Il potere della stupidità
Kali
Appendice


Giancarlo Livraghi
gian@gandalf.it

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Pensieri semplici
sulla complessità


La Teoria del Caos in cinque disegnini:
tentativo impertinente
di semplificare la complessità



Da almeno vent’anni sto cercando di capire che cosa si possa imparare dalla Teoria del Caos e da tutte le analisi che ne derivano in fatto di complessità, sistemi turbolenti, eccetera. Non è facile, ma è affascinante. Perché si tratta di capire come quelle cose che chiamiamo “caos” non siano affatto caotiche, ma seguano leggi che non sempre riusciamo a definire; e come la “complessità” in realtà sia semplice, ma il nostro modo di pensare la faccia sembrare complicata.

Nel suo libro Complexity (1992) Mitchell Waldrop lo spiegava così: «L’orlo del caos è dove la vita ha trovato abbastanza stabilità per sostenersi e abbastanza creatività per meritare il nome di vita. L’orlo del caos è dove nuove idee e genotipi innovativi rosicchiano continuamente il bordo dello status quo; e dove anche la più radicata vecchia guardia sarà, presto o tardi, rovesciata».

L’orlo del caos è la situazione in cui stiamo vivendo. Ma in pratica che cosa vuol dire?

Un giorno, nell’ottobre 1997, mi venne un’idea bizzarra. Come spiegare alcuni aspetti della complessità in modo estremamente semplice? Dopo avere scritto questo testo, l’avevo fatto leggere a varie persone che avevano approfondito seriamente il tema del caos e della complessità, chiedendo se c’erano errori o se l’eccessiva semplificazione era sciocca. Benché un po’ imbarazzati, mi avevano detto che il ragionamento regge.

Sarà vero? A distanza di tre anni, non ne ero del tutto sicuro. Nel dicembre 2000 lo ripubblicai in un piccolo libriccino che regalai ad alcuni amici. I loro commenti mi incoraggiano a riprodurlo alla fine di un altro libro, che uscì nel 2001. Di nuovo ebbi parecchi commenti favorevoli – e, con mia rinnovata sorpresa, nessuno che considerasse il ragionamento superficiale, irreale, insensato o insostenibile.

Credo che capire meglio la compessità sia uno dei modi per ridurre il rischio di essere stupidi. Perciò ho deciso di riprodurre anche qui il tentativo impertinente, con la speranza che non sembri troppo banale – e che qualcuno lo trovi utile.






Se fra chi legge queste paginette ci sono persone esperte in matematica, fisica, statistica, ecologia, scienze biologiche o teoria della gestione, vorrei scusarmi con loro per la puerilità dei ragionamenti che seguono e dei “percorsi” che cercherò di tracciare. Non sto tentando di proporre modelli scientificamente corretti, ma solo stimoli (anche visivi) per un ragionamento.

Non intendo entrare nelle analisi, assai complesse, che riguardano la “teoria del caos”, i sistemi turbolenti e la complessità. C’è una vasta letteratura su questo argomento e da molti anni è chiaro (almeno per i teorici) che il fenomeno non riguarda solo la fisica, la meteorologia o l’ingegneria, ma anche i comportamenti umani – e, di conseguenza, le organizzazioni, la società, l’economia, la politica e la cultura.

Comincerò con un ragionamento che può sembrare banale. Ma spesso le cose “lapalissiane” sono i migliori punti di partenza.

Se il nostro obiettivo è andare da A a B, nella nostra mente si profila un percorso lineare:

linea

Nel mondo reale, le rette non esistono. Fra A e B ci sono necessariamente ostacoli, interferenze, percorsi indiretti; per cui anche se l’operazione che intendiamo svolgere è estremamente semplice, come andare al bar a prendere un caffè, è probabile che il percorso assuma un aspetto come questo:

curva

In un’operazione così semplice, e che dura pochi minuti, sarà difficile che nel frattempo dimentichiamo dove stavano andando e perché.

Ma il problema è assai diverso quando entra in gioco un’organizzazione, con percorsi enormemente più complessi, eventi imprevisti, continui cambiamenti della situazione in cui ci si muove, eccetera.

Qualsiasi gruppo di persone che fanno qualcosa insieme è, di fatto, un’organizzazione. Anche quattro o cinque persone che vanno al bar. E anche nel caso più semplice la realtà è più complessa di come è rappresentata in questi schemini. Il percorso per andare al bar è tridimensionale, perché è probabile che per uscire si debbano usare le scale o l’ascensore. In un’organizzazione, anche non molto grande, il modello è ovviamente multi-dimensionale. Gli schemi “piani” in cui tento di riassumerlo sono necessariamente molto meno complessi di com’è il fenomeno nell’esperienza reale. Ma spero che proprio la semplificazione aiuti a capire l’essenza dei fenomeni, che in una “topologia” analitica rischiano di essere indecifrabili.

Diventa così possibile (anzi accade molto spesso) che alcune parti dell’organizzazione dimentichino la direzione originaria...

dispersione

... e l’intero sistema perda di vista l’obiettivo, con la complicazione aggiunta che diverse componenti dell’organizzazione credano di essere dirette verso C, D, E o F e quindi lavorino in disarmonia fra loro. Questo è comunque un problema grave; ma è da notare che se chi si dirige verso C o F si sta spostando, sia pure con un percorso laterale, verso B, chi si dirige verso D o E sta andando nella direzione contraria e per tornare sulla strada che porta a B dovrebbe fare una complessa, faticosa (e spesso costosa) inversione di marcia.

Credo che non sia difficile, osservando il comportamento delle organizzazioni (pubbliche o private) constatare fenomeni di questo genere.

In un ambiente stabile, o con evoluzioni prevedibili e controllabili, la soluzione (almeno in teoria) è semplice. Basta che tutte le componenti del sistema abbiano una bussola. Cioè che non ci sia troppa “parcellizzazione” del lavoro e delle responsabilità, che ci sia una conoscenza condivisa del fatto che la rotta è verso B, e il processo sia governato da una sistematica verifica dei percorsi così che le (inevitabili) deviazioni riconvergano nella direzione giusta. Cioè il sistema dovrebbe comportarsi così:

convergenza

Ma in un ambiente complesso e turbolento il processo può evolversi in tutt’altro modo. La situazione è mutevole e imprevedibile. Proseguire ostinatamente solo verso l’obiettivo B può rivelarsi un errore.

Se osserviamo lo schema della dispersione in direzioni diverse (nella terza immagine) vediamo che (per esempio) due deviazioni spontanee (C e D) convergono verso una direzione imprevista. Ci conviene cercare di capire perché. Potremmo scoprire che la situazione è questa:

percorso

Cioè l’evoluzione “turbolenta” del sistema ci ha fatto scoprire un nuovo obiettivo N, sul quale dobbiamo far convergere le nostre energie; ma senza tagliare i rami che vanno esplorando altre, e impreviste, possibilità.

Notiamo che alcuni di questi “rami esplorativi” hanno direzioni simili al “vecchio” obiettivo B, altri non divergono molto dal “nuovo” obiettivo N, altri ancora si dirigono in territori meno conosciuti; e che l’intero sistema ha una struttura forse poco “logica”, ma più semplice delle situazioni in cui ci si invischia se si tenta di seguire un modello “lineare”. Infatti la cosiddetta “complessità” non è intrinsecamente più complessa dei sistemi apparentemente “ordinati” – e tende a sintesi più semplici. La difficoltà sta nel fatto che non siamo preparati a capirla.

Tutto questo somiglia molto più alla crescita di una pianta che al funzionamento di una macchina o alla fabbricazione di un oggetto. Infatti, sembra quasi inevitabile che le analisi dei sistemi complessi portino ad analogie biologiche.

Sarebbe complicato approfondire le considerazioni, più o meno elaborate, che per molti percorsi diversi convergono su questa (abbastanza ovvia) conclusione. Ma credo che la semplice comprensione intuitiva di questo fatto possa aiutarci a capire come muoverci in un mondo dominato dalla turbolenza e dalla complessità, in cui è spesso vincente il pensiero “non lineare”.





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