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Marketing nei new media e nelle tecnologie elettroniche


di Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it


Numero 14 - 9 febbraio
1997
1. Editoriale: La pentola e il martello
2. Il mito dei milioni
3. Quanti italiani sembrano americani?
4. Una generazione perduta
5. Un caso immaginario: una libreria in rete
6. Un caso piccolo ma esemplare
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1. Editoriale: La pentola e il martello
Se devo piantare un chiodo, e non ho un martello, è possibile che ci riesca con una pentola. Forse il chiodo sarà un po' storto, forse il muro sarà un po' sbrecciato, ma se la cosa che devo appendere non è troppo pesante può darsi che la cosa funzioni.

Se fossi su un'isola deserta, e il mio unico attrezzo fosse un martello, forse potrei usarlo per cucinare: scaldandolo bene sul fuoco e tagliando le cose a pezzettini, potrei fare una specie di grossolano sukiyaki. Non sarebbe un capolavoro di gastronomia, ma meglio che mangiare lucertole crude.

Ma per chi non è un naufrago in lidi sperduti e può disporre di attrezzi adatti è meglio usare martello, cacciavite, pinze e tenaglie secondo il caso; e in cucina pentole, padelle e forno, secondo la ricetta.

Chissà perché, quando si tratta di uso della rete, così tanti insistono a usare (e proporre) soluzioni e strumenti semplicistici e grossolani; che possono anche, talvolta, funzionare, ma sono certo meno efficaci di un lavoro ben organizzato con un'adeguata scatola degli attrezzi o batteria da cucina.

Ormai cominciano a esserci analisi e proposte di metodo molto più precise. Sono ancora voci sommesse nella gran fanfara miracolistico-superficiale, ma se si cercano con un po' di attenzione è possibile trovarle. Invece non solo si continuano a proporre e praticare usanze che farebbero ridere anche Robinson Crusoe, ma si continua a farne dottrina, a insegnarle nei corsi di formazione, a diffonderle nei manuali, a proporle come tema nelle tesi di laurea (con grande smarrimento degli studenti che cercano di svolgere seriamente il compito).

Gli errori che frequentemente si commettono sono molti. In modo forse un po' grossolano, ma spero non irragionevole, per semplicità si possono raggruppare in sei categorie:

  1. Pensare alla rete come se fosse un "mercato di massa".
  2. Ragionare secondo le logiche del marketing tradizionale e dei mezzi broadcasting a senso unico.
  3. Considerare il "commercio elettronico" come l'unica forma di marketing in rete.
  4. Nell'ambito del "commercio elettronico" pensare a un'unica formula, semplicistica e riduttiva: un sito web con un catalogo di prodotti o servizi e azioni di "pubblicità" per farlo conoscere.
  5. In modo ancora più riduttivo, pensare alla comunicazione in rete come se fosse solo un "mezzo in più" per la pubblicità tradizionale (intesa quasi sempre come diffusione di "banner")
  6. Invertire le priorità: scegliere gli strumenti prima degli obiettivi.

Non è meno riduttivo, anche se apparentemente meno improprio, pensarealla comunicazione in rete come una semplice variante in più del tradizionale direct marketing. Non si tratta solo di una interattività molto più diretta, ma di un sistema di relazioni che nessun modello di direct response poteva sviluppare con gli strumenti disponibili in passato. Anche in questa prospettiva, occorre pensare in modo nuovo, con grande apertura mentale e senza tentare di imprigionare una realtà ricca e complessa (e in continua evoluzione) negli schemi tradizionalmente definiti in situazioni molto diverse.

Vorrei usare per una volta, e in questo caso (credo) a proposito, una delle parole più abusate e fallaci che ricorrono quando si parla della rete. La combinazione di questi errori produce un danno davvero esponenziale, perché gli effetti negativi non si sommano, ma si moltiplicano.

Al contrario una soluzione corretta, che sappia usare bene le sinergie di vari fattori, porterebbe a una moltiplicazione dell'efficacia. Ma c'è un problema: questo percorso richiede molta più attenzione e approfondimento di quanto, almeno per ora, la maggior parte delle imprese sia disposta a dedicare alla rete.

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2. Il mito dei milioni
Non solo in Italia si commette continuamente l'errore di pensare alla rete come un "mercato di massa". Che gli "utenti" internet nel mondo siano 50 o 100 milioni non solo è qualcosa che nessuno riesce a misurare con esattezza, ma è sostanzialmente irrilevante. Un autore che ho già citato, Gerry McGovern, in un articolo del 1o febbraio intitolato The 100 Million Customers Myth ("Il mito dei 100 milioni di clienti") parlando del mercato internazionale dice:

Una conversazione fra due alieni. Uno dice all'altro "Ehi, Joe, perché non pensi a aprire un business sulla terra?" "Perché, Frank?" risponde l'altro. "Perché se lo fai sei in grado di raggiungere cinque miliardi di persone!" dice entusiasticamente Frank. "Fantastico! Cinque miliardi di persone, Frank!?" grida Joe. "È incredibile! Quanto costerebbe?"

"È un vero affare aprire sulla terra, Joe" risponde Frank. "Basta metter su un ufficio in un posto qualsiasi e raggiungi cinque miliardi di persone". "Ah, Frank, che occasione!! Chi potrebbe organizzarmi la cosa!?" "Be'... si dà il caso che la mia società, Earth Business Set-up, sia specializzata nel creare imprese sulla terra".

Una conversazione fra due umani. "Ehi, Joe, perché non pensi a aprire un business sull'internet?" "Perché, Frank?" "Perché se lo fai sei in grado di raggiungere 100 milioni di persone!"

Questo è semplicemente impossibile, osserva Gerry McGovern. Perché se qualcuno pensa che avendo aperto un sito web si possano magicamente raggiungere 100 milioni di persone, lasciatemi dire una cosa: non ha la più remota possibilità di riuscirci.

È un mito grottesco e privo di senso dire che avere un sito web significa avere un mercato di milioni di persone. Eppure in un'infinità di posti si continua a dirlo. Sarebbe stato bene, già molto tempo fa, picchiare in testa a chi racconta queste favole con un grosso e pesante oggetto metallico.

Quando mettete su un sito online avete probabilmente accesso a zero persone, certamente zero nuovi potenziali clienti.

Dovete metterci impegno, fatica e investimento per ottenere le persone vengano a visitare il nostro sito - e ritornino. Soprattutto ci vuole un buon motivo perché decidano di spendere i loro sudati guadagni per venire fin da voi, e un motivo ancora migliore perché pensino di spendere altri soldi per comprare qualcosa.

Se non avete una strategia chiara per sviluppare traffico e costruire fedeltà online, metter su un sito è come buttare granelli di sabbia sulla piaggia. Può anche darsi che nel mondo ci siano 100 milioni di persone collegate in rete, ma non è facile raggiungerle.

Mi sembra molto chiaro. Vorrei aggiungere solo che il 99,9 per cento delle cose (prodotti o servizi) che si possono offrire in rete non interessano a "tutte" le persone in grado di collegarsi, ma a una parte più o meno piccola della comunità online. Quindi l'obiettivo non è comunicare con "tutti" o con "chiunque", ma solo con chi è interessato a ciò che abbiamo da dire o da offrire; e in un modo che sia davvero interessante per loro. Lapalissiano? Direi di si; ma quanti lo sanno fare e lo fanno davvero?

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3. Quanti italiani sembrano americani?
L'internet è, per sua natura, internazionale. Mentre in Italia non è possibile registrare un domain se non si dimostra di essere un'entità legalmente costituita, in altri paesi, e in particolare negli Stati Uniti, la cosa è molto più semplice. In pratica nulla impedisce a un'impresa, organizzazione o persona residente a Imola o a Pescara di registrare un domain tizio.com o tizio.net o tizio.org - se qualcun altro non si è già impadronito di quel nome.

Infatti ci sono parecchie imprese italiane che hanno già registrato non solo nome.it ma anche nome.com, nome.de, nome.fr, nome.uk, eccetera. Mi sembra un'operazione opportuna, anzi necessaria: anche chi non sa, per ora, che cosa farsene fa bene a "proteggere" il proprio nome in vista di eventuali usi futuri - e comunque per impedire ad altri di farlo. Mi sembra probabile che fra le funzioni aziendali impegnate a registrare domain una delle più attive sia l'ufficio legale.

(È strano, tuttavia, rilevare come fra le non molte imprese italiane che hanno un sito web ce ne siano tante che non hanno registrato un domain ma operano con un subdomain ospitato sotto il nome di altri; di solito quello di un provider. Un altro sintomo di quanto poco approfondimento ci sia dietro alla decisione di aprire una presenza in rete).

Ma il problema è un altro. Ora che il GARR-NIC comincia a raccogliere denaro (vedi la nota che segue) speriamo che riesca a snellire la sua burocrazia. Registrare un nome.com costa un po' di più che 50.000 lire; ma da noi c'è un costo in più di "pratiche", documentazione e burocrazia. Ci sono, in Italia, ostacoli assurdi, come il fatto che un'organizzazione non può avere più di un domain. Quante imprese (o enti di qualsiasi specie) hanno più di una marca o divisione operativa con una propria identità? Sembra che con le nuove norme questo ostacolo possa essere, in parte, superato; ma solo per alcune categorie di attività commerciali, con procedure e documentazioni complesse; e ogni "entità giuridica" non può avere più di due domain. Insomma ci sono ancora pesanti e costose pastoie burocratiche.

Che lo usino subito o no, è importante per le imprese italiane poter "proteggere" la loro identità, che in molti casi si manifesta con più di un nome, anche con un domain in rete.

C'è chi pensa che sia meglio registrare un domain.com perché "in America non si fidano degli italiani". Se così fosse, sarebbe gravissimo; non lo dico per "amor di patria" ma perché se l'intera comunità delle imprese non si muove in modo da creare fiducia per il "made in Italy" siamo tutti nei guai. È vero che per fatti organizzativi e di servizio, e per alcune categorie di prodotti, è più efficiente avere un servizio logistico "il loco" nei mercati più importanti (specialmente negli Stati Uniti). Ma questo si può fare benissimo anche con un'identità italiana. E se non si risolvono i problemi di servizio (e, quando è il caso, di "consegna fisica" di prodotti) oltre confine si rischia di perdere proprio quella grande occasione competitiva che la rete offre, specialmente alle "piccole e medie imprese".

Infine... la diminuzione del numero di host in Italia è attribuibile al fatto che gli italiani preferiscono "travestirsi da americani" oppure registrano domain con estensione .com perché è troppo complicato avere un .it? Non credo. Certamente ci sono casi del genere. Ma non penso che siano così numerosi da incidere sul significato statistico del numero di host.


Dal 1o gennaio 1998 (ma le fatture saranno emesse, pare, in agosto) il GARR-NIC chiede 50.000 lire all'anno per la registrazione di un domain italiano. Un po' meno di quanto costa lo stesso servizio negli Stati Uniti. Anche chi l'ha già registrato deve pagare per mantenerne l'uso (non è "alla lettera" così - per i domain già esistenti il pagamento è d'obbligo solo nel caso che si chieda servizio al GARR - ma senza entrare in dettagli burocratici la sostanza, secondo me, è quella).

Questo sarà un freno alla registrazione di domain italiani? Spero di no. Un costo di 50.000 lire all'anno non può preoccupare neanche una piccola impresa. Ma il problema, come abbiamo visto, è un po' più complesso. Inoltre, la quota di 50.000 lire è riservata ai provider; un'impresa che si rivolga direttamente al GARR-NIC deve spendere una cifra molto superiore (secondo i nuovi modelli di contratto, 750.000 lire).

In pratica chi vuole diventare "titolare" di un domain italiano, e non vuole affrontare una maggiore spesa, oltre ai costi e ai fastidi di tutta la trafila burocratica, deve compensare il provider per il lavoro, abbastanza complesso, imposto dalle norme nostrane. Quindi, in un modo o nell'altro, è costretto a spendere molto più di 50.000 lire. Tutto il farraginoso meccanismo sembra formulato in modo da "forzare" le imprese (specialmente le "piccole") a passare attraverso i provider per fare le "pratiche" di registrazione, e così facilitare il lavoro dell'ente di controllo.

Il rischio è che l'accumulo di spese e la complessità delle procedure contribuiscano a scoraggiare la registrazione di domain italiani. Il che può forse giovare agli interessi di qualcuno, ma non è un bene per il tanto invocato, e così spesso tradito, "sistema paese". Insomma... le solite cose un po' contorte "all'italiana".

Dobbiamo augurarci, invece, che l'introduzione di questa "tariffa" sia un incoraggiamento a rendere più efficienti, più disponibili e meno burocratici i servizi del GARR. Fino a pochi anni fa era un piccolo e tranquillo organismo universitario a Pisa, che smaltiva pigramente compiti abbastanza limitati, in un sistema che sembrava riservato quasi esclusivamente al mondo accademico. Ora sembra un po' sgomento davanti alla diffusione dell'internet. I domain italiani sono pochi rispetto alle reti mondiali, ma tre anni fa erano meno di mille e ora sono più di ventimila; e le richieste si ammucchiano, perché anche in Italia si comincia a capire che marchi e identità devono essere "protette".

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4. "Una generazione perduta"
Uno dei migliori istituti italiani di ricerca e analisi delle tendenze, l'Eurisko, ha svolto una ricerca sull'internet che sto cercando di approfondire. Ne derivano alcune interessanti considerazioni, di cui parlerò in uno dei prossimi numeri di questa rubrica.

Intanto, con il gentile consenso dell'autore, vorrei citare un articolo di Gabriele Calvi, presidente dell'Eurisko, pubblicato nel notiziario Social Trends del dicembre 1997.

In Italia sono più di sette milioni gli alunni che frequentano quest'anno le scuole dell'obbligo e secondarie superiori italiane. Soltanto poco più di un quinto di essi appartiene ad una famiglia che possiede almeno un computer. Sono infatti pari al 19,5% del totale famiglie quelle in cui esiste questo strumento, ma parte di esse ha più di un figlio in età scolastica. Diciamo che un milione e mezzo di scolari e studenti si trova nelle condizioni domestiche di imparare ad usarlo, posto che non ostino preclusioni di massima dei genitori o dei fratelli maggiori e che vi sia la disponibilità minima di un tutore nell'apprendimento.

Negli Stati Uniti è il 38,9% delle famiglie che ha almeno un computer in casa. La non ricca dotazione delle famiglie italiane è ancor più limitata per quanto attiene al possesso di un modem (2,5% del totale delle famiglie) e dell'accesso ad Internet (1,1%) cioè delle chiavi che aprono le porte all'informazione senza confini. Queste dotazioni risultano per le famiglie statunitensi rispettivamente del 24,4% e del 16,7%, cioè dieci-quindici volte maggiori delle nostre, in percentuale. In cifra assoluta: 22 milioni di famiglie americane dotate di modem conto le nostre 515 mila; 15 milioni di famiglie collegate con Internet in USA contro le nostre 216 mila.

Uno dei tanti misteri che circondano la rete è come si spieghi la differenza fra il numero di modem e quello dei collegamenti internet (che sono meno della metà); ma su questo ritornerò in un prossimo numero, nel quadro di un'analisi complessiva della ricerca Eurisko. Continuiamo ora con le osservazioni, secondo me molto rilevanti, del Professor Calvi.

Bastano questi pochi dati, di valore solo indicativo, a mettere in luce un fenomeno importante. È stato riconosciuto da molti autorevoli osservatori che la famiglia media, in Italia, ha largamente supplito in questi ultimi decenni alle deficienze dello Stato e delle sue istituzioni, agendo di fatto come banca, assicurazione sulla vita, organizzazione sanitaria e assistenziale, in definitiva come l'unica struttura logistica efficiente nel Paese e come il più potente degli ammortizzatori sociali. Quest'ultimo aspetto è stato rilevato, in particolare, per il carico economico e morale che la famiglia si è assunto con il mantenimento dei figli senza occupazione, protratto in molti casi fino a 30-35 anni di età, e persino con l'acquisto dell'abitazione e del sostegno finanziario alla famiglia dei figli che, malgrado l'emarginazione sociale, hanno voluto sposarsi.

Per quanto attiene all'educazione informatica dobbiamo invece constatare che la famiglia media italiana non ha capito l'importanza degli investimenti che avrebbe potuto fare per il futuro dei suoi figli e che troppo poco si è impegnata nel ruolo che i tempi le assegnavano.

Per questo aspetto la famiglia rivela la sua arretratezza socioculturale .......... rivela tutta la sua miopia delle scelte che hanno privilegiato una temporanea qualità della vita dei figli e le troppe concessioni all'effimero ..........

La famiglia è stata scarsamente aiutata a comprendere, orientarsi, decidere. Non le sono stati offerti scenari convincenti sulla transizione epocale, indotta dalla rivoluzione informatica e dalla mondializzazione dell'economia. Non le sono stati prospettati gli effetti che i grandi fenomeni del nostro tempo avranno sulla vita dei figli, ben maggiori di quelli - pur non trascurabili - che subiranno tutti gli italiani oggi compresi fra le coorti d'età fra i 30 e i 50 anni.

Vorrei aggiungere che non solo è mancata, e continua a mancare, la formazione di una cultura umana dell'informatica e della rete, ma c'è stata e continua a esserci una grave disinformazione (mista di terrorismo sensazionalistico, di elucubrazioni tecnofantastiche e di tentativi di "alfabetizzazione" repressiva, opprimente e tecnocratica) che diffonde ogni sorta di timori, disagi e diffidenze. C'è anche una tendenza, socialmente perniciosa e commercialmente miope, a proporre soluzioni inutilmente complesse e costose, che pongono un ulteriore ostacolo (culturale oltre che economico) alla diffusione dell'informatica e della telematica.

Le responsabilità tradite dalla famiglia sono gravi, ma quelle del mondo politico e delle istituzioni pubbliche sono assai maggiori. Non ci si è resi conto con sufficiente chiarezza del disastro rappresentato dalla perdita di almeno una generazione nella corsa alla nuova alfabetizzazione informatica. ..........................................................

Con il ritmo attuale del pubblico investimento nell'educazione informatica e immaginando ragionevolmente di spendere il denaro sia in attrezzature, sia nella formazione dei docenti, occorrerebbero dai venti ai trent'anni per avere un docente preparato e 10-12 computer per classe. Poiché un docente capace e un discreto numero di computer per classe sarebbero le condizioni minime da assicurare ad una scuola che prepari i giovani alla vita di relazione ed alle occupazioni dei prossimi decenni, è evidente che l'Italia, con il passo attuale, intende perdere un'intera generazione...........................................................

Vorrei aggiungere che non c'è solo un problema di investimento, ma anche di qualità. Il livello della "formazione" e "alfabetizzazione" oggi disponibile è desolante: ostico, disumano, meccanicamente tecnicistico. Una delle radici del problema è la scarsa qualità di gran parte della formazione proposta e diffusa; e se si formano male i formatori... Certo anche una grossolana "alfabetizzazione" sarebbe meglio di nulla, se portasse almeno a una certa confidenza con gli strumenti; ma l'effetto degli investimenti educativi potrebbe essere enormemente migliorato, a parità di spesa, se si impostassero bene le prospettive culturali e i metodi di insegnamento.

Ciò significa condannare, per la sola mancanza di alfabetizzazione informatica, altri milioni di giovani adulti, oltre agli attuali ventenni e trentenni, ad occupazioni marginali e scarsamente qualificate, all'emarginazione ed alla protesta sociale, se non alla droga e alla criminalità...........................................................

Mi dispiace di aver citato solo in parte le osservazioni di Gabriele Calvi (per "esigenze di spazio" che esistono anche online) ma spero di averne conservato il senso; per chi lo vuol leggere tutto, c'è in allegato il testo completo del suo articolo.

Nel numero di dicembre di Social Trends, a complemento di quell'articolo, ci sono alcuni interessanti grafici. Eccone due, che mi sembrano molto eloquenti.

Dotazione strumentale delle famiglie italiane (gennaio 1997)

Numero di strumenti per 100 famiglie - Fonte: Sinottica 1997/1 - Eurisko

L'accesso a Internet in Europa: da casa e dal posto di lavoro

Percentuali - Fonte: Euroquest ottobre-dicembre 1996

legenda Accesso da casa legenda Accesso dal lavoro

Nota: l'attendibilità di questi dati in termini assoluti è sempre discutibile,
ma le proporzioni fra i diversi paesi sono significative.

Nel caso della Francia, specialmente per l'accesso "da casa",
occorre come sempre tener conto del fattore minitel.

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5. Un caso immaginario: una libreria in rete
Questo è un "modello teorico" basato non sulle esperienze (reali ma finora limitate) di chi vende libri in rete in Italia ma su un'ipotesi finora irreale: la nascita di qualcosa che somigli alla versione italiana del notissimo caso americano - Amazon Books. Ci sono circa 70 librerie italiane in rete, ma nessuna che offra un servizio così esteso.

Rivelerò un mio piccolo segreto: sei mesi fa stavo studiando l'ipotesi di organizzare una cosa del genere. Poi ci ho rinunciato, perché ho letto che qualcun altro lo stava facendo, e aveva già accordi con grosse organizzazioni distributive (si trattava di Alice, un sito da tempo dedicato ai libri e quindi con una buona base su cui costruire; ma pare che finora non l'abbiano fatto e non so a che punto sia il loro progetto). La mia convinzione è che, almeno per ora, c'è posto per una sola organizzazione che sappia fare bene questo mestiere; è troppo presto perché ce ne possano essere due, tre o quattro, che andrebbero a contendersi un terreno ancora immaturo.

Spero che le lettrici e i lettori di questa rubrica trovino qualche spunto interessante nelle mie meditazioni, anche se si tratta, per ora, di un "caso immaginario". Le considerazioni che seguono sono basate sull'ipotesi "libro", ma penso che siano valide anche per altri settori.

Prima di tutto: c'è un mercato?

Imprese come Amazon o Barnes & Noble lavorano su un mercato immenso: non solo gli Stati Uniti (che da soli rappresentano più di metà della rete e più di tre quarti del "commercio elettronico" globale) ma la comunità mondiale delle persone che leggono l'inglese: che sono, in totale, molte centinaia di milioni e sono la maggioranza delle persone collegate in rete, dovunque risiedano. I libri in lingua italiana non possono avere un mercato così grande; e inoltre gli italiani in rete sono pochi. Ha senso impegnarsi in un mercato così piccolo? Credo di si, per tre ragioni:

  • Ci sono comunità italiane di dimensioni significative in paesi dove la penetrazione della rete è alta; e dove l'abitudine di acquistare per posta, o comunque "a distanza", è molto più diffusa che da noi. Non parlo delle persone "di origine italiana", come gli italo-americani di terza o quinta generazione, che parlano e leggono in inglese (o in altre lingue: per esempio se argentini in spagnolo). Parlo di italiani che lavorano o studiano all'estero. Sono tanti, e soprattutto sono interessati a restare in contatto con la cultura del loro paese; e non sempre vivono vicino a una libreria che offra una gamma sufficiente di libri italiani.
  • Se gli italiani in rete sono pochi, sono in prevalenza persone con un livello culturale medio-alto. Insomma persone che leggono e comprano libri; e soprattutto possono avere spesso il desiderio di trovare un libro un po' "speciale" che non si trova facilmente in libreria. Sono anche generalmente persone molto occupate, che non hanno sempre il tempo di andare dal libraio, cercare il libro, se non c'è ordinarlo e poi andare a prenderlo o farselo mandare.
  • Nonostante la nostra arretratezza, il numero degli italiani in rete sta crescendo. Un seme ben piantato oggi può diventare una pianta rigogliosa domani; e il primo che occupa il territorio sarà certamente in posizione di vantaggio.

    Certo una libreria italiana online non può pensare di avvicinarsi alle dimensioni dei giganti americani (o comunque di lingua inglese). Ma questo è anche un vantaggio: il mercato è abbastanza grande per consentire un buon successo, ma troppo piccolo per poter essere "invaso" di prepotenza dai grandi operatori internazionali.

    Perché proprio una libreria?

    Spero di non dover sfatare per l'ennesima volta la leggenda che l'elettronica distrugge la carta stampata. Semmai è vero il contrario. Basta vedere quanti libri si pubblicano (e si vendono) sul tema "internet". Compresi molti che sono solo uno spreco di carta e di inchiostro... ma quello è un altro discorso. Per chi volesse leggere le mie opinioni sull'editoria cartacea e "digitale", c'è un breve articolo che ho scritto su questo argomento sei mesi fa.

    Che i libri siano il "prodotto ideale" per la vendita in rete è dimostrato da esempi pratici, come Amazon. Ma anche se non ci fossero queste prove concrete basterebbe un'analisi concettuale per capire perché. Chi compra un libro è interessato al contenuto più che all'aspetto fisico del volume. Sa che cosa vuole; sceglie per autore e argomento. Più che in altri settori, è possibile costruire in rete uno spazio organizzato per fare browsing, che è ancora più efficiente degli scaffali di una grande libreria. Non occorre salire e scendere scale, percorrere scaffali affollati di centinaia di libri... un sito bene organizzato rende l'esplorazione agevole e interessante. Un sito online può offrire informazioni, recensioni, link a titoli di argomento analogo, scelta fra diverse edizioni, eccetera, meglio di quanto possa fare la migliore delle librerie.

    Ci sono i margini? Si. I costi di distribuzione incidono per quasi la metà del prezzo di copertina.

    Una libreria può riuscire dove gli editori falliscono? Credo di si. Finora gli editori che hanno offerto i loro libri online hanno ottenuto risultati molto deludenti. Anche se si organizzassero meglio, non credo che abbiano grandi possibilità; e non credo che possano competere con una buona libreria. Per un motivo molto semplice: esplorare e ordinare andando sul sito del libraio è enormemente più semplice e funzionale che dover andare in giro a cercare ciascun libro sul sito del suo editore.

    I tempi di consegna? Sono un problema; conosciamo i difetti del sistema postale italiano. Ma con un modello intelligente di gestione, e un uso efficiente di corrieri, le soluzioni si trovano.

    Secondo me le chiavi del successo per un'operazione di questo genere sono due:

    La logistica. Ogni anno in Italia si pubblicano (o si ristampano) circa 40.000 libri. Se stimiamo che un'edizione abbia una vita media di tre anni, si tratta di tenere "a magazzino" più di 100.000 titoli, il che è fisicamente impossibile. (Una buona libreria online dovrebbe essere in grado, come fa Amazon, di recuperare anche edizioni "esaurite" e "fuori catalogo", benché ovviamente con tempi di ricerca più lunghi; questo rende la cosa ancora più complessa). Occorre avere un sistema efficiente e veloce per ricevere i libri dagli editori (o dai distributori) e spedirli ai clienti. Ci sono più di 2000 case editrici in lingua italiana; può essere difficile avere un rifornimento tempestivo da tutte (ma quelle che pubblicano più di 50 titoli all'anno sono circa 160, e questo in parte semplifica il problema). Insomma occorre una logistica molto ben organizzata. Non è facile; ma se ci è riuscita Amazon (che offre più di due milioni di titoli) vuol dire che è possibile.

    Il servizio. Non solo una veloce "evasione" degli ordini. Anche un catalogo molto ben strutturato, un'offerta qualificata di recensioni, informazioni, offerta di novità, eccetera. Insomma un sito che faccia venir voglia di "esplorarlo" anche quando non si ha in mente di voler comprare uno specifico libro.

    Chiuderebbero le librerie tradizionali? Certamente no. Perché nessuno si metterebbe a ordinare in rete ciò che trova facilmente in una libreria vicina, o magari dal giornalaio. E perché comunque il piacere di passeggiare fra i libri, guardarli, sceglierli, scoprirli... e di dialogare con un libraio intelligente... è qualcosa che nessun sistema automatico potrà mai sostituire.

    Anzi... credo che una delle ipotesi sia la collaborazione con buone librerie. Perché un libraio non può avere un terminale, per offrire ai suoi clienti quei libri che non ha sugli scaffali?

    Si tratterà sempre e solo di libri italiani? Non è detto. Una delle strategie di questa impresa può essere un sistema di accordi con librerie online di mezzo mondo, per offrire libri in inglese e in tante altre lingue. Sarebbe anche un modo per "creare traffico". Se qualcuno avesse bisogno di un libro in greco o in finlandese, e sapesse che la libreria online italiana è in grado di offrirglielo, andrebbe a visitare il suo sito, e intanto che è lì si guarderebbe intorno...

    Richiederebbe un investimento? Si. Organizzazione, struttura, tecnologia; e persone. Il servizio non può essere totalmente automatizzato. Bisogna essere in grado di dare una risposta personale a chiunque scriva; entro, al massimo, 24 ore. Questo è un costo e un impegno non indifferente.

    Avrebbe un "ritorno sull'investimento" veloce? No. Il vero segreto di questa operazione (come di quasi tutte le attività di marketing online) sta nel graduare l'investimento in modo da non "esporsi" troppo all'inizio e crescere man mano che il mercato risponde. Ma anche così ci vuole denaro per cominciare, e tempo prima di poter recuperare l'investimento. Naturalmente un'iniziativa del genere meriterebbe un appoggio istituzionale; ma se cadesse nelle mani di politicanti e burocrati un finanziamento pubblico potrebbe fare più danno che bene.

    Avrebbe bisogno di un forte investimento in comunicazione? Credo di no. La notizia dell'apertura di un servizio come questo dovrebbe attirare l'attenzione della stampa, della radio e della televisione (e di tutti i grandi apparati culturali, comprese le scuole "di ogni ordine e grado"). Comunque si spargerebbe ampiamente, anche se forse non immediatamente, nella comunità online (non solo in Italia). E, come ho detto molte volte... il motore più importante del marketing in rete è il "passaparola". Lento, forse... ma estremamente efficace. L'importante è che i primi clienti siano soddisfatti del servizio, e che una volta innestato il "circolo virtuoso" si continui a nutrirlo.

    Si tratta solo di libri? No. All'inizio penso che il libro sia l'elemento portante. Ma nel tempo non è difficile aggiungere altri settori, come la musica e (se e quando ci sarà un'offerta qualificata) l'editoria elettronica.

    Infine... se avesse successo, sarebbe felice solo il libraio? No. Sarebbe felice tutta la comunità della rete, e ne trarrebbero vantaggio tutte le imprese o organizzazioni che fanno, o progettano di fare, marketing in rete. Il libro può essere uno dei fondamentali "apripista" non solo per il "commercio elettronico" ma per ogni sorta di altre attività. Molti modem che oggi giacciono spenti potrebbero attivarsi grazie al (purtroppo finora ipotetico) "grande libraio" italiano.


    Ancora un pensiero, su questo argomento. Può sembrare un sogno irrealizzabile, ma non credo che lo sia. Un sistema del genere, se bene affermato, potrebbe favorire uno sviluppo che mi sembra molto interessante. Perché i nostri editori non invadono il mercato internazionale? Perché le traduzioni inglesi, e in altre lingue, di autori italiani sono gestite da editori locali? (O troppo spesso non si fanno neppure). Un giorno, spero, vedremo le tipografie italiane stampare libri in due, tre o venti lingue; o gli editori italiani mandare impianti in mezzo mondo per edizioni stampate "in loco". Le tecnologie ci sono. In questo, come in tante altre cose, mancano solo il coraggio, la visione e la strategia. Naturalmente alcuni esempi ci sono; ma rimangono, purtroppo, casi isolati. Questa è una di tante aree di sviluppo ed esportazione in cui gli italiani potrebbero, se volessero, essere vincenti.

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6. Un caso "piccolo" ma esemplare
Si possono ricavare indicazioni interessanti da un esempio che può sembrare minuscolo anche agli occhi di molte "piccole e medie imprese"? Secondo me, si.

C'è un'impresa che si chiama Grifos e vende "articoli da scrittura". Cioè penne di produzione particolarmente curata, anche dal punto di vista estetico: la gamma dei prezzi è fra le 100.000 lire e i due milioni. In sostanza quegli oggetti che si regalano in occasioni speciali.

Fatturato: 45 milioni. Addetti: uno. Le vendite della Grifos in rete sono quasi tutte all'estero; e per oltre il 90 per cento negli Stati Uniti. Ma ora cominciano ad aprirsi anche altri paesi...

La Grifos è in rete da un anno e mezzo. Ha costruito gradualmente e con pazienza il suo sistema di relazioni. Non ha mai speso una lira in "banner" o altre forme di "pubblicità". Il suo strumento fondamentale è il "passaparola": il miglior venditore è un cliente soddisfatto. Coltiva con attenzione la relazione con i clienti. In generale si scambiano almeno tre messaggi personali con un cliente prima che arrivi un ordine.

Dopo un anno e mezzo di graduale sviluppo ha superato il magico punto del breakeven: coperti tutti gli investimenti, d'ora in poi vanno a crescere i profitti.

Qualcuno potrebbe dire che un fatturato di 45 milioni è piccolo. Ma per una persona, che ha già altre fonti di guadagno, e con tendenza a crescere... "non sono noccioline".

Com'è possibile tutto questo?

La risposta, come sempre, sta nella situazione personale di chi ha messo in moto l'impresa (e continua, almeno finora, a gestirla da solo).

Maurizio Stura è un dipendente dell'impresa che da quarant'anni produce e vende attraverso i canali tradizionali (grossisti) le penne che lui oggi offre in rete. D'accordo con l'impresa, si è impegnato nella ricerca di altri canali. Ha fatto varie esperienze (per esempio annunci sulla stampa in Germania) con risultati del tutto insoddisfacenti (ora, invece, con l'internet...). Ha esperienza e pratica personale della rete. Si occupa di questa attività la sera (uno dei vantaggi della posta elettronica è di essere indipendente dall'orario). Certo, la gestione del sito e della corrispondenza consuma tempo; ma, dice ... "è più divertente che guardare la televisione".

Ha provato a far fare le cose ad altri, ma alla fine ha scoperto che è più efficiente (e meno costoso) fare da sé. Si è dotato delle attrezzature necessarie, compreso uno scanner, ha imparato le tecniche e i metodi...

Ora ha un business che si sta progressivamente allargando. Il suo criterio di base è vendere direttamente al "consumatore finale", ma mantiene flessibili le sue scelte. Ora è in trattativa con un grossista a Hong Kong... Certo: è una piccolissima impresa. Ma essere piccoli è un vantaggio. Non solo si possono seguire da vicino i clienti, ma si ha anche una buona probabilità di essere lasciati in pace. Il territorio è troppo speciale, troppo limitato perché possa essere invaso dalle pesanti e ingombranti ruspe delle grandi organizzazioni.

In Italia? Ha due o tre clienti. Se avesse puntato sul mercato italiano, non avrebbe mai avuto un "decollo". Ma ora che il meccanismo è innestato, e che il sistema è sorretto dai risultato all'esportazione, Grifos si trova in posizione di vantaggio per poter offrire il suo servizio anche in Italia: cioè, senza alcun ulteriore costo o investimento, cogliere le occasioni se e quando ci saranno. In questi genere di attività anche i piccoli numeri contano. E se dall'uno nasce il due e dal due nasce il tre... Quando ho chiesto a Maurizio Stura se potevo pubblicare queste informazioni sul suo caso, mi ha detto "Certo, più se ne parla meglio è; più si diffonde in Italia l'idea che si può comprare e vendere in rete, e si capisce come si fa, meglio sarà per tutti".

Altri operatori, invece, non capiscono questa logica. I casi documentati di marketing in rete sono rari perché, in assoluto, sono poche le esperienze significative; ma anche perché "molti di quei pochi" preferiscono stare zitti, perché non vogliono condividere la loro esperienza con altri. Questa "avarizia di informazioni", questa scarsa disponibilità allo scambio, è una delle barriere culturali che frenano lo sviluppo del "marketing elettronico".

Questo caso è unico e inimitabile? Direi proprio di no. Ci sono alcune costanti che, secondo me, sono applicabili a ogni sorta di altri settori merceologici e a diverse strutture d'impresa. Ecco un semplice elenco dei fattori di successo:

  • Ottima e approfondita conoscenza del prodotto e del mercato.
  • Costi bassi, specialmente all'inizio.
  • Pazienza: ci vuole tempo per costruire relazioni, stabilire rapporti di fiducia.
  • Cominciare da dove il mercato è più disponibile all'acquisto "per corrispondenza" (in questo caso, come probabilmente in molti altri, dagli Stati Uniti).
  • Avere un'identità precisa, riconoscibile e diversa (ci sono infinite offerte di penne "pregiate" in tutto il mondo, ma quelle che offre Grifos hanno un gusto diverso, insolito, "artigianale"). Occupare un "segmento" in cui si è più bravi, qualificati e competenti degli altri
  • Spirito di servizio: stare sempre vicino al cliente.
  • Costanza: non fermarsi alle prime esperienze, continuamente ascoltare, provare, modificare.
  • Flessibilità: strategie chiare ma capacità di evolverle secondo le occasioni che il mercato offre.
  • Un'inesauribile curiosità e voglia di imparare.
  • Uso intelligente delle proprie risorse (dice Maurizio Stura: "Il mio inglese non è perfetto, ma ci scherzo su e i miei clienti lo accettano con simpatia").
  • E infine le due qualità indispensabili: fantasia e ostinazione.

    Ci sono migliaia di imprese italiane che hanno queste capacità. Speriamo di vederne molte conquistare il mondo per mezzo della rete.




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