labirinto
Il filo di Arianna


Netforum – ottobre 2003

Giancarlo Livraghi     gian@gandalf.it



Le ambiguità dell’innovazione
 
(Siamo ritornati al ballo Excelsior?)



Sembra di essere tornati (con meno allegria e ottimismo) ai tempi del mitico ballo Excelsior. Come se non avessimo imparato la lezione da secoli di esperienza. Si parla di stanziamenti, miliardi, risorse, formazione, eccetera, per investire nell’innovazione. Ma è assai poco chiaro di quale innovazione si stia parlando.

Nel 1836 Giacomo Leopardi (La ginestra) dubitava con malinconico sarcasmo delle “magnifiche sorti e progressive” – e del “secol superbo e sciocco” di cui si era visto solo l’inizio. Dal punto di vista opposto, nel 1863, Giosuè Carducci nel suo Inno a Satana cantava le lodi di un progresso che a molti faceva paura. La “forza vindice de la ragione” s’incarnava in una delle più stupefacenti e fragorose tecnologie del tempo: la ferrovia. Il trionfante potere dell’innovazione “passa benefico di loco in loco su l’infrenabile carro del foco”.

Nel secolo precedente gli illuministi avevano dato un contributo importante, e ancora oggi prezioso, all’evoluzione del pensiero e della cultura. Ma non ne seguì, come allora si immaginava, “l’era dei lumi” – né il regno splendente della “Dea Ragione”.

Il “ballo Excelsior” andò in scena per la prima volta alla Scala di Milano nel 1881. Ebbe un’infinità di repliche e di tournée, in Italia, in Europa e anche in America. Un’edizione cinematografica nel 1913 non ebbe fortuna, ma nei teatri il suo successo continuò per più di trent’anni – fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Ce ne fu qualche sommaria citazione in film degli anni cinquanta – e una breve, nostalgica riedizione teatrale nel 1967. Si rivede ancora, talvolta, nel teatro delle marionette. Ma, a parte qualche ironica rievocazione, quel genere di messa in scena è scomparso novant’anni fa – e sembra estinta la cultura che rappresentava.

Era uno spettacolo “colossale”, con una scenografia rutilante, faraonica e imponente, quattrocentocinquanta persone in scena. Narrava con enfasi entusiastica i prodigi della modernità ottocentesca, come la luce elettrica, il piroscafo, il telegrafo, il canale di Suez, il tunnel del Moncenisio. Celebrava la gloria della splendente Luce che liberava il povero Schiavo dalle tenebre del malvagio Oscurantismo.

Non fu solo la guerra mondiale – e la successione di tragedie che la seguì – a rendere più diffusa nel ventesimo secolo quella percezione critica che c’era sempre stata, ma era sembrata un’anomalia passatista o pessimista nella generale glorificazione del “progresso” come soluzione di tutti i problemi e portatore di insperata e universale felicità.

Ma ora... passata e dimenticata l’epoca delle “magnifiche sorti” e dei troppo facili entusiasmi... siamo ormai “abituati” alla modernità, allo sviluppo tecnologico, alle risorse nate dall’era industriale. Le “meraviglie” non ci stupiscono più. E qualche volta siamo, giustamente, perplessi sul reale valore dell’innovazione.

Con questo siamo arrivati a una chiara consapevolezza, a una nitida percezione di ciò che è progresso, novità utile, e ciò che invece ci fa regredire o ci porta in percorsi sbagliati, vicoli ciechi o pericolosi precipizi?

Basta guardarsi un po’ intorno per capire che non è così. Non si tratta solo dei “grandi problemi” di cui tanto si discute (senza trovare alcuna soluzione che non sia un inadeguato palliativo). In ogni aspetto della vita e del lavoro si moltiplicano le “innovazioni” sulla cui utilità è ragionevole avere molti e crescenti dubbi.

Ho già parlato varie volte, in libri e articoli, dei percorsi spesso sbagliati in cui ci porta una presunta “innovazione” tecnica.

Vedi per esempio:
Il problema delle tecnologie
I malanni delle tecnologie
La congestione tecnologica
Il paradosso della tecnologia
La leggenda di Moore
La “legge di Google”

Ma credo che sia venuto il momento di fare un altro passo verso un più radicale approfondimento del problema.

L’innovazione non è sempre indispensabile. Ci sono cose che vanno bene come sono (o erano meglio prima che qualche malpensato cambiamento le peggiorasse). È sbagliato e pericoloso “correre in avanti” prima di aver verificato se quello che c’è funziona come dovrebbe.

Un esempio fra tanti... le tecniche della medicina hanno fatto progressi straordinari (anche se molte patologie, gravi o anche soltanto fastidiose, rimangono difficilmente curabili). Ma da decenni sappiamo che la perdita del “medico di famiglia”, del punto di riferimento che tratti i pazienti come persone, ha compromesso gravemente il sistema. Il problema è noto. La soluzione manca. Una fondamentale innovazione, in questo caso, sarebbe la riscoperta in termini nuovi di una risorsa fondamentale che abbiamo perduto in una mal concepita “corsa verso l’innovazione”. Proviamo a pensarci... in quanti altri casi, “grandi” o “piccoli”, sta succedendo qualcosa di simile?

Un altro esempio, fra le migliaia possibili, riguarda un fattto di scarsa rilevanza – ma “nel suo piccolo” significativo per le lezioni che se ne possono imparare. (Scelgo apposta qualcosa che non riguarda le tecnologie dell’informazione e della comunicazione – perché di quelle si è già parlato molte volte in questa rubrica e in altre). Era stato accolta con acritica esultanza la notizia dei nuovi monopattini o carrelli “supertecnologici” che avrebbero (si diceva) risolto il problema del traffico urbano. Del segway si sono vendute poche migliaia di esemplari. Poi è stato ritirato del commercio perché inaffidabile e pericoloso.

Quante altre “innovazioni” come quella abbiamo visto nascere e morire?  Quante, purtroppo, non si sono estinte e ci stanno, ogni giorno, complicando la vita?  Quante ancora ne arriveranno con risultati non meno deludenti?

In un’infinità di situazioni l’eccesso di specializzazione compromette l’efficienza dei sistemi. Lo sviluppo delle tecnologie è spesso così “spinto” da portare ad applicazioni pratiche prima che se ne sia verificata la funzionalità e l’utilità. Di questo passo, rischiamo di precipitare in un marasma di funzioni ingestibili – e di cadere in una “dipendenza dalle tecnologie” che ci impedisce di vivere, sopravvivere e pensare senza l’ambiguo aiuto di qualche inaffidabile meccanismo.

È chiaro che l’esplorazione scientifica, la “ricerca pura”, deve essere sostenuta e portata avanti anche senza alcun riferimento alle utilità – come fondamentale e indispensabile strumento di conoscenza e di progresso. Ma il quadro cambia profondamente quando dall’affascinante percorso del pensiero e della sperimentazione si passa alle esigenze concrete delle applicazioni pratiche.

Se non vogliamo che “investire nell’innovazione” sia un aggregato di parole vuote, o una “corsa in avanti” senza bussola, dobbiamo dedicare molta attenzione a capire quali innovazioni devono essere incoraggiate, quali risorse applicative sono più adatte in ogni specifica situazione, quali fattori di metodo, di cultura, di valori umani sono indispensabili perché l’innovazione faccia il cammino giusto.

Ancora oggi il progresso deve combattere contro presenze, tutt’altro che estinte, di “oscurantismo”, di “luddismo”, di “forza dell’abitudine” e di rifiuto dell’evoluzione. Ma deve guardarsi anche, con molta attenzione, da “innovazioni” scriteriate senza adeguati criteri di verifica. E dalla genericità di un pensiero “superbo e stolto” che glorifica il “nuovo” in quanto tale – senza chiedersi se sia nuovo davvero (spesso si tratta di vecchio malamente riciclato) e se sia utile a tutti noi o solo a qualcuno che sta cercando di rifilarci, con luminarie e lustrini alla maniera del ballo Excelsior, qualche non entusiasmante patacca.




C’è un nesso di analogia fra questo articolo e le osservazioni,
diverse ma “complementari”, in Facciamo un passo indietro.



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