labirinto
Il filo di Arianna


marzo 2004

Giancarlo Livraghi     gian@gandalf.it



Il paradosso dell’abbondanza

Ormai da parecchio tempo la percezione del benessere, il sogno di una crescita senza limiti, il mito di un’abbondanza senza confini, sono profondamente in crisi. Il disagio non viene solo dalla percezione, confusa quanto preoccupante, di problemi economici, che non affliggono solo i “grandi sistemi”, ma incidono sulla vita quotidiana delle persone e delle famiglie. C’è anche un disorientamento, una crisi dei valori, che dura da parecchi anni, ma comincia a essere diffusamente percepita.

Il 37° Rapporto Annuale del Censis (dicembre 2003) approfondisce quella situazione di disagio che si era già rilevata negli anni precedenti. Ma coglie anche i sintomi di nuovi sviluppi che potrebbero portare a un cambiamento.

L’analisi rivela un rifiuto, inespresso ma nitido, di molte mitologie dominanti. «Il “disormeggio” dalla coazione a parlare solo di sviluppo e declino non ha portato a un processo regressivo, anzi ha in qualche modo “incubato” una ricca logica di impegni e comportamenti individuali e collettivi».

Insomma qualcosa sta cambiando. In una cultura sempre più “disancorata” dai valori che appaiono, ma non sono, prevalenti le persone stanno prendendo coscienza della loro capacità di essere e di agire. (Alcune osservazioni a questo proposito si trovano in un articolo che avevo pubblicato nel settembre 2002 L’arca di Noè – e in due dell’ottobre-novembre 2003: Facciamo un passo indietro e Le ambiguità dell’innovazione.

Il rifiuto della “abbondanza” come valore assoluto e fine a se stesso è un fenomeno che non deriva solo dall’attuale percezione di rincaro dei prezzi, ristrettezza economica, incertezza e disagio. È una tendenza più profonda, che non esiste solo in Italia. Si manifesta, in un modo o nell’altro, in tutte le economie più “ricche”.

Nella fase iniziale di uscita dalla povertà, di espansione dei consumi, prevaleva il desiderio del more and more, più e più, l’abbondanza come valore e piacere in sé. Si è poi passati a una situazione più “matura”, in cui si bada alla qualità oltre che alla quantità (more and better, più e meglio).

Ora stiamo entrando in una terza fase, in qui la quantità comincia a essere percepita come negativa. Il valore è less and better, meno e meglio. In alcuni settori si comincia a capire che spesso less is better, meno è meglio. Non si tratta solo di quei casi, come l’alimentazione, in cui è preferibile limitare la quantità (senza sacrificare il gusto). Ci sono altre situazioni (in particolare nelle tecnologie) dove le soluzioni semplici sono più funzionali (e più affidabili) di quelle inutilmente complesse. (Vedi Meno e meglio e Meno è meglio).

Non si tratta di “pauperismo”, di rinuncia o di una visione “ascetica” della vita, ma di una ridefinizione del concetto di ricchezza e di benessere.

Sta emergendo, rileva il Censis, «la maturazione a livello individuale verso un’etica della responsabilità non più solo autocentrata (la responsabilità verso se stessi) ma sempre più relazionale, cioè un’etica della responsabilità verso gli altri: verso i familiari, i collaboratori, i componenti della comunità».

Questo stato di coscienza accentua «l’autonomia nei confronti anche dei temi che più seriamente attraversano il dibattito sociopolitico, i temi cioè del potenziale declino, della potenziale ripresa, del potenziale rilancio dello sviluppo ..... quasi la cultura collettiva avvertisse un bisogno intimo di non farsi imprigionare dalla depressione del potenziale declino, ma ancor più dal radicale bisogno di non restare intrappolata nella coazione a ragionar sempre del binomio alternativo sviluppo-declino.

L’autonomia della società arriva, in altre parole, a un lucido “disormeggio” dai vincoli di unitario sviluppo, di unitaria volontà e intenzionalità, di unitaria soggettualità collettiva, di unitario prometeico controllo del proprio essere e del proprio destino».

In conclusione «le grandi pur se silenziose novità di questo periodo portano a una società che vive un suo “altrimenti” più che una società destinata a inevitabile declino».

In altre parole, al di là e al di fuori delle “grandi vicende” di cui si parla (e spesso si straparla) nel sistema informativo dominante, qualcosa di nuovo, e di potenzialmente forte, sta maturando nella coscienza delle persone. Nasce da quelle che gli americani chiamano grass roots, le radici di uno sviluppo che non viene “dall’alto” ma dalle basi dell’umanità e dalla profondità delle coscienze.

Non mancano, nell’analisi del Censis, osservazioni di motivata durezza sulla sempre più profonda sconnessione fra la realtà della vita e il sistema “massificato” dell’informazione.

«Non c’è dubbio che, in questo momento, la società italiana abbia bisogno e diritto di dare voce a quel che sta sperimentando nel suo interno, visto che la sua dinamica profonda è continuamente rimossa e distorta da quel mix di operatori politici e della comunicazione che ci siamo ormai adattati a considerare classe dirigente. Il loro “dominio” porta infatti a rimuovere la dinamica sociale ingabbiandola nell’attualità, nell’affanno a breve, nella dialettica falsamente radicale fra parti contrapposte, nel pettegolezzo di retroscena o di corte, nella grossolanità del render tutto spettacolare, nella sostanziale tentazione ad una autoreferenzialità che sempre sottovaluta la realtà esterna».

«Una realtà sociale quindi rimossa, distorta, non interpretata, neppure descritta in termini di rappresentazione collettiva. E non può allora sorprendere che una tale realtà lentamente finisca per mettere in moto una progressiva autonomia nei confronti dei caratteri autoreferenziali e spettacolari del dibattito sociopolitico, ormai sopportati senza neppure voglia di reagire (in fondo recite e retroscena non dispiacciono più che tanto se se ne sconta in anticipo la futilità)».

Perciò «In questa cultura che si evolve silenziosamente, e con poco apparire, verso un nuovo sistema di valori, si approfondisce il solco fra la realtà della vita, individuale e collettiva, e la rappresentazione che se ne dà nel teatro sempre più isolato e “autoreferenziale” dei sistemi di potere e dei grandi apparati dell’informazione».

La crisi dei mass media, con le loro sempre più gigantesche concentrazioni, l’intrico dei giochi di interessi e di potere, l’intrinseca e crescente lontananza dalla realtà e dai fermenti significativi della cultura umana, porta a quel declino che dieci anni fa Michael Crichton, inspirandosi al tema del suo libro più noto, definì “mediasauri”. Ma non è ancora chiaro, nella crescente molteplicità degli strumenti di informazione e comunicazione, come possano evolversi in modo meno “giurassico” – o che cosa li possa sostituire.

La quantità di “informazione” disponibile continuamente crescente. Ci avviciniamo a quel paradosso dell’infinito che Jorge Luis Borges definì “biblioteca di Babele”. Continuano a crescere anche le risorse di comunicazione personale. Il fenomeno della “congestione informativa” è noto e studiato da almeno un secolo, ma ha assunto dimensioni che superano le previsioni più azzardate. E intanto siamo caduti in un inatteso fenomeno di “congestione comunicativa”.

All’abbondanza di strumenti si unisce una sostanziale povertà di contenuti. C’è una crescente concentrazione. La “gerarchia” delle informazioni è sempre più centralizzata. In parte per una precisa volontà di predominio, ma largamente anche per la passività del sistema, che tende sempre più a essere ripetitivo e omogeneo. Notizie, interpretazioni, prospettive, commenti, opinioni tendono ad aggregarsi intorno a un unico modello – di linguaggio, di cultura e di contenuti.

Si pone per tutti (i “meno abbienti” come i “più abbienti” di informazione) un duplice problema. Da un lato, come destreggiarsi nella sovrabbondanza di materiale disponibile. Dall’altro, come andare oltre la superficie per cogliere informazioni, notizie e scambi personali meno generici e più significativi.

In termini storici e di evoluzione culturale (con tempi che si misurano in decenni o generazioni, non in mesi o anni) questo è un problema nuovo, che non abbiamo ancora imparato a capire e gestire. E tende a complicarsi continuamente perché l’evoluzione dei sistemi e degli strumenti è più veloce della capacità umana di governarli.

Cinquant’anni fa, quando stava per nascere la televisione, l’Italia non era solo un paese povero dal punto di vista economico, ma anche povero di informazione e di comunicazione. C’era un livello elevato di analfabetismo. Libri, giornali e telefono erano il privilegio di pochi. Neppure la radio era disponibile a tutti. La situazione è profondamente cambiata, anche se rimangono quelle diversità che i rapporti del Censis aiutano a definire e approfondire.

Il mondo dei sistemi di comunicazione e di informazione è un magma turbolento in cui ci sono state, e potranno ancora esserci, sviluppi inaspettati – e i cui i ruoli si mescolano con conseguenze in gran parte imprevedibili. Per capire l’evoluzione in corso occorre, come fanno gli studi del Censis, porre al centro dell’analisi i veri protagonisti: le persone, le famiglie, le comunità umane.

Allargare la gamma delle risorse è utile, se non necessario. Ma la “congestione informativa” costringe a scegliere. Non solo quali strumenti usare, ma anche come. Quasi senza accorgersene, persone e famiglie di fatto stabiliscono una scala di priorità. Spesso in modo un po’ troppo passivo – determinato dall’abitudine e dall’imitazione.

La crescente molteplicità di strumenti non crea solo una congestione – con conseguenti “crisi di rigetto”, già visibili in alcune situazioni. Pone anche a ciascuno la responsabilità delle scelte. A ognuno per il proprio “consumo” personale. E a chi ha la responsabilità di altri (genitori, educatori, “fornitori” di informazione) per il modo in cui orientano il comportamento dei loro “discepoli”.

L’Ottocento, secondo gli illuministi, doveva essere il “secolo dei lumi”, il dominio della ragione. Fu il secolo della rivoluzione industriale, del dissanguamento dell’Europa in guerre sempre più di massa, dei conflitti sociali e delle indipendenze nazionali, fra cui quella italiana. Il Novecento doveva essere, in quella visione che si celebrava in teatro con il “Ballo Excelsior”, il secolo del progresso, del riscatto dall’oppressione, della sconfitta dell’oscurantismo. Come sappiamo, le cose non sono andate proprio in quel modo.

Saranno gli storici del futuro a dirci se il ventunesimo secolo vedrà davvero fiorire la società dell’informazione, della comunicazione, dell’intelligenza liberata, della ricchezza di diversità e delle libertà individuali. Ma a determinare quel percorso non saranno le risorse tecniche. Né la carta e l’inchiostro, né i processori elettronici, né il networking, né i telefoni o le comunicazioni satellitari – né qualche altra tecnologia che potrà avere, in modo scarsamente prevedibile, una larga diffusione. Tutto dipenderà dai comportamenti e dallo “stato di coscienza” delle persone.

Questo è l’impegno che dobbiamo affrontare, con strumenti che non avevamo mai avuto prima, ma (almeno finora) senza un’adeguata capacità di usarli. Le “meraviglie del possibile” sono affascinanti, ma i risultati dipendono, oggi più che mai, dalle risorse umane.




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