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letterIl Mercante in Rete
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Se devo piantare un chiodo, e non ho un martello, è possibile che ci riesca con una
pentola. Forse il chiodo sarà un po' storto, forse il muro sarà un po' sbrecciato, ma se
la cosa che devo appendere non è troppo pesante può darsi che la cosa funzioni. Se fossi su un'isola deserta, e il mio unico attrezzo fosse un martello, forse potrei usarlo per cucinare: scaldandolo bene sul fuoco e tagliando le cose a pezzettini, potrei fare una specie di grossolano sukiyaki. Non sarebbe un capolavoro di gastronomia, ma meglio che mangiare lucertole crude. Ma per chi non è un naufrago in lidi sperduti e può disporre di attrezzi adatti è meglio usare martello, cacciavite, pinze e tenaglie secondo il caso; e in cucina pentole, padelle e forno, secondo la ricetta. Chissà perché, quando si tratta di uso della rete, così tanti insistono a usare (e proporre) soluzioni e strumenti semplicistici e grossolani; che possono anche, talvolta, funzionare, ma sono certo meno efficaci di un lavoro ben organizzato con un'adeguata scatola degli attrezzi o batteria da cucina. Ormai cominciano a esserci analisi e proposte di metodo molto più precise. Sono ancora voci sommesse nella gran fanfara miracolistico-superficiale, ma se si cercano con un po' di attenzione è possibile trovarle. Invece non solo si continuano a proporre e praticare usanze che farebbero ridere anche Robinson Crusoe, ma si continua a farne dottrina, a insegnarle nei corsi di formazione, a diffonderle nei manuali, a proporle come tema nelle tesi di laurea (con grande smarrimento degli studenti che cercano di svolgere seriamente il compito). Gli errori che frequentemente si commettono sono molti. In modo forse un po' grossolano, ma spero non irragionevole, per semplicità si possono raggruppare in sei categorie:
Non è meno riduttivo, anche se apparentemente meno improprio, pensarealla comunicazione in rete come una semplice variante in più del tradizionale direct marketing. Non si tratta solo di una interattività molto più diretta, ma di un sistema di relazioni che nessun modello di direct response poteva sviluppare con gli strumenti disponibili in passato. Anche in questa prospettiva, occorre pensare in modo nuovo, con grande apertura mentale e senza tentare di imprigionare una realtà ricca e complessa (e in continua evoluzione) negli schemi tradizionalmente definiti in situazioni molto diverse. Vorrei usare per una volta, e in questo caso (credo) a proposito, una delle parole più abusate e fallaci che ricorrono quando si parla della rete. La combinazione di questi errori produce un danno davvero esponenziale, perché gli effetti negativi non si sommano, ma si moltiplicano. Al contrario una soluzione corretta, che sappia usare bene le sinergie di vari fattori, porterebbe a una moltiplicazione dell'efficacia. Ma c'è un problema: questo percorso richiede molta più attenzione e approfondimento di quanto, almeno per ora, la maggior parte delle imprese sia disposta a dedicare alla rete. |
Non solo in Italia si commette continuamente l'errore di pensare alla rete come un
"mercato di massa". Che gli "utenti" internet nel mondo siano 50 o 100
milioni non solo è qualcosa che nessuno riesce a misurare con esattezza, ma è
sostanzialmente irrilevante. Un autore che ho già citato,
Gerry McGovern, in un articolo del 1o febbraio intitolato The 100 Million Customers Myth
("Il mito dei 100 milioni di clienti") parlando del mercato internazionale dice:
Una conversazione fra due alieni. Uno dice all'altro "Ehi, Joe, perché non pensi a aprire un business sulla terra?" "Perché, Frank?" risponde l'altro. "Perché se lo fai sei in grado di raggiungere cinque miliardi di persone!" dice entusiasticamente Frank. "Fantastico! Cinque miliardi di persone, Frank!?" grida Joe. "È incredibile! Quanto costerebbe?" "È un vero affare aprire sulla terra, Joe" risponde Frank. "Basta metter su un ufficio in un posto qualsiasi e raggiungi cinque miliardi di persone". "Ah, Frank, che occasione!! Chi potrebbe organizzarmi la cosa!?" "Be'... si dà il caso che la mia società, Earth Business Set-up, sia specializzata nel creare imprese sulla terra". Una conversazione fra due umani. "Ehi, Joe, perché non pensi a aprire un business sull'internet?" "Perché, Frank?" "Perché se lo fai sei in grado di raggiungere 100 milioni di persone!" Questo è semplicemente impossibile, osserva Gerry McGovern. Perché se qualcuno pensa che avendo aperto un sito web si possano magicamente raggiungere 100 milioni di persone, lasciatemi dire una cosa: non ha la più remota possibilità di riuscirci. È un mito grottesco e privo di senso dire che avere un sito web significa avere un mercato di milioni di persone. Eppure in un'infinità di posti si continua a dirlo. Sarebbe stato bene, già molto tempo fa, picchiare in testa a chi racconta queste favole con un grosso e pesante oggetto metallico. Quando mettete su un sito online avete probabilmente accesso a zero persone, certamente zero nuovi potenziali clienti. Dovete metterci impegno, fatica e investimento per ottenere le persone vengano a visitare il nostro sito - e ritornino. Soprattutto ci vuole un buon motivo perché decidano di spendere i loro sudati guadagni per venire fin da voi, e un motivo ancora migliore perché pensino di spendere altri soldi per comprare qualcosa. Se non avete una strategia chiara per sviluppare traffico e costruire fedeltà online, metter su un sito è come buttare granelli di sabbia sulla piaggia. Può anche darsi che nel mondo ci siano 100 milioni di persone collegate in rete, ma non è facile raggiungerle. Mi sembra molto chiaro. Vorrei aggiungere solo che il 99,9 per cento delle cose (prodotti o servizi) che si possono offrire in rete non interessano a "tutte" le persone in grado di collegarsi, ma a una parte più o meno piccola della comunità online. Quindi l'obiettivo non è comunicare con "tutti" o con "chiunque", ma solo con chi è interessato a ciò che abbiamo da dire o da offrire; e in un modo che sia davvero interessante per loro. Lapalissiano? Direi di si; ma quanti lo sanno fare e lo fanno davvero? |
L'internet è, per sua natura, internazionale. Mentre in Italia non è possibile
registrare un domain se non si dimostra di essere un'entità legalmente costituita,
in altri paesi, e in particolare negli Stati Uniti, la cosa è molto più semplice. In
pratica nulla impedisce a un'impresa, organizzazione o persona residente a Imola o a
Pescara di registrare un domain tizio.com o tizio.net o tizio.org - se qualcun
altro non si è già impadronito di quel nome. Infatti ci sono parecchie imprese italiane che hanno già registrato non solo nome.it ma anche nome.com, nome.de, nome.fr, nome.uk, eccetera. Mi sembra un'operazione opportuna, anzi necessaria: anche chi non sa, per ora, che cosa farsene fa bene a "proteggere" il proprio nome in vista di eventuali usi futuri - e comunque per impedire ad altri di farlo. Mi sembra probabile che fra le funzioni aziendali impegnate a registrare domain una delle più attive sia l'ufficio legale. (È strano, tuttavia, rilevare come fra le non molte imprese italiane che hanno un sito web ce ne siano tante che non hanno registrato un domain ma operano con un subdomain ospitato sotto il nome di altri; di solito quello di un provider. Un altro sintomo di quanto poco approfondimento ci sia dietro alla decisione di aprire una presenza in rete). Ma il problema è un altro. Ora che il GARR-NIC comincia a raccogliere denaro (vedi la nota che segue) speriamo che riesca a snellire la sua burocrazia. Registrare un nome.com costa un po' di più che 50.000 lire; ma da noi c'è un costo in più di "pratiche", documentazione e burocrazia. Ci sono, in Italia, ostacoli assurdi, come il fatto che un'organizzazione non può avere più di un domain. Quante imprese (o enti di qualsiasi specie) hanno più di una marca o divisione operativa con una propria identità? Sembra che con le nuove norme questo ostacolo possa essere, in parte, superato; ma solo per alcune categorie di attività commerciali, con procedure e documentazioni complesse; e ogni "entità giuridica" non può avere più di due domain. Insomma ci sono ancora pesanti e costose pastoie burocratiche. Che lo usino subito o no, è importante per le imprese italiane poter "proteggere" la loro identità, che in molti casi si manifesta con più di un nome, anche con un domain in rete. C'è chi pensa che sia meglio registrare un domain.com perché "in America non si fidano degli italiani". Se così fosse, sarebbe gravissimo; non lo dico per "amor di patria" ma perché se l'intera comunità delle imprese non si muove in modo da creare fiducia per il "made in Italy" siamo tutti nei guai. È vero che per fatti organizzativi e di servizio, e per alcune categorie di prodotti, è più efficiente avere un servizio logistico "il loco" nei mercati più importanti (specialmente negli Stati Uniti). Ma questo si può fare benissimo anche con un'identità italiana. E se non si risolvono i problemi di servizio (e, quando è il caso, di "consegna fisica" di prodotti) oltre confine si rischia di perdere proprio quella grande occasione competitiva che la rete offre, specialmente alle "piccole e medie imprese". Infine... la diminuzione del numero di host in Italia è attribuibile al fatto che gli italiani preferiscono "travestirsi da americani" oppure registrano domain con estensione .com perché è troppo complicato avere un .it? Non credo. Certamente ci sono casi del genere. Ma non penso che siano così numerosi da incidere sul significato statistico del numero di host. Dal 1o gennaio 1998 (ma le fatture saranno emesse, pare, in agosto) il GARR-NIC chiede 50.000 lire all'anno per la registrazione di un domain italiano. Un po' meno di quanto costa lo stesso servizio negli Stati Uniti. Anche chi l'ha già registrato deve pagare per mantenerne l'uso (non è "alla lettera" così - per i domain già esistenti il pagamento è d'obbligo solo nel caso che si chieda servizio al GARR - ma senza entrare in dettagli burocratici la sostanza, secondo me, è quella). Questo sarà un freno alla registrazione di domain italiani? Spero di no. Un costo di 50.000 lire all'anno non può preoccupare neanche una piccola impresa. Ma il problema, come abbiamo visto, è un po' più complesso. Inoltre, la quota di 50.000 lire è riservata ai provider; un'impresa che si rivolga direttamente al GARR-NIC deve spendere una cifra molto superiore (secondo i nuovi modelli di contratto, 750.000 lire). In pratica chi vuole diventare "titolare" di un domain italiano, e non vuole affrontare una maggiore spesa, oltre ai costi e ai fastidi di tutta la trafila burocratica, deve compensare il provider per il lavoro, abbastanza complesso, imposto dalle norme nostrane. Quindi, in un modo o nell'altro, è costretto a spendere molto più di 50.000 lire. Tutto il farraginoso meccanismo sembra formulato in modo da "forzare" le imprese (specialmente le "piccole") a passare attraverso i provider per fare le "pratiche" di registrazione, e così facilitare il lavoro dell'ente di controllo. Il rischio è che l'accumulo di spese e la complessità delle procedure contribuiscano a scoraggiare la registrazione di domain italiani. Il che può forse giovare agli interessi di qualcuno, ma non è un bene per il tanto invocato, e così spesso tradito, "sistema paese". Insomma... le solite cose un po' contorte "all'italiana". Dobbiamo augurarci, invece, che l'introduzione di questa "tariffa" sia un incoraggiamento a rendere più efficienti, più disponibili e meno burocratici i servizi del GARR. Fino a pochi anni fa era un piccolo e tranquillo organismo universitario a Pisa, che smaltiva pigramente compiti abbastanza limitati, in un sistema che sembrava riservato quasi esclusivamente al mondo accademico. Ora sembra un po' sgomento davanti alla diffusione dell'internet. I domain italiani sono pochi rispetto alle reti mondiali, ma tre anni fa erano meno di mille e ora sono più di ventimila; e le richieste si ammucchiano, perché anche in Italia si comincia a capire che marchi e identità devono essere "protette". |
Uno dei migliori istituti italiani di ricerca e analisi delle tendenze, l'Eurisko, ha svolto una ricerca sull'internet che sto
cercando di approfondire. Ne derivano alcune interessanti considerazioni, di cui parlerò
in uno dei prossimi numeri di questa rubrica. Intanto, con il gentile consenso dell'autore, vorrei citare un articolo di Gabriele Calvi, presidente dell'Eurisko, pubblicato nel notiziario Social Trends del dicembre 1997.
Vorrei aggiungere che non solo è mancata, e continua a mancare, la formazione di una cultura umana dell'informatica e della rete, ma c'è stata e continua a esserci una grave disinformazione (mista di terrorismo sensazionalistico, di elucubrazioni tecnofantastiche e di tentativi di "alfabetizzazione" repressiva, opprimente e tecnocratica) che diffonde ogni sorta di timori, disagi e diffidenze. C'è anche una tendenza, socialmente perniciosa e commercialmente miope, a proporre soluzioni inutilmente complesse e costose, che pongono un ulteriore ostacolo (culturale oltre che economico) alla diffusione dell'informatica e della telematica.
Vorrei aggiungere che non c'è solo un problema di investimento, ma anche di qualità. Il livello della "formazione" e "alfabetizzazione" oggi disponibile è desolante: ostico, disumano, meccanicamente tecnicistico. Una delle radici del problema è la scarsa qualità di gran parte della formazione proposta e diffusa; e se si formano male i formatori... Certo anche una grossolana "alfabetizzazione" sarebbe meglio di nulla, se portasse almeno a una certa confidenza con gli strumenti; ma l'effetto degli investimenti educativi potrebbe essere enormemente migliorato, a parità di spesa, se si impostassero bene le prospettive culturali e i metodi di insegnamento.
Mi dispiace di aver citato solo in parte le osservazioni di Gabriele Calvi (per "esigenze di spazio" che esistono anche online) ma spero di averne conservato il senso; per chi lo vuol leggere tutto, c'è in allegato il testo completo del suo articolo. Nel numero di dicembre di Social Trends, a complemento di quell'articolo, ci sono alcuni interessanti grafici. Eccone due, che mi sembrano molto eloquenti.
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Questo è un "modello teorico" basato non sulle esperienze (reali ma finora
limitate) di chi vende libri in rete in Italia ma su un'ipotesi finora irreale: la nascita
di qualcosa che somigli alla versione italiana del notissimo caso americano - Amazon
Books. Ci sono circa 70 librerie
italiane in rete, ma nessuna che offra un servizio così esteso. Rivelerò un mio piccolo segreto: sei mesi fa stavo studiando l'ipotesi di organizzare una cosa del genere. Poi ci ho rinunciato, perché ho letto che qualcun altro lo stava facendo, e aveva già accordi con grosse organizzazioni distributive (si trattava di Alice, un sito da tempo dedicato ai libri e quindi con una buona base su cui costruire; ma pare che finora non l'abbiano fatto e non so a che punto sia il loro progetto). La mia convinzione è che, almeno per ora, c'è posto per una sola organizzazione che sappia fare bene questo mestiere; è troppo presto perché ce ne possano essere due, tre o quattro, che andrebbero a contendersi un terreno ancora immaturo. Spero che le lettrici e i lettori di questa rubrica trovino qualche spunto interessante nelle mie meditazioni, anche se si tratta, per ora, di un "caso immaginario". Le considerazioni che seguono sono basate sull'ipotesi "libro", ma penso che siano valide anche per altri settori. Prima di tutto: c'è un mercato? Imprese come Amazon o Barnes & Noble lavorano su un mercato immenso: non solo gli Stati Uniti (che da soli rappresentano più di metà della rete e più di tre quarti del "commercio elettronico" globale) ma la comunità mondiale delle persone che leggono l'inglese: che sono, in totale, molte centinaia di milioni e sono la maggioranza delle persone collegate in rete, dovunque risiedano. I libri in lingua italiana non possono avere un mercato così grande; e inoltre gli italiani in rete sono pochi. Ha senso impegnarsi in un mercato così piccolo? Credo di si, per tre ragioni:
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Si possono ricavare indicazioni interessanti da un esempio che può sembrare minuscolo
anche agli occhi di molte "piccole e medie imprese"? Secondo me, si. C'è un'impresa che si chiama Grifos e vende "articoli da scrittura". Cioè penne di produzione particolarmente curata, anche dal punto di vista estetico: la gamma dei prezzi è fra le 100.000 lire e i due milioni. In sostanza quegli oggetti che si regalano in occasioni speciali. Fatturato: 45 milioni. Addetti: uno. Le vendite della Grifos in rete sono quasi tutte all'estero; e per oltre il 90 per cento negli Stati Uniti. Ma ora cominciano ad aprirsi anche altri paesi... La Grifos è in rete da un anno e mezzo. Ha costruito gradualmente e con pazienza il suo sistema di relazioni. Non ha mai speso una lira in "banner" o altre forme di "pubblicità". Il suo strumento fondamentale è il "passaparola": il miglior venditore è un cliente soddisfatto. Coltiva con attenzione la relazione con i clienti. In generale si scambiano almeno tre messaggi personali con un cliente prima che arrivi un ordine. Dopo un anno e mezzo di graduale sviluppo ha superato il magico punto del breakeven: coperti tutti gli investimenti, d'ora in poi vanno a crescere i profitti. Qualcuno potrebbe dire che un fatturato di 45 milioni è piccolo. Ma per una persona, che ha già altre fonti di guadagno, e con tendenza a crescere... "non sono noccioline". Com'è possibile tutto questo? La risposta, come sempre, sta nella situazione personale di chi ha messo in moto l'impresa (e continua, almeno finora, a gestirla da solo). Maurizio Stura è un dipendente dell'impresa che da quarant'anni produce e vende attraverso i canali tradizionali (grossisti) le penne che lui oggi offre in rete. D'accordo con l'impresa, si è impegnato nella ricerca di altri canali. Ha fatto varie esperienze (per esempio annunci sulla stampa in Germania) con risultati del tutto insoddisfacenti (ora, invece, con l'internet...). Ha esperienza e pratica personale della rete. Si occupa di questa attività la sera (uno dei vantaggi della posta elettronica è di essere indipendente dall'orario). Certo, la gestione del sito e della corrispondenza consuma tempo; ma, dice ... "è più divertente che guardare la televisione". Ha provato a far fare le cose ad altri, ma alla fine ha scoperto che è più efficiente (e meno costoso) fare da sé. Si è dotato delle attrezzature necessarie, compreso uno scanner, ha imparato le tecniche e i metodi... Ora ha un business che si sta progressivamente allargando. Il suo criterio di base è vendere direttamente al "consumatore finale", ma mantiene flessibili le sue scelte. Ora è in trattativa con un grossista a Hong Kong... Certo: è una piccolissima impresa. Ma essere piccoli è un vantaggio. Non solo si possono seguire da vicino i clienti, ma si ha anche una buona probabilità di essere lasciati in pace. Il territorio è troppo speciale, troppo limitato perché possa essere invaso dalle pesanti e ingombranti ruspe delle grandi organizzazioni. In Italia? Ha due o tre clienti. Se avesse puntato sul mercato italiano, non avrebbe mai avuto un "decollo". Ma ora che il meccanismo è innestato, e che il sistema è sorretto dai risultato all'esportazione, Grifos si trova in posizione di vantaggio per poter offrire il suo servizio anche in Italia: cioè, senza alcun ulteriore costo o investimento, cogliere le occasioni se e quando ci saranno. In questi genere di attività anche i piccoli numeri contano. E se dall'uno nasce il due e dal due nasce il tre... Quando ho chiesto a Maurizio Stura se potevo pubblicare queste informazioni sul suo caso, mi ha detto "Certo, più se ne parla meglio è; più si diffonde in Italia l'idea che si può comprare e vendere in rete, e si capisce come si fa, meglio sarà per tutti". Altri operatori, invece, non capiscono questa logica. I casi documentati di marketing in rete sono rari perché, in assoluto, sono poche le esperienze significative; ma anche perché "molti di quei pochi" preferiscono stare zitti, perché non vogliono condividere la loro esperienza con altri. Questa "avarizia di informazioni", questa scarsa disponibilità allo scambio, è una delle barriere culturali che frenano lo sviluppo del "marketing elettronico". Questo caso è unico e inimitabile? Direi proprio di no. Ci sono alcune costanti che, secondo me, sono applicabili a ogni sorta di altri settori merceologici e a diverse strutture d'impresa. Ecco un semplice elenco dei fattori di successo:
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