Offline Riflessioni a modem spento


La comunicazione
non è un accessorio

novembre 2004



  Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it
 
Per altre osservazioni vedi
il mercante in rete
e altre rubriche online
e due libri:
  La coltivazione dell’internet  
e L’umanità dell’internet
 
 

 



Continuiamo a ripeterci che siamo nell’era della comunicazione. Ma è curioso constatare come le organizzazioni di ogni genere, pubbliche e private, facciano un’enorme fatica a capire che comunicare non è un momento o un settore della loro attività, separato dal resto, delegato a funzioni specifiche più o meno isolate, secondarie rispetto al cuore dell’impresa e alle sue decisioni strategiche.

Non si tratta solo del perpetuarsi di strane abitudini, come quella di affidare la gestione di un sito web, o in generale la comunicazione online, a presunti “specialisti” che hanno (o credono di avere) una competenza principalmente tecnica. Sembra di ritornare ai tempi remoti in cui i tipografi si atteggiavano a esperti in comunicazione, proponendo ai loro clienti di gestire i contenuti delle cose che dovevano stampare (un atteggiamento che oggi è meno frequente, ma non è del tutto scomparso).

Non si tratta solo del fatto che chi ha uno strumento da vendere (che sia un mezzo pubblicitario, una risorsa promozionale, un sistema telefonico, una rete elettronica, un software o qualsiasi altro prodotto o servizio) si dà un gran daffare a offrire “valore aggiunto” sotto forma di consulenze che non è in grado di gestire – e sulla cui obiettività e utilità è ragionevole avere molti dubbi.

L’ossessionante proliferazione di offerte “miracolose”, che somigliano stranamente alle promesse fantastiche di maghi e fattucchiere, è un notevole fattore di confusione, ma non è il motivo principale per cui la comunicazione d’impresa è così spesso mal gestita, superficiale e inefficace.


La radice del problema sta all’interno delle organizzazioni. È diffusa la percezione (non sempre consapevole) che si possa dire una cosa e farne un’altra, promettere ciò che non si mantiene, presentarsi come qualcosa di diverso da ciò che si è o che si può realisticamente diventare.

Non parlo, naturalmente, di quella “fisiologica” esagerazione che c’è in ogni comunicazione commerciale – come ci può essere in ogni relazione umana quando qualcuno cerca di convincere qualcun altro a fare qualcosa. Tutti si aspettano che sia così. Sappiamo che ogni salumiere tende a dirci che il suo salamino è il migliore del mondo, così come ogni fabbricante o venditore di arzigogoli cerca di convincerci che nulla al mondo può arzigogolare meglio di ciò che ci offre.

Siamo anche disposti, a parità di prodotto (e, possibilmente, di prezzo) a comprare da chi ci parla in modo più simpatico e interessante. Ma se poi il salamino non è buono, o l’arzigigolo non funziona come dovrebbe, la relazione rischia di incrinarsi anche con il più affascinante dei seduttori.

Va detto anche che qualche volta la comunicazione dà un reale “valore aggiunto”. Se un certo vino è diffusamente considerato di qualità superiore faremo “bella figura” con gli amici mettendone una bottiglia in tavola. Se una donna è convinta che un certo cosmetico la renderà più bella, in aggiunta a ciò che il prodotto può fare per la sua pelle o per i suoi capelli sarà anche nello stato d’animo di “sentirsi bella” e questo la renderà più attraente. Eccetera...


Insomma il problema non sta nel fatto che la comunicazione (dichiaratamente “di parte”) tenda un po’ a esagerare – o cerchi di aggiungere valori percettivi che rendono più desiderabile un prodotto o un servizio. Ma la situazione è molto diversa quando c’è una distonia strutturale fra il modo in cui qualcosa viene offerto e il suo reale valore. O, peggio ancora, fra l’atteggiamento che un’impresa o una marca promette e il suo comportamento reale.

La villania o la noiosità burocratica di un ufficio, pubblico o privato, è comunque irritante e fastidiosa. Ma diventa intollerabile quando a comportarsi in quel modo è qualcuno che ci aveva promesso di esserci amico, di avere cura di noi, di trattarci come la persona più importante del mondo – come dovrebbe fare, visto che siamo suoi clienti o sta cercando di convincerci a diventarlo.

Un prodotto che non funziona, o non ha un’adeguata manutenzione, o crea più problemi di quanti ne risolva, è comunque un’esperienza deprimente (e talvolta un danno pericoloso). Ma diventa tanto più grave quanto più incarna l’identità di chi ci aveva convinto di essere affidabile e attento alle nostre esigenze.


Non è tutta colpa delle tecnologie. È vero che molte tecniche “avanzate” funzionano malissimo e tendono a peggiorare (vedi La stupidità delle tecnologie). È vero anche che la sostituzione del dialogo umano con dispositivi automatici produce inconvenienti che sarebbero comici se non fossero esasperanti. Ma si tratta di conseguenze, non della causa, di quella sindrome autodistruttiva che affligge una larga parte della comunicazione d’impresa (e non solo di quella).


Il fatto fondamentale, e stranamente dimenticato, è che la comunicazione è un insieme inscindibile. È ragionevole, e praticamente funzionale, adattare il modo in cui si comunica secondo il pubblico cui ci si rivolge e secondo il mezzo che si usa. Ma ciò non significa che si possano dire (e promettere) cose diverse e in contrasto fra loro.

Se un’impresa promette urbi et orbi di essere premurosa, gentile e attenta alle esigenze altrui, dovrebbe prima di tutto adeguare ogni parte del suo comportamento a quell’obiettivo – nonché addestrare e motivare il suo personale (e, per quanto possibile, i rivenditori o chi altro la rappresenta) a comportarsi in quel modo.

Se vuole essere percepita come autorevole e competente, non può permettersi leggerezze o approssimazioni. E, prima ancora di dichiararlo all’esterno, deve verificare molto seriamente che tutti, all’interno della sua struttura, condividano quell’atteggiamento e abbiano la competenza necessaria per essere davvero consapevoli e affidabili.

Ci sono, per fortuna, imprese che ragionano e si comportano in questo modo. E i risultati si vedono. Non sempre in tempi brevi, perché la coerenza e la credibilità non si costruiscono in fretta. (Vedi La fretta non è velocità e L’insopportabile lentezza delle tecnologie). Ma con una dinamica solida e crescente che, se perseguita con costanza, dà frutti sempre migliori in ogni stagione.


I princìpi fondamentali della comunicazione sono due. Uno è che non è mai a senso unico. Saper ascoltare è più importante che saper parlare. L’altro è che tutto ciò che si fa è, in un modo o nell’altro, comunicazione. Essere è più importante che apparire. Un’intrinseca coerenza di identità, metodo e comportamento è la base indispensabile. Quando quella base c’è (ed è continuamente coltivata e arricchita) una comunicazione efficace diventa un moltiplicatore di grande utilità.

Non è affatto necessario, come credono i pressapochisti della comunicazione, inventare continuamente qualcosa di nuovo per “attirare l’attenzione” con una varietà di trucchi ed effetti che poco o nulla hanno a che fare con l’identità di un’impresa. Sono infinitamente più importanti (ed efficaci) la coerenza e la continuità – e nulla ci costringe a comunicarle in modo ripetitivo o noioso.


Se vogliamo parlare di “creatività” (una parola così banalizzata e male interpretata che la uso malvolentieri) dobbiamo prima di tutto capire che non è “creativo” seguire le mode, imitare i cliché o imbellettare un catorcio per farlo sembrare chissà quale meraviglia.

È meno facile, ma enormemente più utile, avere un’identità autenticamente forte ed esprimerla coerentemente in tutti gli aspetti del proprio comportamento. Con in più la capacità espressiva di renderla interessante, convincente e gradevole.

Se qualcuno vuole vantarsi del fatto che un lavoro ben fatto è “creativo”, faccia pure. C’è quasi sempre qualcosa di non banale in una soluzione davvero efficace. Ma l’importante è che funzioni.



 

indice
indice della rubrica


Homepage Gandalf
home