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Ottocento

1848. Incrinature, ricollocamenti e nuove ricomposizioni delle consuetudini. La vicenda "italiana" della costruzione dei teatri. Primo censimento. Alla ricerca di "una" forma perfetta Il pubblico popolare. Piano e forte. Architetti, scenografi e impresari. Realismo scenografico La luce elettrica. Una nuova credulità. Produzione e commercio. I politeami.

La diffusione del neoclassicismo, espressione di un moto generale di rinnovamento, era stata internazionale ed europea come la classe dirigente in seno alla quale si muovevano i suoi propagandisti. Ma già La Rivoluzione e le guerre napoleoniche avevano rimandato alla sanguinosa vittoria contro la parte avversa realizzazione di armonie che qualche decennio prima sembravano conseguibili attraverso le armi della convinzione e del raziocinio. Le campagne napoleoniche diffondono i semi dei miti nazionali, attorno ai quali si ordineranno gli eserciti e i riti festivi dell'Ottocento. La stagione romantica entra definitivamente in crisi con il 1848, quando le "magnifiche sorti e progressive" cedono definitivamente il posto ad un panorama desolato di nazioni, classi sociali e gruppi settari, rigidamente separati e in lotta fra loro.

In modo simmetrico, le teorizzazioni di sale senza palchetti, mentre auspicano una utopistica società di eguali, abolendo le separazioni "classiste", vedevano in esse l'allegoria del male della società. Ma contemporaneamente pongono l'esigenza una separazione definitive e condizionanti. La lunga vicenda di incrinature, ricollocamenti e nuove ricomposizioni delle consuetudini che segna il passaggio dal teatro musicale barocco al romanticismo musicale produce fratture che il XIX secolo approfondirà, per a lasciarle, incolmabili, al XX. Contemporaneamente la grande stagione del melodramma farà sentire i suoi effetti anche in architettura, generando una nuova diffusa attività di ristrutturazione e costruzione di nuovi teatri. Il patrimonio di procedimenti, di modi di presentarsi, di concetti che nell' Europa dei secoli precedenti, aveva caratterizzato un modo di fare il teatro e i teatri "all'italiana" viene identificato, nell' Italia in fieri, con una tipologia architettonica che individua uno specifico carattere nazionale, opposto sopratutto a quello francese. Esso è contraddistinto da una mediazione "morbida" fra il passato e le istanze di rinnovamento. Il pensiero lodoliano, nelle sue formulazioni più estreme, si trovava smorzato già nei fortunati scritti di Algarotti, che gli erano in buona misura debitori. La dura polemica di Milizia contro i palchetti non ne scalfirà la consuetudine.

Tale carattere "italiano" viene ripetuto a partire dagli anni '30-'40, con l'eccezione delle regioni culturalmente più arretrate, in ogni borgo di una qualche importanza, dove la mancanza di un teatro è avvertita come handicap civile. Secondo una prassi ormai consolidata, i benestanti formano società di palchettisti e si rendono promotori, nei confronti delle amministrazioni, di queste nuove costruzioni, municipalistiche e al tempo stesso nazionali, assumendosene in parte gli oneri. In questi nuovi teatri alle rappresentazioni di teatro musicale si affiancano quelle di prosa, filodrammatiche, balli e riunioni sociali, che aiutano a "passare il tempo" delle more di una unificazione politica che molti, forse, preferiscono differire.

Si tratta di repliche, a volte microscopiche, dei grandi teatri, nella maggior parte destinati all'ospitalità di compagnie viaggianti, provvisti dei camerini ma non degli spazi per le prove e la realizzazione delle scene che si trovavano nei loro modelli. Nell'ipotesi di una tipologia "all' italiana", dove ormai il passato è inteso come un fatto compiuto e non suscettibile di sviluppo qualitativo, ma soltanto quantitativo, si può vedere un punto d'arrivo dello storicismo: già uno dei maestri di Giannantonio Selva, l'architetto della Fenice di Venezia, affermava nella Vita di Vincenzo Scamozzi che "fra i moderni non si è ancora determinata la vera forma del teatro".

L'appello frequente ad un generico fascino delle donne che frequentano i palchetti è sintomatico della mancata individuazione di un pubblico "nazionale" degli spettacoli. Uno dei pochi dati certi è la sua continua crescita numerica. Sembra che la vicenda architettonica rimanga bloccata e costretta a riprodurre sempre gli stessi risultati, in una conciliazione fittizia degli elementi, storicamente e funzionalmente eterogenei, che avevano determinato la forma dei teatri più antichi. L'aspetto odierno dei grandi teatri italiani sarà fissato nei decenni attorno alla metà del secolo XIX.

L'attenzione istituzionale, contradittoria, al ruolo di unificazione culturale rappresentato dall'opera lirica è espresso, fra l'altro, nelle nelle descrizioni geografiche del regno unificato dove teatri più importanti vengono sempre menzionati. Il Ministero dell'Interno ne effettua nel 1868 un primo censimento su base nazionale. Contemporaneamente si inizia a considerare lo spettacolo una attività produttiva, che lo stato unitario tende ad abbandonare alle leggi del mercato, secondo l'ideologia liberista, e che considera piuttosto suscettibile di imposte. Cambia in senso analogo il carattere delle trasformazioni portate nei vecchi teatri.

"Ogni tanto dovendosi ridipingere il teatro annerito dal fumo de' lumi, in tal occasione si cerca di fare dei cambiamenti in tutto quello che riguarda per lo più l'ornato del teatro stesso, lasciando solo intatto l'ordine del proscenio, se mai lo credono di stile purgato abbastanza, accontentandosi di cambiargli quella sola parte di finimento, che mai per sorte mostrasse qualche reminiscenza di barocco (tanta è la purezza de' nostri bravissimi artisti!) o diremo lasciano quel che più possono: o per non rendere troppo gravosa la spesa o perché realmente piace. Così il povero teatro, fosse anche del celebre Palladio, o del più famoso architetto del mondo, sotto il titolo di correzione viene in tante parti alterato; e ridotto che sia in aspetto della maggiore ricchezza che si vuole, da ben pochi si osserva, come il nuovo aggiunto sia in armonia col vecchio. Così il teatro va rivestito a seconda dei tempi, senza più pensare qual fosse la bellezza né l'armonia del suo abito originale", annota nel 1836 Paolo Landriani (Del teatro diurno e della sua costruzione), scenografo e trattatista milanese, al tramonto della stagione neoclassica.

Nei teatri attivi continuano modifiche più o meno radicali, generalmente nel senso di accogliere pubblico ed allestimenti scenici sempre più vasti e accompagnate da dichiarazioni dei loro autori di non contraddirne l' identità, intendendo con questa un mero carattere stilistico, secondo canoni dell'eccletismo storicista, per giunta "un po' passato". Un caso particolarmente significativo è il tardo riarredo neoclassico del Regio di Torino (1837) e il successivo "rispristino" di uno "stile barocco" tutto di fantasia (1861).

Le trasformazioni -alcune delle quali radicali, sia nei materiali che nella forma- dei vecchi edifici pretendono di integrarsi nell'esistente, del quale si annunciano miglioramento, ma facendo riferimento ad una modernità sufficentemente differita o ad un genius loci arcaico. L'ipotesi di un pubblico "nazionale" dell'opera lirica presuppone il libero accesso al teatro del popolo, "un grande, grandissimo ceto medio nazionale" (Morelli). Vengono messe in atto separazioni rigide e definitive. Procede lentamente la "mise en ordre" delle platee, dove il luogo del pubblico si differenzia in modo sempre più marcato da quello dell'orchestra. Compaiono in esso prima panche, poi sedie, poi sedie a braccioli; poi poltroncine ribaltabili, talvolta munite di chiave. Ancora nel 1871 le platee dei più importanti teatri italiani sono occupate soltanto in parte da posti a sedere, e libere, nel resto, per il pubblico in piedi, secondo la descrizione che ne da l'architetto della nuova Opéra di Parigi, Charles Garnier. Anche il luogo dell'esecuzione subisce separazioni progressive: fra l'orchestra in buca (sempre più profonda), i cantanti sul palco (sempre più indietro) e il direttore sul podio.

I percorsi del pubblico più popolare e quelli tradizionalmente al servizio degli ordini più nobili dei palchi vengono rigidamente distinti. Verso la fine del secolo gli ultimi ordini vengono aboliti per far posto a più capaci gallerie, per le quali si usa, verso la fine del secolo, la nuova tecnica delle costruzioni in ferro. Fra l'ambiente della scena e quello del pubblico si frappongono arcoscenici imponenti, sipari, sipari di ferro; il pubblico aristocratico si divide fisicamente da quello borghese, poi quello borghese da quello popolare. Vengono fissati rigidamente criteri che arriveranno ad ispirare la normativa di sicurezza (ancor oggi vigente) che vincola la costruzione di nuovi teatri ai canoni drammatici del tardo Ottocento. La difesa dai frequenti incendi impone la separazione della scena dalla sala a mezzo del sipario di ferro, realizzato per la prima volta nel 1828 al teatro de l'Ambigu Comique di Parigi.

Conseguenza rilevante di tali separazioni è la perdita di quello che potremmo chiamare il senso spontaneo della misura, che si avverte ad esempio nell'evoluzione tecnica degli strumenti musicali orientato verso l'aumento dell'intensità del suono. Mentre le notazioni dinamiche perdono l'implicito riferimento agli altri esecutori (un "forte" sarà tale in funzione dello strumento) si afferma la figura del direttore d'orchestra, necessario coordinamento di dispositivi musicali sempre più complessi e coinvolgenti un numero crescente di musicisti e cantanti, non più capaci di "controllarsi" vicendevolmente, come avveniva nelle orchestre barocche.

All'estremo opposto della compostezza avvertibile nella maggior parte dei progetti neoclassici, l'eccesso -rischio connaturato ad ogni liberazione- diventa uno dei vanti principali dei progetti eclettici, alcuni dei quali si fregiano dell'attributo superlativo di "Massimo". Via via che ne saranno rese responsabili le amministrazioni elettive delle città anche i tempi di realizzazione, relativamente brevi nel Settecento, si allungheranno a dismisura.

Nuovi soggetti impongono criteri efficaci, in parte contrattuali, in parte impliciti, che inducono un giro d'affari sempre più grosso e una continua battaglia fra professionismi antagonisti per controllarlo. Alcuni architetti si rendono noti sopratutto come esperti di teatro, come Canonica. Altri, come Landriani, conserveranno l'antica ambivalenza di architetti e scenografi. Essi si preoccupano della definizione tipologica e vi si specializzano, ritagliandosi un proprio spazio professionale. Il "discorso" sull'edificio teatrale si concretizza ora in un numero abbastanza ampio di trattati che definiscono una identità professionale attraverso la proposta di problemi di specifica competenza degli architetti e delle soluzioni relative. Si tratta della ottimizzazione "scientifica" di due requisiti architettonici che la tensione verso il primato delle misure aveva reso problematici: la visibilità e l'acustica. Senza scendere nei dettagli delle teorie, interessa qui notare come s'incontri in questi scritti l'ipotesi, pienamente ottocentesca, della prefigurazione di ogni possibile libertà in una ed una sola soluzione, "buona" per tutti gli spettacoli per tutti i pubblici, conseguibile con mezzi empirici, appoggiati di volta in volta a parziali reminiscenze classiciste, a derivazioni della pratica scenografica, a modelli matematici fondati su forme pure, a teorie fisiche e acustiche, fino a calcoli empirici come quelli relativi alle scale.

Il dissidio fra la professione di architetto e quella di scenografo si avverte sempre più netto: "E' il pittor solo che deve saper la sua parte per comunicarla all'architetto e al macchinista, riguardo alla costruzione del palcoscenico... ma essendo per la maggior parte dei puri pratici, mancano di mezzi per far valere le loro osservazioni agli architetti, perché non sono esposte secondo le rispettive teorie per convalidarle", osservava ancora Landriani nel 1816, nelle Osservazioni sui difetti prodotti nei teatri dalla cattiva costruzione del palcoscenico.

Al vertice di una progressione tipicamente artigiana, la cui coerenza ed unitarietà erano il risultato di mille minimi aggiustamenti pratici, lo scenografo conosceva gli artifici della prospettiva, le più riposte proprietà delle colle, le differenze d'effetto fra i vari pigmenti, la trama delle tele e le loro arcane relazioni reciproche. A partire dal contatto con il librettista immaginava l'ambientazione, secondo le regole prospettiche, nella misura del bozzetto. In esso erano disposte sopratutto le indicazioni di chiaroscuro, sul quale principalmente era basato l'effetto. Il colore veniva applicato poi, a tinte vivaci per compensare la scarsità dell'illuminazione, durante la trasposizione del disegno sulle tele. Nei vecchi laboratori lavoravano, fra gli aiuti, gli esperti delle mille varianti della colorazione, dai verdi del fogliame agli azzurri dei cieli, alle coloriture dell' architettura. L'abilità stava nel distribuire con equilibrio gli effetti su campiture che potevano superare i 100 metri quadrati. Una volta dipinte, le tele raggiungevano il palcoscenico piegate, dove erano stese su leggere armature di legno e messe in opera. Finito lo spettacolo, smontate e di nuovo piegate, erano riposte nei magazzini, dove occupavano poco spazio.

Fino all'avvento della luce elettrica questo processo di lavoro subisce lente trasformazioni. Le invenzioni di Alessandro Sanquirico (1777-1849), che appaiono ad un occhio contemporaneo del tutto fantastiche, offrivano al pubblico dei primi decenni dell'Ottocento l' effetto di una novità inattesa e "più reale". Senza soluzione di continuità, esse cederanno il campo alle creazioni romanticheggianti di un Cocchi (1788-1865) o di un Bagnara (1784-1866), per approdare al realismo maturo di un Bertoja (1808-1873) o di un Frigerio (1833-1897), in un progressivo avvicinamento al "vero" che, semplificando la scena, approfondisce un'altra, capitale separazione, che il cinema renderà definitiva, del luogo dell'azione drammatica da quello occupato dal pubblico. La novità che la scena dipinta cerca di offrire al nuovo pubblico del XIX secolo e nella quale, in qualche modo, esso si riconosce, non é una variazione fra le tante allegorie possibili, ma il tentativo iterato di presentazione di quella stessa "verità" unitaria, adombrata dall' estetica filosofica dell'epoca precedente. I costumi dell'Aida, in modo non molto diverso da quelli delle "Indie Galanti" di Rameau di cent'anni prima, vantavano una propria "scrupolosa esattezza storica". A tali frequenti dichiarazioni si prestava fede diffusamente.

Sono rari gli ingegni che vedono oltre la polvere sollevata dagli ingenui e spesso generosi entusiasmi suscitati da queste iterate epifanie di verità positive. "Lui, Fétis?" esclamò un giorno Verdi, a proposito di quel fantasioso musicista che sosteneva di avere riprodotto trombe identiche ad antichi strumenti egiziani, andando a cercare l'ispirazione nei musei d'archeologia.Verso la metà del XIX secolo la nuova forma di rappresentazione fedele della "natura", la fotografia, seduce la vecchia arte dell'inganno degli occhi. Scenografie dipinte a partire dalle prime riproduzioni fotografiche provocano ancora una volta la meraviglia del pubblico moderno. Ma si tratta di una emozione del tutto diversa dalla meraviglia barocca, nutrita di allegorie, di cambi a vista e di trasformazioni. E' la soddisfazione della conferma di una fiducia di moda nelle "magnifiche sorti e progressive", intese come manifestazione mondana di una superiore verità. Tra la fede nel progresso e nelle sue verità positive e conferme, anche minime, offerte dall'attualità, si sviluppa una dialettica capace di indurre fenomeni di "estasi" in assenza di premesse religiose evidenti, come una sostanza stupefacente. In modo del tutto simile le religioni rivelate ammettevano i miracoli solo come avveramento di profezie, facendone così formidabili conferme della fede.

E' richiesta al pubblico una nuova credulità. Fra l'uno e l'altro di questi "miracoli" volgari i cambi di scena si fanno bruschi. Nello spettacolo barocco, i leggeri spezzati di tela entravano ed uscivano, trasformando in men che non si dica un'ambientazione in un'altra e ravvivando così l'attenzione degli spettatori, messa a dura prova dall'opera seria. Sabbatini, famoso scenografo-trattatista, consigliava nel 1637 di mettere qualcuno a schiamazzare, giusto in quel punto, in fondo alla sala, in modo che il pubblico distratto tornasse dopo un attimo alla meraviglia della scena cambiata. A partire dalla metà del Settecento si diffonde l'uso del sipario fra un atto e l'altro. Le complicate mutazioni non trovano occasioni adeguate nelle musiche e nelle trame trascinanti del romanticismo e si tende nascondere agli spettatori lo spettacolo della concreta trasformazione di una cosa in un altra. Fra i due quadri di un atto potrà resistere un residuo di cambio a vista: la "scena corta" va in soffitta e lascia vedere la "scena lunga" montata in precedenza dietro di essa. Non è più il caldo effetto della finzione cordialmente ostentata, ma piuttosto lo choc del cambiamento l'obbiettivo degli scenografi: la scena corta è usata come un telone e tirata in soffitta il più rapidamente possibile, anticipando nel susseguirsi dei quadri un effetto che sarà tipico del montaggio cinematografico.

Compare un elemento decisivo: la luce artificiale, il cui uso era teorizzato fin dal Settecento. Già Algarotti aveva affermato:

"Un'altra cosa importantissima, a cui non si bada più che tanto, è la illuminazione delle scene; ed a torto. Mirabili cose farebbe il lume, quando non fosse compratito sempre con questa uguaglianza e così alla spicciolata, come ora si costuma. Distribuendolo artifiziosamente, mandandolo come in massa sopra alcune parti della scena e quasi privandone alcune altre, non è egli da credere che producesse anche nel teatro quegli effetti di forza e quella vivacità di chiaroscuro che a mettere nei suoi intagli è giunto il Rembrante? E quella amenità di lumi e d'ombre che hanno i quadri di Giorgione o di Tiziano, non saria forse anche impossibile trasferirla alle scene. Ben può ognuno ricordarsi di que' teatrini che vanno attorno sotto il nome di vedute ottiche o matematiche; e sogliono rappresentar porti di mare, combattimenti tra armate navali e simili altre cose. Il lume vi è introdotto a traverso di carte oliate, che ne smorzano il troppo acuto; e la pittura ne viene a ricevere un tale sfumamento, un tale accordo, che nulla più".

Nella situazione tipica dei teatri barocchi l'insufficienza della luce, tutta ottenuta da fiamme libere concentrate in grandi lampadari fino all'avvento del gas e poi della luce elettrica, contribuiva a ridurre la distanza fra attori e pubblico. Con apparente paradosso, 'amuento della intensità luminosa introduce il buio in sala, adatto a favorire la concentrata attenzione degli spettatori, la cui identità è, ora, anche fisicamente meno evidente. Le nuove luci si potenziano e modernizzano, adottando sistemi di controllo centralizzati che ne faranno nel nostro secolo uno dei complementi più utilizzati dai registi. Era convinzione che la maggior potenza dell'illuminazione a gas (introdotto nel 1822 all' Opéra di Parigi), presto sostituita da quella elettrica, sbiadisse i colori dele scene. Qenerando sugli attori e sui pezzi "in volume" ombre che non si potranno più confondere con quelle rappresentate dai pittori, la nuova luce renderè insopportabilmente fuori moda la vecchia scenografia su tela.

I motivi della persistenza di quest'ultima sono di ordine concreto. Verso la metà del XIX secolo, anche in seguito allo sviluppo delle ferrovie, il mercato dello spettacolo lirico inizia ad espandersi aprendosi ad investimenti avventurosi, ma anche ad "una cristallizzazione di moduli e di formule"(Conati), e quindi ad un impoverimento, segnalato anche dalla scarsità di buoni compositori. Lo stesso Verdi costituisce una eccezione, se pure maestosa. Cavour definisce l'opera "una vera e grande industria che ha ramificazioni in tutto il mondo". Si comincia a progettare la scenografia degli spettacoli in funzione del viaggio. Si assiste allo sviluppo del "repertorio", la pratica di replicare opere di valore riconosciuto e affermato, tipica del teatro di prosa ma entrata a far parte solo attorno alla metà del secolo della tradizione operistica, di fronte ad un pubblico diverso, per numero e qualità, da quello per il quale erano nati i grandi teatri dell'epoca precedente. Si diffonde e sviluppa l'uso dei repertori scenografici, cioè di ambientazioni riutilizzabili in diverse occasioni. L'esigenza di portare gli stessi spettacoli in teatri diversi spinge la tecnica di palcoscenico a semplificarsi e a standardizzarsi. Se da un lato le scene dipinte sono quelle più facilmente trasportabili, dall'altro il gran numero di opere rappresentate induce spesso gli impresari a servirsi di scene raccogliticce. L'offerta di spettacoli si moltiplica e orienta verso una organizzazione del lavoro sempre più moderna, che verrà confermata dalla promulgazione delle leggi sulla proprietà artistica, nella seconda metà del XIX secolo.

Nei centri maggiori nasce, attorno alla metà del secolo, un nuovo tipo di edificio a grande capienza, che in questi decenni vive una stagione breve ed intensa: il politeama. A differenza della moltiplicazione delle tipologie specializzate a mostrare particolari attrazioni, che dura dal Settecento e che conosce nell'Ottocento una notevole crescita, incubando la prossima esplosione della riproduzione tecnica, esso prende forma attorno ad una intenzione progettuale tipicamente teatrale, espressa dal nome stesso dell'edificio, che significa "teatro per il tutti gli spettacoli". A Trieste sorgerà accanto al teatro Grande, negli anni '70, il politeama Rossetti. I progetti dei grandi teatri costruiti in questi anni partecipano più o meno profondamente di questa impostazione. Un politeama rimaneggiato costituisce la più grande, se non la più prestigiosa sede teatrale di Firenze (per una descrizione della tipologia vedi il capitolo relativo). A Roma, il Costanzi, poi Reale Teatro Dell' Opera, nasce come politeama ma si evolve ancora in fase progettuale verso una forma ibrida. Un alter ego di massa, il politeama Garibaldi, sorgerà accanto al Massimo di Palermo.


da Francesco Sforza, Grandi Teatri Italiani, Editalia, Roma, 1993
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