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La memoria del secolo d'oro

Barocco. Caducità. Atteggiamento romantico nel considerarli. Virtuosismi. Il palchetto. Il pubblico settecentesco. Modernità e persistenza. Architettura e ideologia. Astrazioni e utopie architettoniche. La critica moralistica dei palchetti. Anticlericalismo.

La memoria della grande fioritura teatrale del secolo d'oro sopravvive nei grandi teatri italiani. Barocca in senso profondo, filosofico, come il teatro di Calderòn o la filosofia di Leibnitz, è la struttura della sala a palchetti. Barocca è la concezione della storia come spettacolo, dove passato e futuro si congiungono, dando vita ad una continua fioritura di forme mutevoli. Barocco è il conservatorismo fatalista, quando non caparbio, che contraddistingue ancor oggi tanti aspetti del lavoro di teatro.

La disposizione di spazi che, con il nome di "teatro all'italiana", si diffonderà in tutta l'Europa, prende forma come una conchiglia sulle ristrette società che, nei piccoli stati dell' Italia sei-settecentesca, si raccoglievano attorno a questo o a quella casata nobile o principesca. Le rendite feudali erano dissipate, fra l'altro, in queste architetture occasionali costruite con gli stessi materiali delle scenografie: legno, tela e stucco, all'interno di vasti ambienti coperti, appartenenti a palazzi. Ripetendo in piccolo forma e funzione del palcoscenico e trasformandosi frequentemente in occasione delle più diverse festività e cerimonie, esse partecipavano interamente agli spettacoli. Non erano considerate molto più importanti di capi d'abbigliamento, come essi erano soggette alla moda, come essi erano destinate ad inquadrare persone umane, tanto identificabili nella precisa geometria della struttura quanto vive, emozionabili, presenti, sia come spettatori che come impresari, compositori, esecutori, dilettanti eruditi, secondo una abitudine che ha le sue lontane origini nelle accademie rinascimentali. Contraddistinti ambedue, i teatri come i loro occupanti, da una naturale caducità: "Se qualcuno dei nostri teatri scampa all'incendio, che è la loro morte ordinaria, la sua più lunga vita arriva a cinquant'anni". Così Francesco Milizia, alla fine del '700.

Uno spirito romanticamente incline alla tristezza si può ritrovare così a fantasticare come splendidi dovevano essere stati questi teatri in passato fingendo, dietro la siepe costituita dagli arredi e dalle architetture residui, arcane meraviglie, segreti perduti di "liuteria architettonica", esperienze mai provate ed irripetibili. Eppure, se si andassero a osservare con una lente critica i frammenti sui quali si appoggia tale fantasticheria, si sentirebbe la necessità di porre un qualche freno al facile entusiasmo per un mondo scomparso, trovandolo animato da un gusto manifestamente diverso dal nostro, anche se non privo di somiglianze.

Il rispecchiarsi all'infinito delle somiglianze, l'esplodere ineffettuale delle molteplicità, l'arte di comporre insieme frammenti eterogenei in modo che sembrino un insieme compiuto, tutti fenomeni tipici del barocco, avevano avuto sul sistema di valori e figure ereditato dal rinascimento un effetto corrosivo. Ad una curiosità non indirizzata al collezionismo erudito gli ingredienti delle ricette teatrali passate non sembrano più così eccitanti. Presi nel loro insieme, risulterebbero oggi scipiti e non di rado indigeribili. Sembra che solo l'abilità dei virtuosi riuscisse a trascinare il pubblico da una stagione all'altra. La musica barocca, presa senza selezionarne le espressioni eccezionali, offre ad un orecchio di oggi una noia quasi crudele. Le scenografie dello stesso autore sembrano dissipare all'infinito gli stessi impianti prospettici. I libretti, un affastellarsi di magmi drammatici senz' altra ragione che il non riproporre in maniera identica le trame e i luoghi già visti nella stagione passata, salvo a tornarci sopra una decina d'anni dopo.

Non si può attribuire l'invenzione del palchetto, la cellula più importante di cui si compone il nuovo organismo, ad un particolare architetto o ad una occasione determinata. Le prime illustrazioni che documentano l'esistenza di strutture per il pubblico che ricordano i palchetti risalgono al medioevo e si trovano un po' in tutta Europa. La genesi della struttura modulare, razionalizzata e replicabile, detta "all'italiana" avviene nel corso del XVII secolo e deriva da una serie di minuti aggiustamenti architettonici facilitati dai frequenti riarredi. Ogni occupante è identificato per nome e cognome dal numero del palchetto, che adempie così ad una delle sue più importanti funzioni. La destinazione spettacolare di alcune di queste strutture diviene stabile con l'esigenza di affermare la continuità, la stabilità e la fortuna delle dinastie, prima di fronte alla propria corte e poi a quelle estere. Italiane o europee, nel XVIII secolo, non faceva molta differenza. E' allora che i teatri barocchi legati a famiglie regnanti cominciano ad aspirare ad essere "grandi". "...il n. 7 al principe di Maddaloni, il palco n. 6 al Principe di Stigliano, il n. 20 al principe di Avellino, il n. 3 al principe della Riccia...", è la descrizione di Benedetto Croce del primo S.Carlo.

Ogni arte evoca un pubblico. Ancora Hegel apprezza il contributo che l'abbigliamento degli spettatori da al luogo teatrale. Il palchetto incornicia le sembianze mutevoli di persone precise. Tutti i teatri più importanti replicheranno questa struttura, che aveva parecchi argomenti a suo favore: primo fra tutti quello di costituire un modello economico di realizzazione della stessa struttura, nel quale l'amministrazione si assumeva parte degli oneri e ne suddivideva il resto fra i palchettisti. Nel Settecento la proprietà e i costi di manutenzione erano suddivisi fra i proprietari associati (vedi la scritta SOCIETAS che appare sul frontone del La Fenice di Venezia). Vi era poi quell'ambiguità di privato e di pubblico che contraddistingueva questi luoghi ristretti, in cui una famiglia appunto "in ristrettezze" poteva rappresentarsi nel corpo sociale senza far trasparire le sue condizioni reali. Avere in proprietà o in affitto un palco è garanzia di un posto fisso nell'adunanze del bel mondo, possibilità di un avanzamento sociale e anche di condizionamento dell'economia dello stesso teatro. Ma vi era una ultima ragione, che rendeva la sala a palchetti una struttura particolarmente riuscita: la somiglianza anche formale fra i palchetti e il palcoscenico. "In una sala all'italiana, il palcoscenico è solo il più grande dei palchetti -sintetizza con eleganza Orazio Costa- e il più insostituibile. L'occupante del palchetto, di fronte alla sala gremita, aveva in esso il suo piccolo momento di gloria, cioè poteva sentirsi attore. Così, i trattatisti italiani (salvo Francesco Milizia) occupano, rispetto ai loro colleghi francesi, posizioni moderate.

Per tutto il secolo seguente, i palchetti garantiranno ai loro proprietari, siano essi pure borghesi ricchi, un posto riconosciuto nella società. Ma all'inizio del XVII secolo ai nomi propri iniziano a sostituirsi i nomi comuni. Il luogo, l'edificio si caricherà di significati inconsueti, politici e civili, poi raccolti nel giudizio di condanna emesso dal Neoclassicismo nei confronti del Barocco. La fondazione dell'età moderna avviene attraverso condanne e mitizzazioni che ritagliano i loro oggetti dal contesto originario. Da queste o dal caso derivano quei pochi frammenti originali dei teatri più antichi oggi visibili.

Le ragioni della conservazione degli unici esempi che ci rimangono di arredi teatrali tardorinascimentali e barocchi rimangono esterne, anzi contrapposte all'importanza della vita drammatica che in seguito essi hanno potuto accogliere. L'Olimpico di Vicenza si conserva in virtù della mitizzazione del classicismo dei modelli, operata da Palladio, mitizzato a sua volta dai suoi contemporanei ancor prima di morire, insieme a quest'ultima creazione lasciata incompiuta, che ne rappresenta quasi il monumento funebre. La conservazione del teatrino di Sabbioneta è il risultato di una mitizzazione analoga del suo architetto, Scamozzi, l'allievo di Palladio che concluse la costruzione dell' Olimpico e vi realizzò le famose prospettive, di un'attività teatrale discontinua e di un attento restauro. Il seicentesco Farnese di Parma, una struttura ibrida che unisce il modello classico di cavea e di scena alla disposizione tradizionale degli allestimenti realizzati in occasione di feste e tornei, nel 1732 venne chiuso e mai più usato. Dobbiamo ringraziare proprio questa lunga ibernazione, se il teatro dell' Aleotti è arrivato fino a noi. Lo stesso si potrebbe dire del teatro del Falcone di Genova, conservatosi intatto dal Settecento per essere stato trasformato in magazzino nel secolo seguente, ma irrimediabilmente distrutto dai bombardamenti dell'ultima guerra. L'altro teatro italiano più antico, che ospita dal Cinquecento una ininterrotta attività spettacolare, l'edificio che rappresenta più di tutti il prestigio del teatro italiano, il teatro Della Pergola di Firenze, delude il visitatore con la mediocritas delle sue strutture, rifatte fra la metà dell'Ottocento e i primi decenni del nostro secolo. Quelle con le quali era nato sono andate distrutte. Sia all'esterno che sopratutto all'interno dei grandi teatri i rimaneggiamenti sono stati considerevoli.

Le vicende evolutive dell'architettura teatrale sono complementari allo sviluppo, all'affermazione e finalmente alla moda di una mentalità scientifica e positiva. L'orientamento verso una concezione unitaria e condivisa di sala è annunciato dall'apparire di libri sull'argomento, coevi dei teatri più antichi. L' antica tradizione trattatistica artistica italiana risponde ad esigenze pragmatiche con "regole pratiche" per disegnare prospettive, per preparare e distribuire colori, per costruire macchine e scene, ecc.. La precettistica teatrale illuminista interessa in prima istanza le variabili spettacolari (testo, scenografia musica, tecniche esecutive, ecc.) e in seconda l'architettura. Al teatro "come è", con tutto il suo fascino difficilmente afferrabile, si affianca un discorso sul teatro "come deve essere", che raggiungerà, nelle riflessioni degli intellettuali più "moderni", l'arte delle trasformazioni del macrocosmo, della pietra, delle decisioni definitive e irrevocabili, l'architettura.

Negli orientamenti progettuali relativi ai grandi teatri astrazioni come magnificenza civile, regole ottiche ed acustiche, precetti per la sicurezza del pubblico, intenzioni di emulazione di altri teatri famosi si intrecciano con le esigenze pratiche degli spettacoli, le consuetudini locali e i gusti dei pochi e conosciuti destinatari empirici attorno ai quali originariamente la struttura aveva preso forma: gli aristocratici e i loro clienti. Si presenta e cresce in teatro un pubblico inusitato. Sono i moderni, i borghesi, da ultimo gli "italiani". Le correnti più o meno sotterranee di misticismo che percorrono la cultura illuminista vengono attratte facilmente da tentazioni esoteriche, spesso moderniste, a volte rivoluzionarie. Le diverse "fedi" filosofiche alle quali gli intellettuali settecenteschi si votano si esprimono in utopie architettoniche. Il Neoclassicismo introduce in teatro una ideologia utopistica, espressa sia in trattati che in progetti, di accento francese, la cui espressione più caratteristica è la proposta di sale prive di palchi, costruite ad imitazione dei teatri classici a cavea all'aperto e di quelli classicisti rinascimentali. I problemi che caratterizzeranno l'architettura teatrale del XIX e del XX secolo vengono formulati allora in forma di critiche delle strutture esistenti e delle loro consuetudini di fruizione, scontrandosi con tendenze più o meno ostinatamente conservatrici: critica dei palchetti e dell' abitudine di personalizzarne l' arredamento interno, in nome di una "uguaglianza" fra i componenti del pubblico; della mancanza di caratterizzazione dell'esterno, in nome di una architettura "parlante"; della dipendenza dell'edificio dalle sedi del potere politico e amministrativo, dell'inefficienza dei lumi tradizionali, dell'inverosimiglianza della scenografia e dei costumi, a cui si affiancheranno le teorizzazioni astratte, più o meno "scientifiche", della visibilità e dell'acustica.

La critica moralistica dei palchetti, che ha in Francesco Milizia il suo campione, è in realtà la manifestazione del grande conflitto storico che vede la nascita dei grandi teatri italiani: la lotta delle nuove classi sociali per affermare la loro autonomia di soggetti politici nei confronti delle istituzioni dell'ancien régime. I teatri a palchetti erano una di queste: "Ma per vantaggio grande si esalta ancora l'uso dei nostri palchetti, con i continuati corridori, di tanto comodo e libertà per girare, stare, affacciarsi, ritirarsi, occultarsi, giuocarvi, mangiarvi e farvi quello che viene in testa, come se si stesse nel proprio gabinetto con tutti i suoi agi per godere del teatro, e nel tempo stesso per godersi una particolar conversazione, che continuamente si rinnova". Ma particolarmente significativo è il passaggio seguente: "Uno de' grandi vantaggi degli spettacoli pubblici è lo stare in pubblico. In casa propria, e fra' propri domestici lascia ciascuno andar libere le sue passioni; ma incomincia a comporle nella misura in cui gli cresce intorno il numero e la qualità dei riguardanti; onde ciascuno si mostra in pubblico con un' apparenza di morigeratezza e di civiltà che in privato non sa possedere, e si sforza di comprarire qual realmente dovrebbe essere. ... Non sarebbe picciol profitto il poter ridurre i viziosi e i ridicoli a non esserlo che dentro di loro stessi". Il modello al quale gli architetti illuministi si ispiravano era quello vitruviano, mediato dall'Olimpico palladiano. Si veniva così a figurare una convincente catena che dal classico, attraverso il classicismo, portava al neoclassicismo. Ma tali teorizzazioni sembrano prefigurare, più che teatri, aule di parlamento, dove l'evidenza della disposizione nella cavea del "pubblico" ha precise motivazioni politiche e l'uguaglianza funzionale (vedere e udire) fra i membri è ragione d'essere e condizione di funzionamento di questi ambienti.

Un notevole aspetto distruttivo di queste ideologie sarà quello anticlericale, spinto talvolta al gusto volgare della profanazione. Per rimanere agli oggetti di questo libro, il teatro "Alla Scala" prende il nome da una chiesa demolita per fargli posto, Santa Maria della Scala. "Ad Argenta nel 1802 si chiede la trasformazione in teatro dell'Oratorio di S. Croce; ad Adria nel 1803 si desidera convertire un oratorio in teatro; ad Ancona nel 1810 si vuol erigere un teatro comunale sull'area del convento di S. Agostino; a Vigevano nell'anno 9 della Repubblica si chiede il locale della Chiesa del Popolo per destinarlo ad uso di teatro" (Ricci); a Genova, nel 1824, il Carlo Felice venne costruito sullo stesso sito del grande complesso conventuale di S. Domenico. A Palermo il "Massimo" prenderà il posto di due conventi. A Roma, all'indomani della breccia di Porta Pia gli occupanti imposero l'insediamento di una compagnia teatrale proprio nella chiesa dove erano stati seppelliti i difensori della città sacra appena caduti. Alla sconsacrazione dei templi si accompagna una tendenza, opposta, di "sacralizzazione" dello svago, nel quale si individua una attività di rilevanza pedagogica e civile. Parallelamente, le architetture ad esso dedicate da effimere si fanno permanenti, le loro forme indisponibili alle trasformazioni personalizzanti. Da componenti leggeri come legno, tela, stucco si passa gradualmente all'adozione di materiali sempre più stabili (fino alla vera pietra utilizzata nella sala del nuovo teatro di Genova). Come ogni artigianato, la sala all'italiana si evolve lentamente e per minute trasformazioni, sempre legate a cambiamenti concreti, nel pubblico, nei materiali di costruzione e nelle tecniche di lavoro. 


da Francesco Sforza, Grandi Teatri Italiani, Editalia, Roma, 1993