Accademia di Fitomedicina e Scienze Naturali - Associazione No Profit Fondata nel 1996

 

Accademia di Fitomedicina e Scienze Naturali

 

Sin dalle origini gli autori hanno menzionato, nei loro scritti, le piante.

Provoca particolare effetto ritrovare il biancospino, noto per le sue prorietà ipotensive o di blando cardiotonico, citato nella lirica provenzale (e siamo ai primi riferimenti alle piante in letteratura) da Guglielmo d'Aquitania che scriveva:

Del nostro amore accadde

come del ramo di biancospino

che sta sulla pianta tremando

la notte alla pioggia e al gelo

fino al domani, che il sole effonde

infra le foglie verdi sulle fronde...

Nell'ambito della poesia didattica del nord, ricordiamo Bonvensin de la Riva che parla della rosa e della viola, attribuendo loro un significato simbolico che soddisfaceva i suoi intenti didattici e moralistici. La rosa e la viola, infatti, nella loro semplice materialità indicano, per il Bonvensin, vizi e virtù; la rosa rappresenta la superbia e l'avarizia, la viola le virtù opposte: umiltà e carità cristiana.

Secondo la studiosa Maria Corti (Il genere "disputatio", la transcodificazione in dolore di Bonvensin de la Riva, in "Il viaggio testuale", EI, TO, 1978 - pp. 259-288) la rosa e la viola indicherebbero i tratti di due classi sociali, aristocrazia e borghesia, storicamente portatrici di quelle qualità. La rosa che si leva alta da terra indica alta condizione sociale; la viola che cresce a terra, nelle rive e nei fossati, indica un'umile condizione sociale, si allude inoltre alla laboriosa operosità borghese.

Guido Guinizzelli, nel sonetto "Io voglio del ver la mia donna laudare.", vuol paragonare la donna al giglio e alla rosa che simboleggiano una vasta gamma di sentimenti, tra cui l'amore e la purezza. Ma anche Guido Cavalcanti, in "Fresca rosa novella.", fissa l'immagine della donna angelicata così come propone Guinizzelli; è descritta però la prospettiva di un paesaggio primaverile, così caro al gusto dei provenzali. Il Cavalcanti identifica la donna con la rosa, segue quindi l'identificazione della primavera: preludio di manifestazione serena.

Anche nella poesia giullaresca popolare troviamo alcuni riferimenti alle piante; è il caso di Cielo d'Alcamo che, nel suo componimento "Rosa fresca aulentissima", paragona la donna amata a una rosa; mentre per il giullare Matazone di Caligano, il cavaliere ha tanta dignità e tanti diritti perché è nato dalle nozze di una rosa e di un giglio in un bel giardino.

L'autore anonimo del "Novellino", invece, riporta un brano (riduzione del mito di Narciso) in cui un bellissimo giovane, specchiatosi a una fonte, s'innamorò della sua immagine riflessa nell'acqua e, volendo abbracciarla, cadde in acqua annegando; il dio dell'amore Cupido ne fece un nobilissimo mandorlo, molto verde "[...] e fu ed è il primo albero che prima fa frutto e rinnovella amore".

Lorenzo il Magnifico tesse il suo elogio alla rosa:

Eranvi rose candide e vermiglie

alcuna a foglia a foglia al sol si spiega

stretta prima, poi par s'apra e scompiglie.

Fiore strettamente associato all'espressione dell'amore e dei sentimenti, la rosa, componente essenziale nella raffigurazione dei paesaggi primaverili, la sua varia e mutevole simbologia dipende dalle sue stesse caratteristiche di bellezza e fragilità. Della rosa, Lorenzo il Magnifico ci offre una raffigurazione mutevole e dinamica, con le diverse fasi del suo fiorire e appassire. L'immagine della rosa corrisponde a quella del personaggio, rispecchiandone la contraddittoria situazione.

Il noto poeta del Quattrocento, Angelo Poliziano, in una sua ballata, così scrive:

Eran d'intorno violette e gigli

fra l'erba verde, e vaghi fior novelli

azzurri, gialli, candidi e vermigli ...

Vidi le rose, non pur d'un colore

corsi allor per empier tutto il grembo

perch'era sì soave il loro odore ...

Posi mente: quelle rose allora

mai vi potrei dire quant'eran belle ...

Quando la rosa ogni sua foglia spande

quando è più bella e quanto è più gradita

allora è buona a metterla in ghirlande

prima che sua bellezza sia fuggita.

Lo sfondo della ballata è costituito da una natura primaverile, rappresentata con colori vivi, intensi che rimandano alle immagini della pittura del tempo. Il motivo della natura che si risveglia è caro alla cultura del Quattrocento. Questo sogno letterario della natura, la rosa, il giardino visto come locus amoenus cioè luogo aperto, ampio, fresco ha lontane origini, nella cultura cortese e nei romanzi cavallereschi. La civiltà cortigiana del Quattrocento raccoglie tutta questa eredità. L'ambiente primaverile acquista valore metaforico, la primavera è ricca di forme; al vagheggiamento idillico si associa il tema dell'edonismo, caro alla filosofia neoplatonica del tempo.

Ma il Poliziano descrive anche il Regno di Venere ne "Stanze per la giostra":

Veste la campagna

di rose gigli violette e fiori

l'erba di sue bellezze ha meraviglia

bianca, cilestra, pallida e vermiglia.

Trema la mammoletta verginella ...

Ardisce aprir il seno al sol la rosa.

L'alba nutrica d'amoroso nembo

gialle sanguigne candide viole ...

Adon rinfresca a Venere il suo pianto

tre lingue mostra Croco e ride Acanto.

Cresce l'abeto schietto e senza nocchi

e il laur che tano fa bramar sue fronde

bagna Cipresso ancor pel cervio gli occhi ...

Ma l'albero che già tanto a Ercole piacque (pioppo)

col platan si trastulla intorno all'acque.

Il chiuso e crespo busso al ventyo ondeggia ...

Il mirto che di sua dea sempre vagheggia.

Raggia davanti all'uscio una gran pianta (cedro)

che frondi ha di smeraldo e pomi d'oro.

In questa descrizione del giardino di Venere confluisce una lunga serie di reminiscenze culturali: la rappresentazione biblica del paradiso terrestre, il mito dell'età dell'oro, condizione felice e serena. Il Poliziano cita la rosa, la viola, il croco, l'acanto, l'abete, l'alloro, il pioppo a cui fa riferimento come pianta preferita da Ercole, il mirto conosciuta come pianta di Afrodite, il bosso e il cedro. E' questo dunque il regno di Venere, nell'isola di Cipro, l'isola dei beati, dove l'aria è dolce e mite; nel giardino della dea il tempo non trascorre, non entra l'inverno a molestare con vento, gelo o neve.

Anche il Sannazzaro (1400) rispetta i canoni del locus amoenus nel descrivere l'altopiamo del Partenio, leggiamo:

Quivi senza nodo veruno si vede il drittissimo abete, nato a sustinere i pericoli del mare, con più aperti rami la quercia e l'alto frassino e l'amenissimo platano vi si stendono con le loro ombre. Et evi con più breve fronda l'albero di Ercole ornar si soleva, nel cui pedale le misere figliole di Climene furono trasformate. Et in un de lati si scerne il noderoso castagno, il fronzuto bosso, con puntate foglie l'eccelso pino carico di durissimi frutti, l'ombroso faggio, l'incoruttibile tiglio e il tamarisco, insieme con l'orientale palma dolce e onorato premio de vincitori.

La "Prosa prima" del Sannazzaro definisce l'ideale arcadico dell'autore: non la natura selvaggia, ma un paesaggio idillico in cui la natura sembra sostituirsi alla civiltà. Gli elementi costitutivi sono il boschetto, la minuta e verdissima erbetta. A conferma delle radici classiche del motivo notiamo la presenza di riferimenti mitologici che introducono il motivo della metamorfosi (il cipresso: nel quale non che Ciparisso, ma esso Apollo non si disdegnerebbe esser trasfigurato).

 

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