Offline Riflessioni a modem spento


La stupidità
delle tecnologie

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maggio 2004

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  Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it
 
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Finalmente la verità comincia a venire a galla. Per esempio Jurgen Hubbert, il responsabile della Mercedes nel gruppo Daimler-Chrysler, ha ammesso pubblicamente che l’industria automobilistica ha molte difficoltà con le applicazioni elettroniche. E che quando un’impresa, come la sua, cerca di essere innovativa incontra problemi ancora peggiori. Tanto è vero che si sta parlando di costituire un consorzio di case automobilistiche per razionalizzare i sistemi e condurre insieme sperimentazioni più affidabili.

Chissà perché nessuno ci ha pensato prima. Che il problema ci sia è cosa nota da parecchi anni. Ma si è continuato ad ammucchiare elettronica nelle automobili, come in tante altre cose, senza verificare con sufficiente attenzione che cosa funziona e che cosa no – e quante applicazioni creano più problemi di quanti ne sperassero di risolvere.

Le tecnologie di base dell’automobile sono le stesse da cent’anni. Si è parlato di turbine, di pistoni rotanti e di altri possibili sistemi, ma il propulsore è ancora l’antico motore a scoppio o lo storico e robusto diesel. (Vedi La congestione tecnologica).

Ci sono applicazioni verificate e funzionanti con altre risorse energetiche, ma si continua sciaguratamente a bruciare petrolio. (Vedi L’idrogeno e l’internet). Ci sono soluzioni migliori dell’originaria trazione posteriore (che era come mettere il carro davanti ai buoi) ma si tratta sempre degli stessi veicoli a quattro ruote – e i pneumatici esistono dal 1888.

Quelle vecchie tecnologie sono state progressivamente raffinate e perfezionate. Guidare è diventato più facile. Le macchine sono più affidabili e sicure. Anche l’elettronica funziona ragionevolmente bene in applicazioni specifiche e seriamente sperimentate, come il controllo dell’accensione o dei sistemi frenanti. Insomma (anche se tutti, qualche volta, sbagliano) l’industria sa come fare – fin che rimane nel suo terreno di competenza e di esperienza.

La progettazione su computer permette di ottenere avanzamenti importanti. Ma nessuna casa seria si sogna di mettere una nuova macchina sul mercato senza averla estesamente provata su strada. Nonostante questo può accadere che un veicolo si rovesci per un abbinamento sbagliato del suo sistema di trazione con un pneumatico inadatto. Ma sono casi relativamente rari.

Il problema nasce quando, nella corsa concorrenziale verso una non sempre desiderabile ricchezza di accessori, si accumulano su un’automobile tecnologie dell’informazione che non sono progettate dagli ingegneri della fabbrica, ma da fornitori esterni che hanno un’inguaribile tendenza a promettere miracoli e a proporre soluzioni “avanzate” senza badare a quanto siano utili, verificate o funzionali.

Dopo un’imprudente corsa in avanti le case automobilistiche (come molte altre imprese industriali) hanno capito che è meglio fare un passo indietro e riscoprire i valori dell’ergonomia.

Un vecchio ritornello dice «se le automobili funzionassero come i computer andrebbero a mille all’ora e farebbero cinquecento chilometri con un litro». Ma è spesso trascurata la seconda parte: «...ed esploderebbero cinque volte al giorno». Purtroppo non si tratta solo di una battuta ironica. Ci sono stati molti incidenti, di cui alcuni mortali, provocati da un’incauta applicazione dell’elettronica in un’automobile.

Naturalmente è possibile fare automobili che vanno a cinquecento chilometri all’ora. Ma sarebbe demenziale metterle sul mercato, perché non ci sono strade percorribili a quella velocità e solo piloti molto specializzati sarebbero in grado di guidarle.

Nelle applicazioni industriali si tende a procedere con obiettivi di efficienza – e quando gli automatismi di una macchina utensile sono eccessivi o vanno fuori controllo ci si accorge che è meglio tornare a sistemi più collaudati.

Ma quando si tratta di tecnologie dell’informazione e della comunicazione l’impresa non si trova più sul terreno delle sue competenze – e rischia di smarrirsi nella complessità delle risorse disponibili.

È verificato e documentato che l’installazione e l’uso di tecnologie di cui non si è precisata con sufficiente chiarezza la funzione – e che non sono al servizio di un ben definito processo – non solo provocano enormi sprechi di denaro, ma sono dannose all’organizzazione e alla qualità del lavoro. (Vedi Il paradosso della tecnologia).

Naturalmente è possibile fare computer e reti affidabili. Nella maggior parte dei casi i sistemi di guida degli aeroplani, gli impianti elettronici di chirurgia, come altri che mettono direttamente in gioco la vita delle persone, hanno buoni livelli di efficienza (e adeguati backup nel caso di un guasto imprevisto). Ma ci sono grandi sistemi che funzionano male. Come per esempio, notoriamente, i servizi elettronici delle banche – male impostati parecchi anni fa e oggi così intricati da essere quasi irrimediabili.

Per quanto assurdo possa sembrare, anche in forme molto avanzate di tecnologia (come le esplorazioni spaziali) ci sono fallimenti dovuti a errori, talvolta banali, che sarebbero stati evitabili con una progettazione più attenta e funzionale.

Una “bomba intelligente” è una macchina estremamente stupida. Usa i suoi raffinati sistemi di navigazione per andare in un certo posto e poi attiva un certo congegno. Non ha alcuna nozione del fatto che così distruggerà se stessa e molte cose lì intorno – compreso un numero imprecisato di vite umane. Dipende da chi l’ha progettata, e ancora di più da chi la usa, fare in modo che ottenga il massimo risultato possibile con il minimo possibile di “danni collaterali”.

Nell’uso quotidiano e diffuso dell’elettronica i problemi sono molto meno drammatici, ma creano continuamente ogni sorta di pasticci. C’è una strana assuefazione, come se il cattivo funzionamento dei computer fosse inevitabile.

Un robot industriale funziona meglio di un essere umano quando deve svolgere con ripetitiva precisione un compito molto specifico. Ma quando si tratta di gestire procedure complesse le macchine diventano molto meno affidabili.

Ormai quasi nessuno, che non sia del tutto incompetente in materia, usa espressioni come “cervello elettronico”. Ma sembra ancora un po’ troppo diffusa la percezione che si possa delegare alle macchine il compito di pensare.

L’importante è capire che le tecnologie sono stupide. O almeno non aspettarci che siano capaci, per chissà quale ispirazione esoterica, di funzionare bene per conto loro.

Il motivo per cui tante tecnologie funzionano male, e tendono a diventare ancora peggio, non è (come spesso sembra) il frutto di una volontà perversa delle macchine o degli astrusi codici che le gestiscono. È la stupidità umana di chi le progetta e di chi le applica. Resa ancora più perversa dalla diffusa tendenza a trattare da stupido chi le usa, inducendolo all’obbedienza cieca e passiva invece di incoraggiarlo a capire come può adattare macchine e software alle sue esigenze.

Una tecnologia funziona bene quando è concepita, con la massima possibile semplicità, per svolgere un compito preciso.

Anche una macchina che serve per fare varie cose diverse, come un personal computer, funzionerebbe molto meglio se ognuna delle funzioni fosse separata, con condivisione di risorse solo quando è indispensabile – o davvero utile e vantaggioso. E se a ognuno fosse consentito di installare solo ciò che davvero gli serve. (Vedi Come ridurre il computer all’obbedienza).

Le tecnologie di base dell’internet trent’anni fa, e quindici anni fa del sistema world wide web, sono nate solide, affidabili, aperte, trasparenti ed efficienti. Lo sono ancora oggi. Ma su quelle fondamenta robuste si sono costruite smisurate cattedrali di cartapesta, fragili e intricate, che soffrono degli stessi malanni di cui è infetto il più diffuso sistema operativo dei personal computer, con tutte le sue farraginose applicazioni.

Per demolire quella proliferazione di inutili ingombri, di fastidiose complicazioni e di inaccettabili inefficienze non c’è bisogno di un bulldozer o di un diserbante. Basta un’energica dose di buon senso applicato. E un severo rigore nel mettere le macchine al servizio delle esigenze umane.

“La lunga notte dell’elettronica”, come l’ha definita un titolo insolitamente azzeccato su Repubblica del 14 aprile 2004, è durata troppi anni. Siamo finalmente arrivati al risveglio?



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