GTI homepageIndiceAutore

Il nuovo teatro comunale di Cagliari

La ricostruzione postbellica. Il concorso di Cagliari. Il progetto di Maurizio Sacripanti. Il progetto di Luciano Galmozzi, Teresa Ginoulhiac Arslan e Francesco Ginoulhiac.

Il processo di ricostruzione dei teatri distrutti dalla guerra è lentissimo e molte importanti città ancora non hanno provveduto a dotarsi di una struttura adeguata. Fra pochi mesi Cagliari taglierà il nastro d'arrivo della vicenda quasi trentennale della costruzione di un teatro moderno. Dopo la distruzione del teatro Civico, operata da due successive incursioni alleate nel 1943, le stagioni liriche, gestite da una cooperativa e dal Conservatorio di Musica, la più importante istituzione musicale della città, si erano svolte nell'auditorium di quest'ultimo e in una struttura realizzata nel 1947, il cinemateatro Massimo, capace di oltre 2000 spettatori ma poco attrezzato per quanto riguarda il lavoro di palcoscenico. Solo nel 1964 viene bandito un concorso per la realizzazione di un teatro, che prevede tutte le funzioni caratteristiche della produzione operistica. Le intenzioni sono quelle di realizzare il più importante teatro dell'isola. Partecipano 34 progetti, otto dei quali ammessi dalla commissione, dopo lunga valutazione, al secondo grado della prova. Alla fine è dichiarato vincitore quello firmato da Luciano Galmozzi, Teresa Ginoulhiac Arslan e Francesco Ginoulhiac, tutti e tre di Bergamo.

In quest'occasione, perdendo di vista i pregi del progetto vincitore, la critica si schiera compatta a favore del secondo classificato, del romano Maurizio Sacripanti, che vuole condensare in un'architettura tre concetti: quello di polivalenza, teorizzata in Francia da André Malraux nelle sue "Maisons"; il concetto di Totalteatro formulato negli anni '30 da Walter Gropius (e mai realizzato) ed espunto dalle pagine scritte da Argan nell'immediato dopoguerra; quello di "opera aperta", titolo di un saggio di Umberto Eco pubblicato nel 1962, con notevole successo fra gli intellettuali. Questi ingredienti ideologici sono riuniti nel tipico furor progettuale dell'architetto romano, un utopismo tecnicistico con aggressive venature di sapore futurista, che lo porta a contestare il bando e a trascurare i problemi di normativa. Prevale così il parere del funzionario dei Vigili del Fuoco, che boccia il progetto per motivi di sicurezza.

Situato in un lotto periferico della città, ma in una situazione orografica notevole nei confronti del vecchio centro, il teatro, ora quasi concluso, cerca un dialogo con lo spazio nel quale è immerso, come a farsi elemento del panorama e a condizionare ad esso la futura urbanizzazione, sulla cui scarsa qualità esso spicca oggi con decisione.

Visitando il complesso cantiere appare evidente che i progettisti bergamaschi si sono applicati con ostinato rigore alla ricerca di una libertà formale che vuole entrare in sintonia con quella degli utilizzatori della struttura, offrendo loro un agglormerato di ambienti di un'asciutta modernità, che ripropone in ogni suo luogo la propria assenza di centro, semplice ma coinvolgente e labirintico, caratteri questi che si addicono particolarmente ad un teatro e che risultano logicamente dalla coerente composizione delle sue funzioni.

Come una scultura architettonica priva di facciata, esso non prevede nessun punto di vista privilegiato o, meglio, privilegia ogni punto di vista possibile. Non vi é più in questo edificio un "retro" da nascondere, un volume da occultare in base a canoni estetici precostituiti; in termini civili: una autorità riconosciuta al di fuori dei limiti della situazione concreta e dei patti stabiliti. Da questo assunto democratico i progettisti hanno saputo trarre tutte le conseguenze. E' la corretta distribuzione degli spazi e dei percorsi, alla quale essi si applicano con cura artigiana, a vincolare dall'interno questa architettura, che si presenta non come sommatoria di oggetti funzionali, pure chiaramente individuabili, ma come autonoma invenzione formale, sottolineata da un uso quasi brutalista del cemento a vista e delle aperture vetrate.

Grandi agglomerati di spazi sono raccolti in base alle loro caratteristiche funzionali (spettatori, orchestra, palcoscenico, artisti, masse, prove, uffici, impianti) compenetrati l'uno nell'altro, in un riconoscimento di desuetudine sia dell'ideologia del "grande teatro" sia di quella dell' architettura come monumento a valori ad essa esterni, sia il discutibile gusto di "salotto buono" e di spreco inutile che contraddistingue tanti edifici pubblici realizzati nel dopoguerra. All'interno della sala è ricercata una elasticità tale da rendere il teatro disponibile non solo agli spettacoli lirici, ma anche a quelli di prosa, cinema, conferenze e concerti e quant'altro.

Nella superficie della copertura, una grande lastra ondulata di rame brunito, anch'essa priva di una gerarchia geometrica, i progettisti riconoscono volentieri la lezione di uno dei grandi maestri dell'architettura europea del secondo dopoguerra, l'architetto finlandese Alvar Aalto.

Per un edificio come un teatro, sede di eventi non prevedibili e che richiedono la massima libertà funzionale, la possibilità di trasformarsi nel tempo è decisiva. Tutti i teatri hanno subito, nel corso della loro vita, più o meno importanti adeguamenti alle esigenze delle attività che essi via via accoglievano.I lavori per la realizzazione iniziano solo nel 1971, seguono un iter laborioso e più volte interrotto da ripensamenti e mancanza di fondi. Ma oggi, a distanza di quasi trent'anni dalla formulazione del progetto, l'oggetto realizzato, se pure diverso dal progetto originario, non ha perso nulla del suo vigore originario: proprio dal rifiuto di assumere criteri di ordinamento della composizione architettonica esterni alle sue ragioni, fondamentale nel lavoro dei progettisti bergamaschi. Ne risulta una struttura che non si oppone, anzi accoglie senza soluzioni di continuità i cambiamenti -non tutti convincenti- imposti già in corso d'opera per ottemperare a varie esigenze, fra cui le prescrizioni della normativa antincendio, fattasi più rigida dopo il disastro del cinema Statuto di Torino. In particolare, sono stati aggiunti alcuni corpi scala e alterati alcuni percorsi e destinazioni d'uso, mentre all'interno motivi acustici hanno indotto a variare radicalmente la geometria delle pareti della sala e del soffitto e i dettagli di finitura rispetto alla originale formulazione del progetto.

Coerentemente con la tecnica italiana dei lavoro scenotecnico, è stata prescelta la massima semplicità nelle soluzioni tecniche del palco, prevedendo macchinismi solo laddove la pratica di lavoro ne ha dimostrato l'effettiva utilità, cioè nella zona di raccordo fra lo spazio del pubblico e quello del palcoscenico, dove è stata prevista una piattaforma mobile per la fossa d'orchestra, così da permettere alla struttura di adattarsi rapidamente alle diverse possibilità di utilizzo previste (grande orchestra, piccola orchestra, prosa, concerti, ecc.).

La coerenza dei dettagli progettuali con la giusta impostazione fondamentale fa del progetto cagliaritano probabilmente il più interessante teatro realizzato in Italia nel dopoguerra, ampiamente fornito di infrastrutture tecniche, capace di accogliere ogni momento della produzione e dotato di una sala da 1800 posti e di una seconda sala da 600 posti per manifestazioni più raccolte e capace di assumere un ruolo di primo piano e originale sia nella vita culturale della Sardegna che più in generale nel contesto nazionale.


da Francesco Sforza, Grandi Teatri Italiani, Editalia, Roma, 1993
tutti i diritti riservati in Italia e all'estero-all rights reserved