INVARIANTI, N.S., Anno XIV, n. 35, Dicembre 2001:
ULTIMO NUMERO

«NOTA BENE»

Alcuni hanno vinto grazie alla rapidità, anche se maldestri.

Ts’ao ts’ao, 155-200 d.C.

Quello che ora è nelle vostre mani è l’ultimo numero di Invarianti. Secondo la proprietà della rivista (si noti che Invarianti è autoprodotta), questo stesso numero avrebbe dovuto omettere la discussione delle cause, ritenute private, della chiusura delle pubblicazioni e, nel segno della continuità, consegnare ai lettori la solita messe di analisi distaccate. Questa richiesta ci è sembrata ben strana. La fine di Invarianti, come l’abbiamo conosciuta, è infatti stata provocata e infine ottenuta proprio da coloro che questo intempestivo provvedimento pretendeva di mettere a tacere. Tutto ciò che abbiamo fatto non è stato altro che sostenere le nostre scelte teoriche e di pratica critica, che peraltro nessuno ha mai accettato di discutere. Quando è stata così dimostrata l’inesistenza del progetto di Invarianti, o la sua esistenza su un piano inconfessabile, e gli ultimi adepti delle invarianti si sono dileguati, cioè quando ormai era troppo tardi, è stata avocata la nuda proprietà della testata. Di quell’organismo programmato per essere invariante alla dialettica interna ora non rimane più nulla.

La redazione di Anacharsis

 

 

PROSSIMAMENTE

ANACHARSIS

Una questione privata

La veridica storia di Invarianti

Raccontata con dovizia di particolari

e pezze d’appoggio teoriche

Esposta allo scopo di liquidare

la fattispecie post-moderna dell’ideologia italiana

e il suo gergo dell’autenticità

 

 

 

 

 

 

Roma, 22 marzo 2002.

 

Gentile signora Turchetto,

il testo che segue alla pagina 2 del presente file sostituisce, in posizione invariata, lo scritto Anacharsis. Introduzione e brindisi, inviatoLe la scorsa settimana da Paola Ferraris per la pagina web di «invarianti», che era in alcuni punti impreciso. Ci scusiamo per il maggior lavoro che l'inserimento della sua nuova versione comporterà.

Distinti saluti.

Per la redazione di «invarianti»:

Filippo Scarpelli

 

 

 

Anacharsis

 

 

Introduzione e brindisi

I

Alla fine di una storia postmoderna

 

 

«Magnifico Domino Francisco de Guicciardinis J.V. Doctori Mutinae Regiique gubernatori dignissimo suo plurimum honorando.

Magnifice vir, major observandissime. Io ero in sul cesso quando arrivò il vostro messo, et appunto pensavo alle stravaganze di questo mondo...»

(Lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco Guicciardini; Carpi, 17 maggio 1521)

Nel penultimo numero di «invarianti» si sono manifestate alcune variazioni nella forma organizzativa e nella presentazione della rivista: i redattori si sono ridotti a Paola Ferraris e a Giorgio Patrizi nello stesso atto in cui la sfilza di collaboratori virtuali più o meno - oppure, in qualche fortunato caso, per niente affatto - prestigiosi veniva abolita a favore della smilza lista di coloro che realmente «hanno collaborato», in qualunque forma, alla preparazione di quel numero. Altrettante variazioni sono state introdotte nei contenuti, più univoci del solito, più desiderosi di lasciar apparire qual'è la loro causa; e alimentati da una teoria critica più decisa a «dire, anche implicitamente, donde viene e verso cosa vorrebbe andare». Tali scelte sono state il prodotto di uno scontro interno alla redazione, nel quale però - dopo aver minacciato le sue dimissioni e reiterato più volte tale minaccia sinché finirono per essere accettate - il redattore minoritario Pietro Roccasecca ha sempre evitato di chiarire quale fosse la sua causa, da dove veniva e verso cosa voleva andare, rendendo quindi impossibile chiudere il dissidio pubblicamente e apertamente, in una parola onestamente. Abbiamo dovuto limitarci ad annunciare un «numero speciale», interamente dedicato alla sordida realtà storica, sociale e politica del presente, nel quale le ragioni per cui vogliamo continuare a fare uso della rivista come strumento potessero affermarsi senza più tener conto di irragionevoli ostacoli dettati da una misteriosa ragion di rivista. Ma quest'ultima ratio autoconservatrice, già colpita a morte, a giudizio del redattore dimissionario, dallo scandalo che abbiamo suscitato in una parte dell'affezionato pubblico con il nostro attacco ai «compagni che (umanamente) sbagliano» di Luther Blissett e persino dalla troppo rigorosa selezione delle collaborazioni, è di nuovo intervenuta dall'esterno della redazione vecchia e nuova, nella forma di una comunicazione orale di Regina Franceschini, che in quell'occasione parlava a nome e per conto della proprietà della testata. Quest'ultima aveva deciso di decretare la soluzione finale del problema della rivista: la sua chiusura.

Nonostante la debita motivazione di un «esaurimento» delle forze redazionali con cui Regina Franceschini ha voluto giustificare la chiusura, che dunque sarebbe stata decretata per il bene della «memoria» della rivista, nonché per fedeltà a quella del suo fondatore, l'azione di congelamento del suo patrimonio passato non potrà evitare un chiarimento definitivo sul fatto che «invarianti» era stata programmata sin dalla nascita per non poter variare attraverso la dialettica interna al suo nucleo redazionale e sul modo in cui una simile programmazione era stata possibile. Tale dialettica era sempre stata omessa, al pari di codesta programmazione; e solo commettendo il grave torto di essere riusciti infine a praticare la prima ci si dà la soddisfazione indebita di poter documentare la seconda. La discrezione guicciardiniana che i fondatori di «invarianti» rivendicavano come criterio discriminante del loro pensare ed agire aveva permesso loro di assegnare alla rivista i suoi evidenti limiti ideologici senza che potessero apparire ai redattori per ciò che erano: la sua essenza e la sua sola ragion d'essere. Ma di fronte alla semplicità della dialettica, cioè del qualitativo, la tortuosa astuzia combinatoria del consigliere dei pontefici e degli ottimati (del nemico della libertà di Firenze, poiché questo fu Guicciardini), cui non a caso gli amici delle invarianti si richiamavano, non poteva che cedere. E con essa doveva sprofondare anche la «complessità del dibattito politico-culturale» che non poteva non discendere da questa considerazione meramente quantitativa delle cose; e che infatti costituiva l'unico scopo confessato degli amici delle invarianti. Detto un po' impressionisticamente, ma non falsamente, la loro ricerca parassitaria di nuove «soluzioni tecniche di problemi politici e sociali» si è sciolta come neve al sole non appena le abbiamo contrapposto lo spettro antico della definitiva soluzione sociale e politica di tutti i problemi tecnici che sgorgano incessantemente, e quasi spontaneamente, dall'apparenza socialmente necessaria della separazione compiuta che costituisce il fondamento inconfessabile della sopravvivenza nella moderna società spettacolare-mercantile. Come diceva Hegel, «l'essenza deve apparire»: dalla conclusione s'intende il principio, e non dipende da noi se proprio la discrezione che tuttora s'invoca per ragion di rivista o pro bono pacis ha condotto troppi protagonisti, anche non più viventi, della faccenda a non farci una bella figura.

All'origine di «invarianti» troviamo una variante che Claudio Mutini e gli altri fondatori della rivista della rivista avevano omesso di comunicare alla redazione, e a più forte ragione al pubblico: nessuno dei redattori era infatti stato informato del fatto che la proprietà della testata era detenuta da un loro amico di famiglia, tal Vincenzo Fazzari; e che dunque la redazione rimaneva sotto tutela esterna dopo la morte di Mutini. Alla luce della «procedura di emergenza» messa in atto dal figurante della signora Franceschini si indovinano le «procedure di sempre» che hanno presieduto alla discreta attività di questo piccolo racket di piccoli quadri della sinistra illusionista alla men peggio destalinizzata, se si vuol credere alle favole; e con ciò si trovano rimessi al loro triste posto molti degli ingredienti che avevano permesso a un siffatto aggregato di manovali del recupero inetto di produrre l'allucinazione collettiva di un'autogestione generalizzata della teoria radicale (in realtà un operaismo soft rinvigorito da un vago debordeggiamento rituale alla Anselm Jappe o alla Mario Perniola). Per esempio, l'affermazione che «invarianti» era autoprodotta si riduce al semplice fatto che era pagata dai redattori (fino al n° 34 è stata infatti pubblicata in pura perdita), illusi in compenso che fosse cosa loro; mentre non ne erano che semplici contribuenti. E si comprende meglio anche il senso del sempiterno questionnement generalizzato - sul soggetto, la storia, il progresso, il materialismo, il teatro di sinistra, l'arte morta data per viva e, soprattutto, la teoria dialettica e il proletariato dati per morti, o almeno agonizzanti - che accompagnava gli amici delle invarianti nella loro vertiginosa deriva verso gli approdi simultanei e complementari del pensiero neotecnocratico e dell'ecumenismo postconciliare conditi con la maionese impazzita del differenzialismo culturale (fino all'antisemitismo incluso). Ne discendeva un «domandare infinito» che altro non faceva se non tradurre e tradire due diversi ordini di incertezza: quella organizzata dappertutto dallo spettacolo a proposito di ciascuno dei suoi prodotti e delle sue operazioni, e quella concernente la posizione e il futuro («No future!») di ogni «"intellettuale" esperto in una disciplina» che si destina a rilanciare l'organizzazione spettacolare dell'incertezza intorno alle questioni più scottanti della critica sociale attraverso il «sabotaggio del dispositivo di verità cogente», cioè portando a compimento quella dissoluzione della logica che è stata «perseguita, secondo gli interessi fondamentali del nuovo sistema di dominio, con differenti mezzi che hanno operato prestandosi sempre un reciproco sostegno» (Commentari sulla società dello spettacolo, cap. x). Si sa che «molti sono i chiamati, pochi gli eletti»; ed è là che risiede l'umorismo involontario delle mutevoli domande «radicali» degli invarianti sul soggetto dei processi rivoluzionari. Un solo esempio: «Bisogna osservare [...] gli spezzoni più refrattari alla logica del comando, confrontare i nostri con i loro tentativi di dicibilità sociale delle pratiche antagoniste [...] dove nessun nucleo di conflitto è sostituibile nella sua capacità specifica di aggregare "frammenti" [...] Ma sono sperimentabili aggregati di energie ricattatorie, offensive, "polemiche" nel senso alto (foucaultiano) che ha sempre avuto la guerra sociale. Il problema che si pone è insomma: come attaccare gli erogatori dello spettacolo sociale eterodiretto con una volontà finalmente autogestita? Come costruire una soggettività rivoluzionaria immediatamente plurale?» (Editoriale, in «invarianti» Nuova serie, n° 24, febbraio 1994). «Sarebbe meglio dire che questo genere di autori moderni ha voluto seguire Rimbaud almeno almeno nell'affermare che "Io è un altro"», ha osservato Guy Debord nei Commentari sulla società dello spettacolo (cap. xxviii). Tanto più che, come ricorda Roberto Galeotti nell'ultimo numero di «invarianti», ogniqualvolta un soggetto plurale si manifestasse immediatamente (o almeno così pareva a codesti nemici della dialettica) in qualche angolo neppur troppo remoto del pianeta, per esempio in Albania, «tra le due opzioni correntemente ammesse, la calunnia ed il silenzio, Invarianti» sceglieva invariabilmente la seconda. «Questa reazione, squallidamente conforme alla strategia redazionale della rivista, fu comune a un'impressionante quantità di compagni. [...] Sono numerosi gli indizi che portano a concludere che per Invarianti il tema della rivoluzione sociale non fosse sufficientemente elevato» (L'Albania anti-statale e anti-spettacolare in «invarianti» 35).

Prescindendo in questa sede dalle loro pretese filosofiche e culturali, per gli invarianti l'unica realtà che sembrasse contare in materia di critica sociale è «l'attuale divisione dei "soggetti dipendenti" in tantissimi segmenti di specifica oppressione, sovrapposti e incrociati [...], frammentazione che arriva dentro gli individui "puniti" con il contagio dei mali sociali, e dalla quale non può non ripartire una conflittualità che non si lascia mediare da ricette ideologiche di riunificazione.» (Editoriale, in «invarianti» n°24, febbraio 1994). «Non si lascia mediare?» Non certo da «ricette ideologiche di riunificazione», visto che l'unificazione reale del potenziale soggetto della storia avviene oggi contro tutte le ideologie rivoluzionarie, e contro tutte le religioni, ancora disponibili, ivi comprese «quelle di fantascienza» (Asger Jorn) del Surrealismo di Stato che ha ultimamente sferrato il colpo delle Twin Towers; e in tutto ciò che ne sta seguendo. Di conseguenza, quanto più i creativi sintetici («Salve, artisti! Se mi sbaglio, pazienza») in stile «invarianti» descrivono con dovizia di particolari sordidi e ignobili ciò che «divide tutti i mondi» (il corsivo è nostro) e tutti gli sfruttati, rendendo così meramente ipotetici tutti i conflitti, tanto più rapidamente la storia s'incarica di smentirli trasformando in realtà le «ipotesi» di conflitto più direttamente opposte alle loro: Iran (contro lo Shah e, subito dopo, contro gli ayatollah), Iraq (contro Saddam e contro le rappresentanze ufficiali dei Curdi: «le falci e martello insanguinate» del Pkk), Stati Uniti (lotte violente di piazza e riots contro la guerra nel Golfo), Los Angeles, Seattle; e, soprattutto, Albania, Algeria, Argentina. La democrazia della strada vi scopre la prospettiva dei Consigli antistatali come luogo di unificazione delle unità individuali e collettive di deriva antispettacolare. Là il vecchio progetto proletario del potere assoluto dei Consigli operai si arricchirà di forme sempre più ricche di collaborazione, nello smantellamento del dominio della merce, della sua nocività e di una parte della sua tecnologia, tra coloro che hanno accesso ai mezzi di una vita sociale libera, ma non il libero impiego del loro tempo, e gli scioperati, i profughi provenienti dai quattro angoli del mondo, i nomadi, i teppisti che hanno accesso a un libero uso del loro tempo, ma non ai mezzi per trasformare il loro errare «soltanto formale» (Hegel), costretto com'è in uno spazio estraneo e ostile, nella base materiale della libertà di tutti e dell'«alienazione vivente nel tempo» per ciascun individuo, dove «l'autonomia del luogo può ritrovarsi senza reintrodurre un attaccamento esclusivo al suolo, e restituire così la realtà del viaggio e della vita compresa come un viaggio che ha in se stesso tutto il suo senso» (La società dello spettacolo). Queste possibilità, sempre più direttamente e spontaneamente in gioco nell'infetta decomposizione terrorista del presente e contro di essa, non possono certo interessare coloro che si domandano se «la funzione degli intellettuali potrebbe essere quella di avvertire l'intelligenza dei contemporanei alla percezione dei mutamenti» (Pietro Roccasecca, Il successo è una forma di controllo sociale, in «invarianti» 28, luglio 1996). E' la separazione, non il suo al di là, a dettare le leggi non scritte della funzione religiosa officiata dagli intellettuali, anche quelli di fantascienza: «Come la natura pecorina del cristiano si manifesta nel suo identificarsi con l'agnello di Dio, la natura cristiana dell'operaista si manifesta nella sua identificazione con la coscienza taumaturgica, e l'illusione borghese di questa coscienza si manifesta doppiamente nel suo immaginarsi come la forza motrice della storia e nel suo distinguersi dalla massa» (Il Cantico dei Cantici o l'operaismo, in «internazionale situazionista» 1, luglio 1969). «Questa alienazione ideologica della teoria non può più allora riconoscere la verifica pratica del pensiero storico unitario che essa ha tradito quando questa verifica sorge nella lotta spontanea degli operai; può solamente concorrere a reprimerne la manifestazione e la memoria» (La società dello spettacolo).

In compenso, i lettori di «invarianti» godevano del diritto assolutamente imprescrittibile a un'informazione completa e tempestiva sul movimento Tupac Amaru, sulle ultime mascherate del subcomandante Coso e sull'occupazione studentesca (ancora una!) del Teatro Ateneo di Roma, cioè su una «lotta» che aveva l'obiettivo apertamente sadomasochista di aggiungere al già triste DMS (Dipartimento di Musica e Spettacolo dell'Università di Roma La Sapienza) una A, collocandola, manco a dirlo, tra la D e la M. In un simile quadro, l'effimero debordeggiare degli animatori di «invarianti» non è stato che uno dei tanti sintomi del nuovo mal francese che finalmente sta erodendo in modo irreversibile le difese immunitarie non solo dell'ideologia italiana, ma in generale del neo-stalinume mondiale e delle sue superfetazioni eretiche bordighiste, trotskiste e/o neo-cristiane, dacché l'uno e le altre sono stati incaricati di manipolare confusionisticamente tali veleni. «E non vi riusciranno», com'era stato previsto: «tanta era stata la forza della parola detta a suo tempo» (Guy Debord, In girum imus nocte et consumimur igni). In ogni caso, nell'economia schiettamente patriarcale e celatamente dispotico-orientale di «invarianti» la funzione di questo debordismo all'acqua di rose, e per di più manipolato e capovolto, risulta molto simile a quella della caramella per il vecchio pederasta da cine parrocchiale. Garantiva un po' di nuove energie capaci di animare l'atmosfera crepuscolare che gravava sul Sunset boulevard imboccato dalla rivista sin dall'origine; e, se non il successo dei suoi maneggi, per lo meno il profumo del successo.

Ai malcapitati giovani radicali (ma giovani manco tanto) così reclutati su queste basi sottoleniniste occultate, e raggruppati intorno al nucleo centrale insieme a un numero fluttuante di studenti del DAMS e di idioti di altro tipo per essere rapidamente elevati, senza alcun'altra considerazione, al rango di redattori o collaboratori «competenti» («Vuolsi così colà dove si puote / Ciò che si vuole, e più non dimandare»), spettava la prima cernita della materia che i Patriarchi delle invarianti s'incaricavano in seguito di chiosare annacquandola. Di recuperare sostituendola con altro, si sarebbe detto in tempi meno politicamente corretti. Da questo punto di vista, particolarmente esilarante fu il caso del socialista cosiddetto utopista William Morris, che era stato tra i primi a denunciare, nella conferenza L'età del surrogato (The Age of Makeshift, 1896), l'avvento di quella che oggi chiamiamo merce spettacolare, cioè inquinata e falsificata all'origine, e alcuni dei segreti «spesso terribili» che già allora si potevano sapere sulla «produzione povera» della paccottiglia che oggi ha finito per sommergere la quasi totalità del mercato. La conferenza di William Morris era stata ripubblicata nel 1996 dalle Éditions de l'Encyclopédie des Nuisances con il titolo L'Age de l'ersatz et autres textes contre la civilisation moderne; e quando uno di noi ne regalò una copia alla redazione, l'unico risultato del suo potlatch fu di veder equiparare il fondatore del movimento Arts and Crafts all'Eduard Barak britannico (ammesso che non sia una sorta di Vladimir Putin anglosassone) Tony Blair, in una specie di editoriale ufficioso che Claudio Mutini pubblicò di lì a poco su «invarianti»! La radice del «neoliberismo» blairiano sarebbe stata il «socialismo utopistico» (di cui il genio mutianiano spostava d'ufficio le retrovie nella «perfida Albione», forse per interposto sir Thomas More) propugnato da William Morris malgré Marx! E noi, popolo bue, che insistevamo a credere che le radici di Tony Blair, così come di Toni Negri e Massimo D'Alema, per non dir dello stesso Mutini, fossero piuttosto da cercarsi, oltre che in Proudhon e in Saint-Simon, dalle parti dell'ideologia tecnocratica, dell'ingegneria sociale e dell'eugenetica propugnate dalla Fabian Society, che nella decomposizione avrebbe infine prodotto lo stalinismo conclamato dei coniugi Webb e il fuggevole ma sostanzioso contributo di Herbert George Wells alla fama gauchiste di Mussolini e di Stalin (in proposito è d'uopo leggersi gli articoli sull'argomento contenuti nei Collected Essays, Journalism and Letters di George Orwell). Lasciando per ora da parte ciò che concerne la teoria e la pratica artistiche e decorative senz'altro discutibili di William Morris (a questo proposito leggetevi Asger Jorn), e la sua giusta opposizione alla pratica corrente del restauro, ci limiteremo a notare che nella povera realtà dei poveri fatti, cui insistiamo ad attribuire una qualche importanza, William Morris fu uno dei rari socialisti albionici a propugnare un comunismo di tipo insurrezionalista, partecipando a lungo - lui socialista - alla redazione un giornale anarchico, sinché il prevalere dell'ideologia sia nei ranghi marxisti, sia in quelli anarchici non lo costrinse a scegliere. Fino alla fine dei suoi giorni fu altresì un instancabile propagandista non solo del suo proprio odio per la civiltà moderna, ma anche e soprattutto del marxismo rivoluzionario, cioè della necessità storica della rivoluzione sociale; ed era stato del resto uno dei pochi marxisti dell'epoca ad aver letto per intero, nonostante la sua dichiarata avversione per le formule matematiche, il primo libro del Capitale, che era l'unico, a quei tempi, ad aver visto la luce. E neppure l'idillio neo-medioevale che Morris aveva disegnato per la futura società senza classi, e che del resto preesisteva al suo passaggio al socialismo, era concepito come un modello astratto di società perfetta, bensì come semplice retroterra di una libera attività umana multiforme e sensuale, in cui a suo giudizio ciascuno sarebbe vissuto meno allo stretto che nell'ugualitarismo (salariale e abitativo) da caserma delle noiose utopie tecnolatre propalate dall'industrialismo di sinistra dell'epoca. Il carattere di formazione reattiva - al neoclassicismo (cioè al Classicismo di Stato) come pure all'incubo urbanistico della metropoli capitalista - del modello di vita sociale proposto da Morris è evidente. Ma resta stabilito che non ha nulla a che vedere col pensiero neotecnocratico di Tony Blair o di Fausto Bertinotti; e comunque contiene qualche elemento che proprio coloro i quali, come gli «invarianti», fanno sembiante di proporsi una lotta senza quartiere all'ottimismo «occidentale» del progresso lineare inarrestabile dovrebbero prendere in seria considerazione. Evidentemente Claudio Mutini ignorava tutto questo. Ma non avrebbe dovuto cercare lontano, per saperlo: gli sarebbe bastato leggere l'introduzione di Olivier Barancy a L'Age de l'ersatz.

Tuttavia c'è da sospettare che la critica dell'idea di progresso, mentre le spiacevoli realtà che la fondano, e nel contempo ne derivano, dovevano restare fuori discussione, avesse nell'economia di «invarianti» e dei suoi mentori tutta un'altra funzione. Lontana da qualsiasi inquietante negatività, era anzi animata da una positivistica baldanza statalista, se non una vera e propria idolatria del dispotismo orientale, che non sembrerebbe propriamente rimandare a quel pensiero e a quella prassi libertari con cui gli amici delle invarianti amavano sciacquarsi la bocca a trimestri alterni: «Che cosa significa rimproverare al Fronte islamico [...] di aspirare alle performances e al progresso materiale dell'Occidente ripudiandone le procedure democratiche, quando l'intervento dei militari ha bloccato non altro che i risultati di libere elezioni? E' poi tanto azzardato l'anatema del Fronte gettato sul devastante antropocentrismo della "laicità" capitalistica quando il disquilibrio ecologico è arrivato a minacciare la vivibilità del pianeta? E che dire della cospirazione giudaico-massonica denunciata dal Fronte quando la politica degli Europei verso i paesi arabi è scandita dai finanziamenti Usa in Israele mentre l'economia del primo (e del secondo) mondo è attivamente attraversata da segrete complicità affaristiche? Si può ragionevolmente dubitare che alla base di queste perplessità vi sia un unico ma fondamentale pregiudizio: quello di non accettare l'idea di un governo islamico in una regione il cui governo dell'economia è stato sempre gestito a nord del Mediterraneo. [...] Resta solo da domandarsi perché la critica del marxismo, interpretato come teoria del progresso, non si accompagni alla critica del progresso democratico e civile imposto dalla cultura occidentale al mondo islamico. Perché non venga liquidato una volta per tutte il concetto eurocentrico di "soggetto" universalmente progressivo. In ultima istanza perché la dialettica, negata al progresso del proletariato europeo, non venga pure dimessa dalle tendenze egemoniche dell'occidente capitalistico [...]» (Claudio Mutini, Progresso o barbarie, n°21, 1992; gli ultimi due corsivi sono nostri).» Capperi! Ma è L'Antenne! E un compendio, agile ma sostanzioso, dell'Alain-de-Benoist-pensiero. Si può star certi che una simile contaminazione tra l'inaudita problematizzazione occidentale, detta a volte postmoderna o ermeneutica, del retaggio dell'illuminismo e la Tradizione teocratica orientale non è affatto casuale; che anzi, essendo l'unico scopo di questo ennesimo avatar del pensiero debole, è assolutamente necessaria; mentre in base allo stesso differenzialismo culturale altri figuranti, da André Glucksmann, Gianni Vattimo e Adriano Sofri a Barbara Spinelli, sostengono la superiorità del modello «laico-liberale» occidentale. La stessa debolezza di pensiero che spinge i loro colleghi a sposare tutte le arretratezze (comprese le «organizzazioni combattenti» al servizio degli Stati), ai loro occhi costituisce invece la radice dello spirito occidentale, in verità piuttosto simile a quello dei tavolini che ballano, di tolleranza multietnica e interculturale; e poiché gli uni e gli altri sperano ancora di barare fruttuosamente in comune su questo punto, se ne accusano a gran grida ogni settimana: è la neo-greppia, duratura come la «libertà» di cui si va cianciando da un oceano all'altro. Se l'innocente farsa pseudo-estremista degli amici delle «invarianti» continuasse ancora oggi, avremmo un'altro ottimo motivo di rottura con loro, sicuri come siamo che il trattamento riservato alla rivoluzione albanese avrebbero cercato di applicarlo anche all'insurrezione algerina della primavera-estate del 2001. Come ha osservato Jaime Semprun, tuttavia con un realismo politico un poco spettrale e continuando in apparenza a ignorare l'Albania, «si può conservare l'ambizione di rovinare questi sillogismi dell'accettazione. Ma al momento gli insorti d'Algeria sono soli, più soli di quanto lo siano mai stati dei rivoluzionari nel passato» (Apologie pour l'insurrection algérienne, 2001, Paris, Éditions de l'EdN)

Che dire di tutto ciò? «Nil sub sole novi»: non c'è davvero nulla di nuovo sotto il sole dell'ideologia; e dunque sarà sufficiente ripetere la messa in guardia che, più di trent'anni or sono, alcuni poco di buono divenuti in seguito tristemente celebri per aver messo a segno qualche clamoroso misfatto avevano indirizzato ai rivoluzionari italiani: ancora una volta, «non è che il derisorio recupero del passato di una generazione "marxista" che cerca di rivendere alla prima occasione l'ultima edizione della rivoluzione fallita, camuffata da rivolta moderna. [...] Le condizioni reali devono restare fuori discussione, e il consumo dell'ideologia deve sostenere una volta di più l'ideologia del consumo» (Quando solo il meglio sarà sufficiente, editoriale di «internazionale situazionista. Rivista della sezione italiana dell'I.S.», n° 1 e unico, luglio 1969; il corsivo è nostro). Questi richiami sono opportuni anche perché «invarianti» era a sua volta una variante tardiva dell'«impotenza di sinistra che si lamenta di dover assistere» al fallimento di tutti gli «aggiornamenti imbastarditi e promiscui» (ibid.) di un'ideologia rivoluzionaria che aveva avuto successo soltanto come realtà controrivoluzionaria; e che i situazionisti avevano saputo denunciare per tempo.

Come si è visto, la regola ufficiosa che presiedeva all'euristica invariantesca prevedeva che la deriva della ricerca fosse affidata alla Federazione giovanile immaginaria, mentre l'approdo della valutazione matura e responsabile spettava alle proposizioni protocollari dei Savi anziani di «invarianti». Poiché però «le condizioni reali devono restare fuori discussione», a tale regola vi fu un'unica, significativa eccezione: i Commentari sulla società dello spettacolo, dei quali gli amici delle invarianti si riservarono d'emblée, in anni ormai lontani, il monopolio della trattazione teorica (o meglio del trattamento, di cui Una questione privata riferirà nei dettagli), rifiutandosi nel prosieguo, con risibili scuse sempre rinnovate, di discuterne il contenuto con i «ragazzini» della loro Federazione giovanile immaginaria. E' per questo che quando l'autore dell'articolo Debord, il suo tempo, la sua arte volle riprendere da capo la questione, discutendo argomenti imbarazzanti come il terrorismo manipolato o il fatto che per sviluppare le sue forze produttive (fino alla follia telematica e a quella genomica) «l'economia sia arrivata al punto di fare apertamente la guerra agli umani», si trovò presto un modo per escluderlo dalle riunioni di redazione.

Fu forse una spiacevole coincidenza, se lo stesso accadde, come si è detto, a un problema pratico d'internazionalismo come l'insurrezione albanese, cui tuttavia - per salvare la forma e similmente a quanto era accaduto nel preteso Comitato Lavoratori Radicali, frequentato dagli stessi malcapitati più o meno nello stesso periodo - si concesse qualche considerazione in margine alle desolanti riunioni di redazione, il cui contenuto era sempre più puramente tecnico-amministrativo, prima che esse venissero ufficialmente aperte; o dopo che erano state altrettanto ufficialmente chiuse. «Ricordo» scrive ancora Roberto Galeotti «d'aver assistito a diversi incontri nei quali, senza alcun senso del comico, venivano snocciolati tutti i più diffusi, e perciò stesso fallaci, luoghi comuni elaborati dalla frangia più insidiosa della controrivoluzione. Stante il parere di questi dottori della sinistra, quella albanese non poteva essere una rivoluzione perché [sic!] "... le condizioni oggettive non [erano] rivoluzionarie", oppure perché, al contrario di quanto stava accadendo in Albania, [sic!!] "... i processi rivoluzionari non hanno carattere di spontaneità!". Il lettore potrà valutare la posizione che affermazioni di questo tipo occupano nella scala che dalla malafede cronica arriva all'idiozia conclamata» (L'Albania anti-statale e anti-spettacolare, cit.). Ma nel 1901 Alfred Jarry avrebbe concluso in modo più rapido e più dotto per interposto Père Ubu: «Noi non temiamo affatto questi buoni giudici, noi abbiamo avuto la mansuetudine di ammansire gli amici delle invarianti scrivendo da qualche parte che questo dibattito apparente era il culo dell'apparato invariantivo, al fine di fargli fare da valvola di sicurezza quando la rivoluzione rischiava di fare indigestione di controrivoluzione.» In ogni caso, come ricorda Roberto Galeotti, «quando Filippo Scarpelli propose alla discussione il documento Anacharsis I» nel Comitato Lavoratori Radicali, «risultò chiaro che il lumicino critico di alcuni compagni era prossimo allo spegnimento. Chi non l'aveva fatto per tempo, si ricordò aver lasciato sul fuoco prelibatissime pietanze teoriche e si dileguò». A «invarianti», la tattica fu piuttosto quella del muro di gomma. La discussione fu archiviata sul nascere; e perché gli ultimi invarianti si dileguassero toccò procurar loro la prova sperimentale irrefutabile della loro totale perdita di controllo sui contenuti della rivista.

Si comprenderà bene da queste poche osservazioni che la storia di «invarianti», su cui ci è stato elegantemente richiesto di glissare, non è una questione privata. Al contrario, per i loro propugnatori paiono esserlo recentemente divenute le loro proprie «teorie», cioè la povera sbobba a base di frammenti rifritti di ideologia e di frasi tratte dalla teoria critica moderna, per lo più storpiate a volontà, di cui la rivista subissava i lettori; e in cui ciascun redattore and/or collaboratore poteva ritagliarsi a poco prezzo la sua originalità al ribasso. A tutt'oggi, infatti non ci è mai giunta da nessuno degli amici dell'invarianza nessuna considerazione teorica riguardante le ragioni dell'inaccettabilità della nostra deriva critica così evidentemente intollerabile, e in base alla quale, dopo l'ininterrotto flusso di dimissioni per ragioni private di redattori e di «collaboratori anziani» and/or «esperti» verificatosi tra il 1999 e il 2001, ci fosse dunque possibile giustificare teoricamente il nostro divorzio da costoro. L'unica lettera ufficiale di dimissioni che ci è pervenuta sembra soprattutto rimproverarci il nostro basso livello. Ma le sue volute sentimentali sulla capacità di Claudio Mutini «di compattare, tenere insieme, dialettizzare le diverse anime della rivista» - si è visto come - non hanno nessun carattere teorico. Limitandosi a lamentare che «è l'epoca - tra le più confuse e perverse che ci è toccato di vivere - che rende difficili progetti di ampio respiro, che rende quasi impossibili i disegni mirati a tracciare mappe, ricostruire storie che ci parlino dell'oggi», eccetera, sono anzi l'esatto contrario della teoria: lo stenogramma esistenzialista (se non romantico, visto che la nausea provata dall'autore lascia presto campo libero alla nostalgia dell'amico e del nemico «di sempre») della sua impossibilità. Ragioni altrettanto epocali, in particolare il logoramento di certe parole, e non una soggettiva avversione per le nostre posizioni o un oggettivo disaccordo, hanno indotto il suo autore ad approfittare dell'occasione per ritirarci la qualifica di compagni. Sarà per via di una così irreparabile perdita di senso delle parole (per esempio autoproduzione) in «un secolo povero di cose ma ricchissimo di parole» (Giacomo Leopardi), che gli amici delle invarianti - nella loro povera immaginazione di cittadini-spettatori dell'Era radiosa del Consenso - hanno davvero immaginato che tale divorzio potesse essere consensuale. Seguendo la stessa logica Père Ubu ridivenuto re di Polonia nella dinastia dei Walesa, o d'Italia in quella dei Woityla, potrebbe convincerci ad andare a lavorare gratis il Primo Maggio: la festa dei lavoratori essendo stata ormai completamente espropriata dai loro nemici, Hitler e Stalin compresi, tanto vale abolirla e devolvere il nostro salario, in quella Santa Ricorrenza, a Telethon o alla molto farmaceutica LILA di Vittorio Agnoletto.

Tanto basta a stabilire che la concessione di un ultimo numero di «invarianti» in cambio del silenzio, che i proprietari della testata non hanno avuto, sulle ragioni storiche di tale divorzio (e forse persino a mo' di indennizzo per i soldi che i redattori avevano profuso nell'impresa «autoprodotta») non sarebbe in alcun caso servito a discutere le differenze di «impostazione teorica» comportate dal nuovo corso della rivista, che avevamo imposto seguendo per la prima volta nella sua storia una procedura rigorosamente democratica, dal momento che viceversa era la totale assenza di ogni obiezione di contenuto da parte degli amici delle invarianti a rifulgere in quella lunga pagina bianca che furono le ultime riunioni di redazione. Ma solo un seguace particolarmente inetto di Maurice Blanchot potrebbe sentirsi appagato parlando di nulla, tanto più che il nulla e l'assenza caratterizzavano solo una delle parti in causa: la loro. Così stando le cose, sarebbe un grave sintomo di gesuitismo conclamato stupirsi che Paola Ferraris e Roberto Galeotti, nelle prolungate more di Una questione privata, abbiano inserito all'interno dell'ultimo numero di «invarianti» un beffardo Notabene in cui rivendicano come nostro preciso merito la chiusura delle pubblicazioni: «Tutto ciò che abbiamo fatto non è stato altro che sostenere le nostre scelte teoriche e di pratica critica, che peraltro nessuno ha mai accettato di discutere. Quando è stata così dimostrata l'inesistenza del progetto di Invarianti, o la sua esistenza su un piano inconfessabile, e gli ultimi adepti delle invarianti si sono dileguati, cioè quando ormai era troppo tardi, è stata avocata la nuda proprietà della testata. Di quell'organismo programmato per essere invariante alla dialettica interna ora non rimane più nulla.» Andate a vedere voi stessi se non volete credere a me.

«Alcuni hanno vinto grazie alla rapidità, anche se maldestri» (Ts'ao Ts'ao, 155-200 d.C.). Chi piange su «invarianti»? L'abbiamo uccisa noi. Cosa fatta capo ha.

E' significativo che un conflitto in cui si esprime «una guerra aperta nella società reale» (Debord), senza neppure giungere a manifestarsi in quanto tale con la mediazione fittizia di uno pseudodibattito teleguidato da istanze burocratiche autoinstallatesi, come avveniva ai bei dì della socialdemocrazia e del bolscevismo (nonché dell'anarchismo ministeriale e postministeriale), si sia improvvisamente contratto nel punto inesteso della personalità giuridica astratta, ridotta a sua volta, con l'aiuto dei tempi, cioè di Nuovo Castel Giubileo, dei palazzinari e del rinnovato lustro che a tutto ciò conferisce la reggenza (la tutela esterna) di Silvio Berlusconi, a una questione condominiale di «nuda proprietà»: quella della testata. I possessori dell'ideologia sono giunti a questo stadio. Oggi manca loro crudelmente, essendo scaduto da un pezzo, qualsiasi titolo di proprietà sul proletariato, del quale non a caso teorizzano la scomparsa più o meno tendenziale, e persino la piena conformità originaria al capitalismo (battendo dunque sul loro stesso terreno tutti i «teorici» dell'integrazione). Allo stesso modo, altri, più risolutamente modernisti, sono arrivati a negare o a relativizzare le camere a gas. Del credito inesigibile che avevano accumulato grazie ai lunghi decenni di crimini dell'Internazionale burocratica, a costoro resta soltanto il logo, la griffa, o meglio l'etichetta: «la striscia del codice a barre».

Un fenomeno del genere non consiglia certo la discrezione. Poco prima che la Prussia sprofondasse nuovamente in un servaggio senza nome, del quale gli effetti ancora si vedono, un machiavelliano tedesco aveva annientato in anticipo simili false delicatezze, sempre fuori luogo nella fredda storia: «Dichiaro ed affermo al cospetto del mondo e delle generazioni future che considero la falsa prudenza, con la quale gli spiriti limitati pretendono di sottrarsi al pericolo, come la cosa più nefasta che abbiano potuto ispirarci il timore e il terrore; [...] che la vertigine di paura del nostro tempo non mi fa dimenticare gli avvertimenti del passato, prossimo e remoto, le lezioni di interi secoli, i nobili esempi di popoli celebri; che non rinuncerò alla storia universale per qualche foglio di un giornale menzognero» (Karl von Clausewitz). Di conseguenza il numero zero di «Anacharsis» sarà interamente veritiero, dedicandosi in modo esplicito a eliminare il «coefficiente di menzogna» da cui anche gli ultimi numeri di «invarianti» (i migliori in assoluto, e il pubblico ci ha dato ragione) risultano affetti a causa del non detto della rivista e del dimenticato della sua storia.

 

II

Ad «Anacharsis»

«L'attuale regime [...] s'immagina ancora di credere in se stesso e pretende dal mondo la stessa immaginazione. Se credesse veramente nella propria sostanza, cercherebbe forse di nasconderla sotto l'apparenza di una sostanza estranea, cercherebbe la sua salvezza nell'ipocrisia e nel sofisma? L'ancien régime moderno non è ormai altro che il commediante d'un ordine mondiale i cui eroi reali sono morti.»

Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione.

Nello spirito delle nostre precedenti osservazioni, Walter Benjamin, delle cui debolezze gli amici delle invarianti hanno sin troppo abusato arruolandolo d'ufficio nella loro lotta contro la critica rivoluzionaria, aveva notato che le cangianti combinazioni in cui gli elementi del dimenticato della preistoria riappaiono nel presente grazie all'oblio della loro origine configurano «sempre nuovi aborti» ricchi, aggiungeva altrove, di «brutte zampette concettuali». Di tali aborti, le ideologie dell'invarianza, che siano fasciste, operaiste o bordighiste, non sono che varianti moderne (detta talora anche postmoderne), e dunque tanto più ridicole. «La nuova ontologia» scrive Theodor Wiesengrund Adorno in Dialettica negativa «è un surrogato in sé: quel che promette di porsi al di là dell'approccio idealistico resta in modo latente idealismo e ne impedisce la critica radicale. [...] Il più urgente dei suoi bisogni sembra oggi quello di qualcosa di solido. Esso ispira le ontologie, ad esso si commisurano. Ha la sua giustificazione nel fatto che si vuole la sicurezza di non essere sepolti da una dinamica storica contro cui ci si sente impotenti. L'inamovibile vorrebbe conservare l'antico condannato. [...] Le strutture invarianti sono create a immagine dell'orrore onnipresente, della vertigine di una società minacciata dalla scomparsa totale» (il corsivo è nostro). Il loro ufficio è quello di condurre al raddoppiamento tautologico di ciò che è; di impedire il salto dal regno della necessità in quello della libertà attraverso la ripetizione rituale di ciò che è già noto, evitando nel contempo che venga meglio conosciuto. Era quindi inevitabile che i loro fans ci chiedessero di non trasgredire l'omertà che oggi concerne in generale tutto, dal quantitativo di ormoni patogeni consentiti in un vitello da carne ai danni neurologici derivanti dal semplice uso di un computer o di un telefono cellulare passando per le cointeressenze affaristico-mafiose di George W. Bush e di Osama Bin Laden, cioè (come tutti hanno capito all'istante, con la solita eccezione dei cretini e dei militanti, rinforzati per l'occasione dalle fitte schiere del parco buoi della Borsa, che non perse l'occasione di alzare la voce in tutti i bar del regno per far conoscere la propria opinione incomparabilmente disinteressata sull'argomento) degli Stati Uniti, dell'Arabia Saudita, della Russia e del Pakistan. Non a caso, però, tale omertà affligge in misura eminente ciò che è pubblico per essenza e non per accidente, dal momento che riguarda gli interessi universali in gioco nei conflitti. Ciò prova che l'oblio della storia che gli amici dell'invariance in traduzione italiana invocano è soprattutto l'oblio della loro propria storia, cioè della loro invariabile solidarietà antagonista con le potenze arcaiche (Stato, Chiese, famiglia e loro surrogati) che vegliano sul buon funzionamento della moderna miseria spettacolare; e come l'unico interesse universale per loro sia il loro stesso particulare: «La burocrazia detiene l'essenza dello Stato, l'essenza generale della società, questa è la sua proprietà privata. Lo spirito generale della burocrazia è il segreto, il mistero, custodito dentro di essa dalla gerarchia, e all'esterno in quanto essa è corporazione chiusa. Il palesarsi dello spirito dello Stato, e l'opinione pubblica, appaiono quindi alla burocrazia come un tradimento del suo mistero. [...] Ma all'interno della burocrazia lo spiritualismo diventa un crasso materialismo, il materialismo dell'ubbidienza passiva, della fede nell'autorità, del meccanismo di un'attività formale fissa, di principî, di idee, di tradizioni fisse» (Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel). Contro tutti i fabbricanti titolati dell'oblio che infestano il panorama della moderna società spettacolare-mercantile, la «buona vecchia causa» ridefinita da Marx prima della metà degli anni Quaranta del secolo xix serba intatta la sua piena attualità all'inizio del xxi: «Bisogna rendere l'oppressione reale ancor più oppressiva aggiungendovi la coscienza dell'oppressione, rendere l'onta ancor più vergognosa pubblicandola [...] bisogna costringere questo stato di cose pietrificato a entrare in ballo cantandogli la sua propria canzone» (ibid.).

Per nulla al mondo tutti gli amici dell'invarianza nutrono altrettanto odio che per questo programma, dove il proletariato e le nuove classi pericolose troveranno ogni volta di nuovo il punto d'origine e, nel contempo, la meta di tutte le successive ondate della contestazione rivoluzionaria che ha minato le basi del vecchio mondo sino all'attuale, informe decomposizione integrata e alle sue manifestazioni al tempo stesso oscurantiste e terroriste. Di tale odio, basterà citare un unico esempio tratto da «invarianti», esempio che nel contempo è curiosamente multiplo, giacché l'ultimo terzomondista che ne è l'autore «strizza l'occhio» («Noi abbiamo inventato la rivoluzione» dicono gli ultimi «marxisti», e strizzano l'occhio) agli ultimi operaisti che apparentemente avevano figurato a lungo al primo posto tra i suoi peggiori nemici: «Nel "Nirvana perfettamente mortale" che è forse questo Occidente ultrastorico e ipercomunicante, la comunicazione (critica, controinformativa) è uno strumento ormai inservibile? Vorremmo intanto rispondere a questo interrogativo citando la conclusione di una risposta di Gilles Deleuze [...] dall'intervista rilasciata a Toni Negri, in "Futur Antérieur" [...] "Mi si chiede se le società di controllo o di comunicazione potranno suscitare forme di resistenza in grado di ridare possibilità a un comunismo concepito come 'organizzazione trasversale di individui liberi'. Non lo so, forse. Ma non nella misura in cui le minoranze possano riprendere la parola. Forse la parola, la comunicazione sono marce. Sono interamente penetrate dal denaro: non per caso ma per natura. Bisogna deviare la parola. Creare è sempre stato cosa diversa dal comunicare. L'importante sarà forse creare dei vacuoli di non-comunicazione, degli interruttori, per sfuggire al controllo"» (Giuliano Mesa, Un Nirvana perfettamente mortale, in «invarianti» 14-15, autunno-inverno 1990-91; il corsivo è nostro). Si riconoscerà la radicalità di questo «pensiero» votato al rumore come surrogato tautologico del silenzio (OM-OM-OM, lo canzonava Hegel nella Scienza della logica); una radicalità che abbiamo visto all'opera anche in estremisti neoecologici a tutta prova come John Zerzan e Jacques Camatte: ma è Marchais! Ma è Séguy! O Mea culpa di Louis-Ferdinand Céline! «Nei discorsi dei ministri borghesi e dei burocrati stalinisti, la stessa paura ritrova le stesse parole: "Pongo la domanda: si comincerà di nuovo come nel 1968? Rispondo: no, questo non deve ricominciare". (Dichiarazione di Georges Marchais a Strasburgo, il 25 febbraio 1972)» (Guy Debord, Tesi sull'Internazionale situazionista e il suo tempo, in Internazionale situazionista, La vera scissione). Si sa infatti di sicura scienza qual'è l'origine dei moti del 1968, e di quel che n'è seguito: «Affar nostro è prima di tutto costituire una teoria critica globale e (dunque, inseparabilmente) comunicarla a tutti i settori oggettivamente coinvolti in una negazione che soggettivamente resta frammentaria. La definizione, la sperimentazione, il lavoro di lungo respiro intorno alla questione della comunicazione è la nostra attività reale principale in quanto gruppo organizzato. [...] Ciò che dobbiamo ereditare dall'arte moderna, nelle condizioni presenti, è un livello più profondo di comunicazione, e non una pretesa a qualche godimento sottoestetico [...] Bisognerà arrivare a riprendere la facoltà di parola che è all'interno della cultura, ma in nessun modo il suo "prestigio" o una conseguenza qualsiasi del suo prestigio» (Rapporto di Guy Debord alla VII Conferenza dell'I.S. a Parigi [Estratti], luglio 1966, in Internazionale situazionista, La vera scissione). Si può capire che qualche commentatore più intelligente di tanti altri recuperatori successivi segnalasse il fenomeno a botta calda: «Presa di coscienza (e di parola) che trova la sua fonte nelle attività intellettuali (e anche pratiche) di una minoranza di contestatori insolenti ma lucidi: l'Internazionale situazionista. Ora, per un apparente paradosso di cui la storia detiene il segreto, per dieci e rotti anni l'I.S. è rimasta praticamente sconosciuta nel nostro paese. Ecco di che giustificare la seguente riflessione di Hegel: "Tutte le rivoluzioni importanti e che saltano agli occhi devono essere precedute nello spirito dell'epoca da una rivoluzione segreta, la quale non è visibile a tutti, e ancor meno osservabile dai contemporanei, e che è tanto difficile esprimere a parole quanto comprendere"» (Pierre Hahn, Les situationnistes, in «Le Nouveau Planète, n° 22, maggio 1971; il corsivo è nostro). E nel giugno dello stesso anno François Bott, in «Les Temps modernes» (nn. 299-300): «I situazionisti hanno liberato la teoria del movimento sotterraneo che tormenta l'epoca moderna. Mentre gli pseudo-eredi del marxismo dimenticavano, in un mondo gonfio di positività, la parte del negativo, e con ciò stesso relegavano la dialettica nella bottega dell'antiquario, i situazionisti annunciavano la riemersione di quello stesso negativo e discernevano la realtà di quella stessa dialettica, di cui ritrovavano il linguaggio, "lo stile insurrezionale"» (Les situationnistes et l'économie politique cannibale). Di quella «presa di parola» si videro gli effetti sin nel comparto orientale della «divisione internazionale dei compiti spettacolari»; per esempio a Praga, dove riuscì a ritrovare la verità dell'anarchismo ceco e, in generale, del vecchio movimento operaio: «La libertà di espressione culturale e politica e di associazione fu una vera orgia della verità critica. [...] La critica del leninismo, presentata da "certi filosofi" come "già una deformazione del marxismo, poiché contiene nella sua logica lo stalinismo", non è stata, come pensano gli asini di Rouge, "un'idea assurda perché alla fine nega il ruolo dirigente del proletariato" (!), ma il punto più alto di critica teorica raggiunto in un paese burocratico» (Anonimo [Mustapha Khayati], Riforma e controriforma nel potere burocratico, in «internationale situationniste» 12, settembre 1969). Già allora i tentativi di innovare contaminando, cioè di «cambiare tutto perché nulla cambi» (Tomasi di Lampedusa), non mancavano, e tuttavia «Dutschke stesso è stato ridicolizzato dagli studenti rivoluzionari cechi, e il suo anarco-maoismo respinto con disprezzo come "assurdo, comico e neppur degno dell'attenzione di ragazzini di quindic'anni". Tutta questa critica [...], naturalmente non poteva sfociare che nella messa in discussione del potere di classe della burocrazia [...] La burocrazia denuncia sì i suoi crimini, ma sempre come commessi da altri; le basta staccare una parte di sé da se stessa, erigerla a identità autonoma e affibbiarle tutti i crimini antiproletari (fin dai tempi più remoti il sacrificio è la pratica preferita dalla burocrazia per perpetuare il suo potere)» (Riforma e controriforma..., cit.). E nello stesso senso, sia pure in modo necessariamente più diplomatico, un delegato di dipartimento dei cantieri navali «A. Warski» di Stettino ritrovava il 24 gennaio 1971, pochi mesi dopo lo sciopero insurrezionale del dicembre 1970, gli accenti di Machiavelli, che nel capitolo xiii delle Istorie fiorentine dice «l'indicibile dello Stato» per bocca di uno «de' più arditi e di maggiore esperienza» degli «uomini plebei, così quelli sottoposti all'Arte della lana come alle altre», che «per inanimire gli altri, parlò in questa sentenza»: «Vorrei rispondere al compagno Gierek quando dice che dobbiamo economizzare il denaro, che il denaro ci è prezioso. Ne siamo coscienti. E' il nostro stesso sangue che è là dentro. Ma noi possiamo ricavare denaro da quelli che vivono troppo bene. Compagni, dirò chiaro e tondo: la nostra società si divide in classi.» E un altro: «Compagni, solo un'osservazione. Spero che il compagno Gierek ci annunci davvero un rinnovamento. In questo caso bisogna sostenerlo. Come? Parlando. Infatti la nostra sola arma è dire la verità. Le menzogne non ci servono a nulla. Bisogna continuare a orientare la discussione in questa direzione. I lavoratori sanno bene che due correnti si sono formate nelle nostre classi dirigenti. Esse si cavano gli occhi a vicenda. Se la corrente che guidava la vecchia politica riguadagna terreno, allora noi che abbiamo fatto sciopero andremo tutti in galera». («Se noi avessimo a deliberare ora se si avessero a pigliare le armi, ardere e rubare le case de' cittadini, spogliare le chiese, io [...] forse approverei che fusse da preporre una quieta povertà a uno pericoloso guadagno; ma perché le armi sono prese e molti mali sono fatti, e' mi pare che si abbia a ragionare come quelle non si abbiano a lasciare e come de' mali commessi ci possiamo assicurare. Io credo certamente che, quando altri non ci insegnasse, la necessità ci insegni. [...] Noi dobbiamo per tanto cercare due cose e avere, nelle nostre deliberazioni, duoi fini: l'uno di non potere essere delle cose fatte da noi ne' prossimi giorni gastigati, l'altro di potere con più libertà e più soddisfazione che per il passato vivere. Convienci per tanto, secondo che a me pare, a volere che ci sieno perdonati gli errori vecchi, farne de' nuovi, raddoppiando i mali e le arsioni e le ruberie multiplicando, e ingegnarsi a questo avere di molti compagni, perché dove molti errano niuno si gastiga, e i falli piccoli si puniscono, i grandi e gravi si premiano; e [...] le ingiurie universali con più pazienza che le particulari si sopportano. Io confesso questo partito essere audace e pericoloso; ma dove la necessità strigne è l'audacia giudicata prudenza, [...] e di uno periculo mai si uscì sanza periculo: ancora che io creda, dove si vegga apparecchiare le carcere, i tormenti e le morti, che sia da temere più lo starsi che cercare di assicurarsene, perché nel primo i mali sono certi, nell'altro dubi. Quante volte ho io udito dolervi della avarizia de' vostri superiori e della ingiustizia dei vostri magistrati! Ora è tempo, non solamente da liberarsi da loro, ma da diventare in tanto loro superiori, ch'eglino abbiano più a dolersi e temere di voi che voi di loro. La opportunità che dalla occasione ci è porta vola, e invano, quando la è fuggita, si cerca poi di ripigliarla.»)

«Non si può provare dialetticamente di avere ragione in nessun'altra maniera che manifestandosi nel momento della ragion dialettica» ha scritto Guy Debord nelle Tesi sull'Internazionale situazionista e il suo tempo. E ciò rinnova ogni volta lo scandalo e l'abominio che la dialettica, e il temibile linguaggio da essa tenuto su un mondo condannato, costituiscono per le regole dominanti del linguaggio e, nella pratica, per il linguaggio delle regole dominanti: «Il movimento delle occupazioni, allo stesso modo in cui ha subito reclutato i suoi partigiani nelle fabbriche di tutti i Paesi, sul momento è istantaneamente apparso ai padroni della società e ai loro esecutori intellettuali tanto incomprensibile quanto terrificante. [...] Alla coscienza oscurata degli specialisti del potere, questa crisi rivoluzionaria si è immediatamente presentata soltanto nella figura della pura negazione senza pensiero. Il progetto che enunciava e il linguaggio che tenevano non erano traducibili per loro, per loro, i gestori del pensiero senza negazione, impoverito fino all'agonia estrema da decenni di monologo macchinale; nel quale l'insufficienza s'impone a se stessa come nec plus ultra; e la menzogna è arrivata a credere unicamente in se stessa. A chi regna per mezzo dello spettacolo e nello spettacolo, cioè con la potenza pratica del modo di produzione che "si è staccata da se stessa, e si è edificata un impero indipendente nello spettacolo", il movimento reale che è rimasto esterno allo spettacolo, e che per la prima volta viene a interromperlo, si presenta come l'irrealtà stessa, realizzata. Ma in quel momento, a parlare così forte in Francia è stato soltanto lo stesso movimento rivoluzionario che aveva cominciato sordamente a manifestarsi in ogni altro luogo» (ibid). E' per difendere da questo genere di presa di parola (e di coscienza) tutte le strutture separate nate storicamente sulla base preistorica (nel senso di Marx) del rifiuto intrastorico della storia, che uno strutturalista come Roland Barthes (ancor oggi ricordato come istruttore di Ibrahim Rugova, che in seguito sarebbe divenuto il reggente demoburocratico di un Kossovo tenuto sotto tutela militare esterna) cominciò a sostenere che il linguaggio è un «mero strumento di comunicazione»; e che «la lingua è fascista». Se richiamare queste circostanze storiche permette di capire perché i fautori del mito di una struttura eterna, preesistente alla storia e dotata di una trasparenza da panottico, divenissero sostenitori della sua opacità, della sua storicità e della sua incessante decostruzione in mera narrazione (in una parola, della sua assenza), lo stesso richiamo illumina anche le ragioni che hanno indotto gli amici delle invarianti ed altri intellettuali d'avanguardia in perpetuo ritardo a riprendere la vecchia fanfaluca di un Machiavelli «consigliere del Principe» per sostituirgli il governatore pontificio Francesco Guicciardini.

Non è male, in effetti, che una nuova rivista com'è «Anacharsis» possa permettersi di presentarsi al pubblico praticando l'antico programma (ugualmente vicino a Marx e Freud e ugualmente lontano da Lenin e da Jung) di cui Marx, nel settembre 1843, scriveva a Ruge in una celebre lettera pubblicata dai «Deutsche-französische Jahrbücher»: «Si vedrà infine come l'umanità non incominci un lavoro nuovo, ma venga consapevolmente a capo del suo antico lavoro.

«Possiamo dunque sintetizzare in una parola la tendenza della nostra rivista: autochiarificazione (filosofia critica) del nostro tempo in relazione alle sue lotte e ai suoi desideri. Questo è un lavoro per il mondo e per noi. Esso può derivare solo da un unione di forze. Si tratta di una confessione, non d'altro.

«Per farsi perdonare le sue colpe, l'umanità non ha che da dichiararle per ciò che esse sono.»

Morta nel frattempo anche la filosofia, è un programma che ci sembra in tutto il resto ottimo per cominciare. Lo consideriamo ottimo proprio perché generazioni di burocrati «marxisti» ortodossi, operaisti e persino anarchici - da Lassalle-Kautsky fino ai Tronti, agli Althusser, ai Barthes ed ai Foucault (per non dir dei meno pletorici John Zerzan e Michel Bounan) - hanno voluto farlo dimenticare alle generazioni di proletari e di proletarizzati che si erano destinati a prendere in custodia. E ci sembra altrettanto buono cominciare applicandolo all'esame di una delle innumerevoli sottovarianti povere dell'ideologia italiana, che dell'universale fabbrica spettacolare dell'oblio è una variante locale particolarmente detestabile; poiché in essa il gesuitismo dell'operazione salta agli occhi, grazie alle complicità diffuse di cui beneficia nei media e nelle università, sullo sfondo variopinto e cangiante delle rivalutazioni stalinocristiane di Guicciardini e di san Paolo, di Lutero («Sgozzateli! Abbatteteli! Strangolateli!») e di Toni Negri, di Fidel Castro e di Ignazio di Loyola, di Carl Gustav Jung e di Ernst Jünger, di san Francesco d'Assisi e di Carl Schmitt, di Martin Heidegger e di Gottfried Wilhelm Leibniz, nonché, per i più pragmatici, di Thomas Jefferson, di Woodrow Wilson e del CIO (un antesignano USA dello spettacolare integrato che, avendo avuto successo tra il 1933 e il 1947, piaceva tanto a Mario Tronti seconda versione; ma che nel contempo, essendone un antesignano sindacale, non è promesso a un bel futuro nell'Era Bush-Berlusconi-Blair). Nel Paese degli omissis, mostrare in concreto, cioè in azione, alcuni ideologi italiani potrà parere persino originale. Ma non è così, per tre ottime ragioni. Prima di tutto perché la teoria esiste: ci è persino capitato di incontrarla, nonostante tutti gli sforzi profusi dalle reti ad hoc per evitare questo incontro sorprendente al maggior numero di persone possibile; e - seconda ragione - vogliamo continuarla. Approfondirla, completarla (non metafisicamente, cioè definitivamente: «per la contraddizion che nol consente»). Ma soprattutto perché «anche la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse. La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice per l'uomo è l'uomo stesso» (Marx). Perciò abbiamo deciso di riprendere la buona vecchia abitudine della critica ad hominem senza fare sconti a nessuno, noi compresi.

A tale scopo il rendiconto delle nostre operazioni conserverà le differenze e le opposizioni della coscienza di coloro che hanno partecipato alla vita di «invarianti» da nemici: dapprima senza saperlo, poi sapendolo senza volerlo sapere e infine sapendolo senza voler concludere; per di più ciascuno di noi in momenti e a livelli di consapevolezza diversi, sì che solo nell'imminenza dell'epilogo della vicenda siamo riusciti a concludere, sebbene anche lì non senza qualche incertezza e qualche alterco sui modi e sui tempi della sua liquidazione. Coloro che hanno coscienza di voler fare la storia, non devono ignorare la storia della coscienza. E la storia della coscienza è necessariamente quella degli individui che ne partecipano: questo era vero per Fourier, Blanqui, Marx, Bakunin. Non è mai stato vero per Proudhon, Lassalle, Kautsky, Lenin, Stalin; e taceremo dei successori e dei seguaci. A ciascuno i suoi gusti. «Gl'individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire che è inutile che l'individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare, né in vigilia né in sogno. Lasci fare alle masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte d'individui, desidero e spero che me lo spieghino gl'intendenti d'individui e di masse che oggi illuminano il mondo» (Giacomo Leopardi, Dialogo di Tristano e di un Amico). In ogni caso lasciamo loro Michel Foucault. E gratis.

Il doppio carattere della nostra esposizione, nella quale il vissuto teorico dei protagonisti si trasforma in teoria vissuta - nel vissuto della teoria - per la forza stessa delle cose, potrà farla apparire prolissa a chi i meccanismi che vi sono descritti li conosce già; e dunque li evita. Per gli altri sarà un'occasione di conoscerli meglio. Soprattutto perché sono le attuali linee di operazioni dello spettacolo ad esserne l'oggetto reale. Lo spettacolare integrato ci vuole tutti arruolati: non solo per la guerra sanitaria o per quella al mitico terrorismo internazionale che deve tenergli luogo di nemico; ma sopratutto per ribadire, attraverso la sua negazione menzognera, la banalità di base contenuta in un vecchio stornello dei braccianti toscani: «Noi siamo quelli / Che furon sempre vinti. / Ci trombò la miseria: / Restammo tutti incinti.» Et per questa cosa, quando la fussi letta, si vedrebbe che cinque anni che siamo stati a studio di ruinare lo spettaculo non gli abbiamo dormiti né giuocati.

Se «il sonno della ragione genera mostri», il ritorno del rimosso nel momento in cui cominciano a riunirsi le condizioni minime della coscienza storica che sa di non essere che storica, prefigura a modo suo un esito diverso: «là dove c'era l'Es deve venire l'Io». Come diceva Gondi, è necessario «intendere l'ampiezza del male, che non è mai al suo culmine se non quando coloro che comandano hanno perso la vergogna, poiché questo è precisamente il momento in cui coloro che obbediscono perdono il rispetto; ed è in questi stessi momenti che ci si scuote dalla letargia, ma con delle convulsioni». E ancora: «Ciò che causa l'assopimento negli Stati che soffrono è la durata del male, che paralizza l'immaginazione degli uomini e fa creder loro che non finirà mai. Non appena trovano l'apertura per uscirne, cosa che succede inevitabilmente quando questo è giunto fino a un certo punto, sono così sorpresi, così a proprio agio e così trasportati, che passan di colpo all'altro estremo, e ben lungi dal considerare le rivoluzioni come impossibili, le credono facili; e questa disposizione da sola è talvolta capace di farle» (Cardinal de Retz, Mémoires).

A darne e contrario l'esemplare dimostrazione sono, fra tanti, i pagliacci di «Luther Blissett»-«Wu Ming»; che con gran piacere abbiamo attaccato per interposto Leonardo Lippolis, riservandoci nel contempo il divertimento complementare di ridicolizzare come meritano i loro fratelli maggiori e i loro maîtres à décerveler del convegno di Bassano del Grappa (almeno il disinformatore Gianni-Emilio Simonetti non ci romperà più i coglioni); e ottenendo in sovrappiù che i baffi cadessero anche agli amici delle invarianti, sì da costringerli a chiudere bottega. Su uno dei siti internet dell'azienda radiotelevisiva di Stato (RAI.it/cinema), Roberto Bui e soci hanno infatti organizzato un ennesimo e vieppiù scalcagnato siparietto antidebordista, intitolandolo Speciale Guy Debord. Luther Blissett e The Bore. Vi si autostoricizzano ancora una volta con alcune citazioni tratte dalla loro precedente immondizia (poiché si sa di sicura scienza che «il cane ritorna al proprio vomito») e, in esergo, la seguente perla, che in quanto tale meritava proprio di finire su un sito della RAI: «Guy Debord ha quel che si merita: finire alla Biennale di Venezia (Wu Ming Yi, cioè Roberto Bui, agosto 2001).» Il negazionista Roberto Bui fa finta di credere al proprio talento, proprio come fanno finta di credervi tutti i mocciosi che rovesciano i calamai durante l'intervallo, e dunque invidia disperatamente chiunque riesca senza sforzo, e avendo nuotato controcorrente per tutta la vita, ad avere post mortem un riconoscimento pubblico per il quale egli è invece costretto, pur galleggiando nel senso della «storia», a impiegare tutte le sue lombrichesche energie. E' per questo che il modo in cui continua a dare libero sfogo alle perverse ossessioni che lo colgono ogni volta che sente parlare di Debord, di negatività e di teoria, e che lo spingono a riciclare incessantemente le sue riflessioni vaghe e buone per tutte le stagioni (in questo caso una sua vecchia intervista anonima), ci è stato di indubbio conforto: «L'ossessione del "recupero", perversa forma di sconfittismo, si è impadronita dei movimenti radicali soprattutto per colpa della Scuola di Francoforte e dell'Internazionale Situazionista, che da un lato hanno confuso i destini dei movimenti sociali con quelli delle avanguardie artistiche [...], dall'altro si sono basate sulla "dialettica negativa", un punto di vista che anziché sulla composizione di classe e sulla forza-invenzione del lavoro vivo poneva l'accento sull'onnipotenza e la voracità della "industria culturale" e poi dello "spettacolo". Quest'ultimo è un concetto vago e buono per tutte le stagioni, di cui bisognerebbe sbarazzarsi una volta per tutte» (i corsivi sono nostri). Il livore dei piccoli quadri della sinistra trasversale è tuttavia autentico e va giustificato. Centocinquant'anni di storia della negazione del proletariato, le loro macchine per decervellare e tutti quei ritrovati della sovrapproduzione confutati e liquidati nel giro di pochi decenni da minoranze ostinatamente razionali. Stando così le cose, è comprensibile che l'ex naziskin transmaniaco pusher di Faurisson, in seguito «Luther Blissett», scrittore di fama e tuta bianca, adesso tuta grigia, eccetera, di nome Roberto Bui deplori la confusione «dei destini delle avanguardie artistiche con quelli dei movimenti sociali». Ma non siamo del tutto sicuri che Adorno, Horkheimer e Debord abbiano sbagliato a confondere l'assassinio di Durruti (o anche di Jaurès, di Matteotti e dei fratelli Rosselli), le pallottole nella nuca di Camillo Berneri e i carri armati sovietici a Budapest o a Praga (nonché tutto quello che ne è seguito, giù giù fino alla Polonia, alla Cambogia e all'Afghanistan post-11 settembre) con la carriera mediatico-parastatale di Roberto Bui, con i festival di poesia di Nanni Balestrini e con i «momenti di spettacolarizzazione» dell'Associazione Mediaterra, cioè con i surrogati del dadaismo di Stato che ha sostituito l'avanguardia da quando l'arte è morta. L'esistenza e persino la semplice possibilità di questi presuppone infatti il successo e la continuazione di quelli, sotto altri nomi, - terrorismo internazionale, per esempio, - se il vero nome spiace. In compenso, come potremmo non vedere anche noi l'inattualità delle teorie che denunciano «l'onnipotenza e la voracità», cioè, in realtà, la miseria e l'impotenza, di un sistema che è stato capace di sopravvivere solo attraverso lo sfruttamento economico-politico supplementare dei proletari da parte dei loro rappresentanti, reali o immaginari, e attraverso l'autovalorizzazione sociale di costoro come burocrati o almeno, una volta fallito quel prestigioso obiettivo, come manutengoli, servi, scribacchini, tecnici, funzionari e quadri dei loro apparati? Come notava ancora Marx a proposito del «crasso materialismo» (cioè del materialismo volgare) burocratico di cui il social worker Roberto Bui è un discreto specimen virtuale, per il «burocrate preso singolarmente, lo scopo dello Stato diventa il suo scopo privato, una caccia ai posti più alti, un far carriera. [...] egli considera la vita reale come materiale, poiché lo spirito di questa vita ha la sua esistenza separata nella burocrazia» (Critica della filosofia del diritto di Hegel). Quanto al concetto di spettacolo, è in effetti abbastanza fluido, unificando e spiegando un gran numero di fenomeni apparentemente disparati, da essere buono anche per la presente stagione del capitalismo: e dunque si può capire che Roberto Bui desideri sbarazzarsene. Negli anni Sessanta il cattolico progressista Jean-Marie Domenach, lo stalinocristiano Louis Althusser e gli operaisti Mario Tronti (PCI) e Toni Negri (Azione Cattolica, PSI, Classe Operaia, Potere Operaio... catalogo Benetton) volevano fare lo stesso con quello di alienazione, della quale lo spettacolo non è che la riproduzione allargata: la sua accumulazione illimitata e pianificata, contemporanea al precipitare delle contraddizioni reali rimosse del capitalismo. Con queste note abbiamo dimostrato ad hominem il contrario: che tali concetti e la loro «dialettica negativa» sono il cuore stesso della teoria del proletariato. Lo spettacolo, come l'alienazione, può portare a tutto; a patto di uscirne. Solo allora si potrà dire che siamo usciti, purtroppo tardi e male, dal Ventesimo secolo.

 

III

Alla fine del xx secolo

«Non serve a nulla adottare di nuovo, in modo per così dire sostanziale, le visioni del mondo del passato, cioè volersi saldamente introdurre in uno di questi tipi di mentalità; ad esempio il farsi cattolici, come molti hanno fatto recentemente per ragioni d'arte, allo scopo di stabilizzare la loro indole e di tramutare l'evidente limitatezza delle loro facoltà rappresentative per se stesse in qualcosa di essente in sé e per sé» (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni di estetica, II).

Gli autori interrompono qui la loro veridica storia. Perdonate loro le loro colpe.

La redazione di «Anacharsis»

 

 

COSÌ IL TESTO SE N’È ANDATO DAL SITO NÉ CONGELATO NÉ SMANTELLATO:

 

Cara Paola Ferraris,

"Mercati Esplosivi" è da un pezzo in fase di abbandono. Ho offerto gratuitamente ospitalità per un sacco di tempo, ora tutto ciò non ha più molto senso, perché le riviste si sono autonomamente dotate di siti. Quindi quello che farò è togliere i link e smantellare il tutto. Cordialità

Maria Turchetto

Maria Turchetto
Dipartimento di Studi Storici
Università Ca' Foscari Venezia

 
-----Messaggio originale-----
Da: Paola Ferraris [mailto:paola.ferraris@mclink.it]
Inviato: venerdì 25 maggio 2007 22.30
A: turchetto@interfree.it
Oggetto: invarianti
All'attenzione di Maria Turchetto
il sito di "mercati esplosivi" contiene e rende disponibile la documentazione di numerose riviste, vive e morte, scelte secondo i vostri stessi criteri. La fu Invarianti è tra queste. Ma al presente la documentazione che la riguarda risulta menomata in modo tanto grave quanto incongruo. Restano infatti attivi tutti i link, ai testi di articoli dell'ultimo numero, all'appello per René Riesel, ad Anacharsis, e alla "veridica storia" di Invarianti medesima: ma le pagine a cui dovrebbero rinviare sono tutte introvabili.
Dato che per una simile decurtazione non esiste una giustificazione possibile (il materiale pubblicato sul sito è sempre stato approvato dalla redazione e da voi liberamente accettato), non mi resta che rammaricarmi di non aver controllato più tempestivamente i possibili malfunzionamenti delle pagine di cui sono co-responsabile, e chiedere almeno ora la loro necessaria riparazione.
In attesa di un cortese riscontro
Paola Ferraris

 

 

Fine di un'altra questione privatizzata.
Il seguito - abbastanza normale? - comincia con quel che avete visto qui.

Per sperimentare l'utilità e il danno della storia per la vita, ecco i testi scomparsi, scelti dall'ultimo numero di «Invarianti».

 

 

 

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