Marche, internet e “carosello”

Intervista a Giancarlo Livraghi
su Brandforum – 26 ottobre 2002


 
I lettori abituali di questo sito, o dei miei libri,
possono trovare (almeno in parte)
“ripetitive” le osservazioni
contenute in questa intervista.
Ma poiché si pongono queste domande,
anche in ambiente universitario,
forse è utile pubblicare le risposte.
 



1) Quali sono, secondo la sua esperienza, le trappole in cui più facilmente cadono i brand che si affacciano al mondo dell’internet?

L’errore più diffuso è una mancanza di strategia. Si cerca una “presenza” nell’internet senza chiedersi perché. Il risultato è un esasperante (e inutilmente ingombrante) affollamento di presenze cosmetiche, prive di contenuto, di utilità e di servizio.

Un altro errore molto diffuso è pensare che “prima di tutto si debba avere un sito” per poi cercare di capire a che cosa serve. È vero il contrario. Occorre chiedersi se un’impresa ha motivo di essere online e quale servizio pensa di offrire. Solo da una chiarezza di obiettivi e da un progetto concreto può nascere un’attività online di reale utilità (che non sempre, e non necessariamente, si traduce in un “sito web”). Piuttosto che andare in rete “a caso” è meglio non esserci – o aspettare di aver capito perché e come è utile andarci.

Un terzo errore è cercare troppo presto di avere un “grande traffico”. È molto meglio partire su basi piccole, fare esperienza mentre si è in grado di controllare un numero limitato (e perciò gestibile) di relazioni, per poi crescere gradualmente in base all’esperienza e alla continua sperimentazione. I “grandi numeri” contano poco online. Poche relazioni ben gestite sono molto più utili di tanti contatti generici.

Sul processo di sviluppo dell’attività online dell’impresa vedi i concetti spiegati in un libro come La coltivazione dell’internet. Per una breve sintesi vedi lo schema che si trova alla fine del primo capitolo di Le imprese e l’internet.


2) E quali sono le logiche di utilizzo (un uso “integrato”, con l’internet che funziona da “moltiplicatore di senso” di altri strumenti comunicativi, oppure un uso alternativo agli altri strumenti)?

Non ci può essere una “regola” generale. Ogni impresa, ogni caso specifico ha una logica diversa. Se escludiamo il caso (raro) di imprese che esistono e operano solo online, l’internet non è uno strumento isolato. È un elemento del sistema di relazione dell’impresa. Che spesso è “integrativo” di altre attività, talvolta può essere “sostitutivo” di qualcuna. Ma non può mai sostituire completamente i contatti diretti e personali.

In generale – l’esperienza ci insegna che i nuovo sistemi non “sostituiscono” quelli precedenti. Non siamo diventati afasici quando, cinque o sei mila anni fa, abbiamo inventato la scrittura. Cinque secoli di uso della stampa non hanno sostituito la corrispondenza privata né i “manoscritti” (che si facciano con una penna o con una matita, con una macchina dattilografica o con un word processor, non ne modifica il ruolo e la funzione). La radio non ha sostituito la stampa, il cinema non ha eliminato il teatro, la televisione non ha cancellato né la stampa, né la radio, né il cinema. Eccetera... L’internet ci ha aperto molte nuove possibilità, arricchisce il nostro repertorio, ma non elimina gli strumenti che già avevamo.

In ogni caso, l’internet non è un mondo a parte. Non è un “mezzo” con caratteristiche omogenee, né una comunità con una cultura separata. È un’insieme di tante, diverse forme di comunicazione, in cui ognuno può “farsi una rete su misura” (Vedi il primo capitolo di L’umanità dell’internet).


3) E se invece guardiamo il mondo internet con gli occhi del consumatore italiano odierno, quali sono gli elementi di maggior appealing dei siti promossi dai brand (siano essi totalmente virtuali come Amazon o più legati all’esperienza quotidiana come Coca-Cola)?

Ciò che conta è soprattutto il servizio. Se un’attività online non offre un servizio utile alle persone (o imprese) cui si rivolge la sua esistenza è difficilmente giustificabile. Naturalmente anche l’informazione è un servizio, ma organizzare e gestire efficacemente le informazioni è un compito difficile e impegnativo.

Un’impresa come Amazon non è “virtuale”. Offre a persone in carne e ossa cose “tangibili” come i libri. Non potrebbe esistere senza un forte impegno nella logistica. Il suo successo è dovuto a una costante qualità di servizio. (Vedi a questo proposito un’interessante intervista a Jeff Bezos del febbraio 2000).

Non vorrei entrare nel caso specifico di Coca-Cola perché richiederebbe un approfondimento particolare. Ma, in generale, non è detto che un’impresa del “largo consumo” sia obbligata a usare l’internet – né che debba farlo rivolgendosi al “consumatore finale”. Spesso imprese di quel genere usano la rete per attività relativamente marginali o tattiche (come promozioni) o per fornire a chi le vuole informazioni sui loro prodotti (pensiamo per esempio a un’impresa alimentare che offre ricette o approfondimenti nutrizionali).

In molti casi le risorse di rete più importanti per le imprese non sono quelle rivolte al “consumatore”, ma attività che non sono “visibili” a chi non ne è partecipe: come gestione dei sistemi distributivi, degli acquisti, della logistica, della progettazione industriale, eccetera.


4) Lei afferma che Carosello è una “cattiva ricetta italiana”, eppure il format caroselliano continua a spopolare sui nostri schermi. Un esempio tra tutti il neo-resuscitato Calimero. Come mai secondo lei non si riesce a trovare una cura a questa sindrome?

La bizzarra storia di “carosello” è raccontata in un mio libro e si trova anche online. In quel testo è spiegato anche perché si tratta di una “sindrome”, cioè di un fenomeno che continua dopo la sparizione di quella particolare rubrica televisiva.

Per quanto riguarda Calimero... non è detto che la “resurrezione” del personaggio sia una “nostalgia caroselliana”. Potrebbe essere semplicemente l’uso di una “icona”, di un personaggio-simbolo che incarna l’identità e la tradizione della marca. Così come, anche in assenza di ogni fenomeno del genere “carosello”, molte marche sono accompagnate da segni o simboli che aiutano a identificarle. In questo senso non è rilevante se un certo personaggio sia stato, all’origine, una storia di “carosello” o un disegno sulla scatola che contiene il prodotto. I simboli associati alle marche possono nascere da un progetto preciso o da un fatto casuale. Per esempio il famoso “uomo di gomma” della Michelin fu concepito nel 1897 per un manifesto celebrativo che citava Orazio (nunc est bibendum) e solo più tardi divenne l’incarnazione della marca.

La continuità della “sindrome” non deriva solo da qualche italica nostalgia, ma da un problema più profondo che affligge gran parte della pubblicità e della comunicazione d’impresa. La mancanza di contenuti e di idee. Il fenomeno è aggravato dall’imitazione. Vediamo troppo spesso le stesse storie, le stesse divagazioni, gli stessi gratuiti orpelli, gli stessi stili espressivi ripetuti non solo da prodotti concorrenti che in quel modo si confondono fra loro, ma anche da prodotti o servizi di natura diversa. Si pensa a “intrattenere” anziché valorizzare le proprietà e il carattere di un prodotto o di una marca. Il risultato è che la comunicazione diventa fine a se stessa e i valori di marca si dileguano.

Un altro aspetto bizzarro della situazione è quello dei cosiddetti testimonial. A parte il fatto che il termine è sbagliato (non si tratta di “testimonianze” ma dell’uso di persone note per attirare l’attenzione) sembra diffusa la stramba convinzione che ogni comunicazione pubblicitaria (o comunque d’impresa) debba per forza basarsi sulla presenza di un personaggio televisivo, o sportivo, o comunque famoso. Il che può forse talvolta essere utile (se c’è una reale attinenza) ma nella maggior parte dei casi è uno spreco di denaro e di risorse – e una fragile maschera per nascondere una sostanziale mancanza di contenuti e di idee.

(Naturalmente “prendere in prestito” un personaggio famoso è una cosa completamente diversa dal “creare” un personaggio o un simbolo che è una “incarnazione” della marca e aiuta a definirne l’identità).

Sarebbe complesso, nello spazio di questa breve intervista, risalire alle radici della “sindrome” – o in generale della tanta pubblicità gonfia di pretesti e priva di contenuti. Ma il fatto è che si tratta di una diffusa ed evidente crisi di identità delle imprese – e di una conseguente decadenza nel modo di concepire e realizzare la comunicazione. L’avevo spiegato in un articolo del 1995 Mala tempora currunt – e da allora la situazione continua a peggiorare.

Se vogliamo cogliere un aspetto positivo in questo preoccupante andazzo... sta nel fatto che quando tanti disperdono le loro risorse aumenta il vantaggio per chi comunica in modo più significativo. A condizione, naturalmente, che sia in grado di offrire reale qualità e di spiegarne efficacemente il valore.




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