerando il complesso sistema circolatorio degli spettacoli nel nostro paese sarà facile vedere, nella sapienza artigianale dei teatranti, un vero e proprio linguaggio di una comunità viaggiante, e si comprenderanno le ragioni della caparbia resistenza che questa gente oppone ad ogni estemporanea innovazione tecnica, e che provoca spesso la facile indignazione degli architetti contemporanei, inventori, in questo mondo intercomunicante, di nuove "parole" che soltanto loro "capiscono". Essa non è altro che la difesa della capacità far fronte sempre e dovunque ai più diversi problemi. Lo stesso vale per i materiali: i preferiti sono ancora quelli sei-settecenteschi: il legno, la tela dipinta e il ferro battuto.

Attorno al grande vuoto del palcoscenico della Pergola, riconosciuto monumento nazionale nel 1925, si è formato un microcosmo di spazi, capaci di ospitare ogni fase tecnica del lavoro di prova, dai laboratori di scenografia sotto i vòlti del tetto alla sala-prove che imita, nell'inclinazione del pavimento, quella del palcoscenico, agli appartamenti per i teatranti di passaggio. Ancor oggi il direttore vive in un appartamento vicinissimo al teatro e partecipa così giorno e notte della vita del palcoscenico. Qualche portone prima ha sede una famosa sartoria teatrale. Sono presenze che ricordano i tempi d'oro della Pergola alla metà dell'Ottocento, quelli nei quali abbiamo visto infittirsi le modernizzazioni, quando esso era il luogo centrale di una cultura e il polo magnetico di una miriade di attività produttive. Fu in definitiva il teatro stesso, con le sue tradizioni pragmatiche, e non le idee personali di qualche architetto o intellettuale o ideologo o uomo di governo, a dare a questo teatro la forma che ha oggi. O, se vogliamo evocare una figura unificante di responsabilità, colui che dirigeva e controllava ogni aspetto di quella attività: l'impresario.

Non è certo un caso che alla metà del XIX secolo Alessandro Lanari, il "Napoleone" degli impresari, abbia eletto questo teatro a proprio nido negli anni in cui fu protagonista assoluto del teatro musicale. Fu lui ad aprirne la porta ad un giovane compositore che portava l'allora ignoto nome di Verdi. Fu lui a mettere le basi della lucrosa attività della sartoria che rappresentò la voce più rilevante delle entrate della sua attività. Dopo la sua morte venne trasferita altrove, ma sulla stessa via, qualche portone prima, ne venne impiantata ai primi del XX secolo da un cantante, ma certo memore della fortuna che quest'attività aveva portato al suo famoso predecessore. La legge sul diritto d'autore, promulgata nel 1870, subito dopo l'Unità, indurrà la sostituzione delle grandi case editrici, Ricordi, Sonzogno, Lucca, agli "avidi corsari" dell'impresariato. All'opera nuova, il cavallo di battaglia di questi ultimi, si sostituiranno gradualemente la lucrosa pratica del repertorio e le astuzie commerciali. Mentre il teatro lirico si diffonde in tutto il mondo, i buoni compositori scarseggiano e la tecnica esecutiva va degradandosi. I cantanti mirano ad emozionare il pubblico sempre più folto e popolare gareggiando ad emettere acuti da record. Anche nella forma architettonica, i teatri costruiti negli anni il cui lo spettacolo operistico si rivolge ad un pubblico sempre di più "di massa" tendono ad assomigliare a stadi sportivi.

Il trasferimento a Firenze della capitale "ad interim" indusse grandi trasformazioni edilizie, con la previsione di cinquantamila nuovi abitanti. Vennero allargate le strade e realizzato l'anello di viali nel sito delle mura abbattute. Risale ad allora l'origine di molti teatri, fra i quali il Politeama Fiorentino, battezzato in seguito teatro Comunale, realizzato in un'area verso la quale si andava orientando lo sviluppo urbanistico della città. Esso venne inaugurato nel 1865 con la rappresentazione di Lucia di Lammermoor di fronte a settemila persone. I politeami erano edifici scoperti destinati alla rappresentazione diurna e notturna di spettacoli di vario genere: prosa, rivista, varietà musicale, cinema e perfino circo equestre, per i pubblici sempre più numerosi degli inurbati della seconda metà del secolo. Dal punto di vista dimensionale, essi rappresentano un limite massimo, superato solo dai teatri classici. Ma più che ad essi si possono assimilare agli stadi, dei quali mutuano in parte l'impianto. Come i vecchi teatri essi hanno uno o due orgini di palchi, sopra i quali vengono appoggiate grandi gallerie ad anfiteatro per il pubblico più popolare. La platea è occupata da posi a sedere rimuovibili, così da rimanere utilizzabile anche per spettacoli, come il circo, ad impianto centrale. Dello stesso segno dei politeami sono le grandi rappresentazioni in stadi sportivi (che vengono costruiti in numero sempre più rilevante) o -come vedremo- all'Arena di Verona e alle Terme di Caracalla, di spettacoli scelti dal repertorio tradizionale a grande effetto spettacolare.

Scoperto, con un solo ordine di palchi destinati al pubblico più benestante e una grande galleria semicircolare ad anfiteatro, sviluppata in profondità, Il Politeama Fiorentino era un tipico esempio di questa tipologia. L'edificio è progettato in stile neo-cinquecentesco da Telemaco Buonaiuti, lo stesso che aveva riarredato La Pergola, per la "Società Anonima del R. Politeama Fiorentino Vittorio Emanuele II", e inaugurato nel 1862. Ma l'anno seguente esso è distrutto da un incendio. Prontamente ricostruito viene riaperto definitivamente nel 1865. La copertura fu realizzata nel 1882, contro la volontà del Buonajuti, e nel '95 fu installata l'illuminazione elettrica. L'edificio è oggetto in seguito di vari rimaneggiamenti, alcuni dei quali radicali. Nel 1928 inizia in esso l'attività della Stabile Orchestra Fiorentina, diretta da Vittorio Gui. Nel 1929 viene ribattezzato Teatro Comunale Vittorio Emanuele II. Grandiosi lavori di ristrutturazione furono compiuti nel 1933, anno in cui inizia l'attività del "Maggio Musicale". La formula innovativa del "Maggio", appoggiata sulle antiche tradizioni spettacolari fiorentine, e la grande capienza del teatro, che ora conta quattromiladuecento spettatori seduti e può crescere di altri mille in casi eccezionali, sono le probabili ragioni della completa approvazione di Mussolini.

Nel '44 il palcoscenico è distrutto dalle bombe. Il Comunale di oggi risulta da una ricostruzione quasi completa del vecchio teatro effettuata nel 1957, in occasione della quale fu realizzato un ridotto per ottocento spettatori. Lo sviluppo in lunghezza caratteristico del vecchio politeama persiste nella sala oblunga, che oggi può contenere circa 2000 poltrone di cui l'ultima dista oltre 50 metri dalla linea di boccascena, e nel palcoscenico alto e profondo ma privo di sfoghi laterali, così che si è dovuto approntare recentemente un prolungamento di lamiera che funge da magazzino. Non si possono tenere due allestimenti in contemporanea, se uno dei due non è tutto "di soffitta" e l'acustica non è felice.

Ma tutti questi difetti non hanno impedito al Comunale di diventare la sede del più importante festival musicale italiano, che ha avuto un ruolo fondamentale nel rinnovamento della scena lirica, chiamando a Firenze i più bei nomi della musica e del teatro contemporanei: da Ildebrando Pizzetti a Gianfrancesco Malipiero, da Jaques Copeau a Max Reinhardt, da Luigi Pirandello a Igor Stravinsky. I repertori, sempre più stanchi, vengono rinnovati attraverso il recupero di testi dell'antico teatro musicale barocco o comunque dimenticati dal repertorio, in fantasiose e tutte novecentesche revisioni. Nell'affiancamento di pittori da cavalletto ai professionisti della scenografia, sui quali grava l'accusa di passatismo, la frattura con il passato si vuole ormai irrimediabile. Un nuovo principe degli spettacoli, nella figura "professionale" del regista, fa con il "Maggio" il suo ingresso sul palcoscenico lirico, con tutti gli onori di un'epoca della quale anch'egli esprimerà la caratteristica vocazione all'arbitrio, al superomismo, nell'ormai ristrettissimo spazio del palcoscenico lirico contemporaneo, così simile, nella sua separatezza ed inessenziale passionalità, a un ottocentesco romanzo d'appendice. I casi in cui i registi riusciranno a portare agli spettacoli un vero contributo creativo sono sempre legatissimi alla sensibilità personale di ognuno, casi eccezionali che non confermano la necessità della regola. Così che all'inizio saranno portate a sostegno della sua presenza "professionale" fra le ombre del retropalco la garanzia di correttezza storicistica o di affrancamento dalla routine. Ancor oggi il posto per lui non è sempre previsto nei teatri meno propensi ad adattarsi alle mode e in ogni caso in posizione subordinata a quelle della dominatrice indiscussa dei camerini, la prima donna, e del responsabile del coordinamento musicale dell'esecuzione, il direttore d'orchestra.


da Francesco Sforza, Grandi Teatri Italiani, Editalia, Roma, 1993
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