«Behemoth»

«Nell’escatologia ebraica - di origine babilonese - Behemoth e Leviathan designano due mostri... Entrambi sono mostri del Caos. (...) E Hobbes rese popolari sia Leviathan sia Behemoth. Il suo Leviathan è un’analisi dello stato, ovvero di un sistema politico di coercizione in cui sono ancora conservate le vestigia del dominio della legge e dei diritti individuali. Il suo Behemoth, invece,...»

Franz Neumann, Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo (1942), 1999, p. 3.

«Analogamente, l’insediamento del dominio spettacolare è una trasformazione sociale così profonda da aver cambiato radicalmente l’arte di governare. (...) Non si deve credere che coloro che non hanno capito abbastanza in fretta tutta la flessibilità delle nuove regole del loro gioco e la sua sorta di barbara grandezza possano mantenersi in modo duraturo, come un arcaismo, nei dintorni del potere reale. Il destino dello spettacolo non è certo di finire come un dispotismo illuminato.»

Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo (1988), 1997, cap. XXXII, p. 247.

Neumann ha conosciuto l’esperimento basilare della nuova arte di governare, e lo ha analizzato in tutta la sua arcaica modernità; Debord ha avvertito per tempo chi voglia intendere (sapendo pure di dovere stare attento a non istruire troppo chiunque) sul fatto che una simile novità non coincide con la limitata parabola storica del nazismo, esorcizzabile insieme con il «secolo breve», e dunque non si sarebbe riproposta come una tentazione resistibile, in quanto estremamente rischiosa, in nome degli stessi interessi dominanti benintesi. Quando proprio la loro conservazione è arrivata a imporre su scala generale il ricambio degli uomini giusti al posto giusto per le nuove regole del gioco, si è già imposta la scelta di rinunciare a progettare un «ordine mondiale» mediante il governo di quella economia che è allo sbando, per anticipare invece il disordine con l’instaurare una emergenza permanente. Nella quale, la liquidazione del «dispotismo illuminato» non è esattamente il copione offerto alle vittime-spettatori sulla scena dello spettacolo, dato che il trasformarsi del Leviathan in Behemoth deve apparire solo come un lampeggiare di catastrofi imprevedibili, seguite da altrettante reazioni a catena che sembrano mirare come sempre solo alla protezione degli affari abituali: mentre la controrivoluzione avanza come un fulmine, che si riconosce unicamente dai suoi colpi. Ultimamente questi colpi non sono mancati: le mani che li hanno singolarmente sferrati possono anche rimanere segrete a chi sa di non avere accesso ai segreti di stato e di mercato (per mantenere i quali si arriva ad ammettere pubblicamente l’ignoranza degli apparati di intelligenza, quando alcuni gestori di capitali hanno saputo bene cosa fare nell’imminenza dell’11 settembre): si tratta piuttosto di guardare dove simili colpi, con i loro diversi interessi particolari, vadano tutti insieme a parare.

Quando abbiamo annunciato per questo numero delle note sull’attualità dei Commentari, avevamo già premesso come, quanto al personale variamente «esperto» di cui ha bisogno la nuova arte di governare, la produzione mondiale di rifiuti umani dell’accumulazione e le occasioni per candidarsi sul campo al ricambio degli apparati concorrono ad assicurare mercenari come pure volontari, e «gli attuali padroni del mondo e gli uomini dello Stato hanno davvero cessato "di preoccuparsi di qualsiasi ideologia a questo proposito" (Commentari, cap. XXVI). A seconda delle emergenze del momento, inventano di sana pianta o amplificano - finanziando massicciamente qualcuna delle innumerevoli sette e microsette parastatali o paraecclesiali che vegetano negli intermundia degli affari riservati, delle forze speciali e del crimine organizzato, - movimenti ed eserciti di liberazione di cui nessuno aveva sentito parlare soltanto il giorno prima: i talebani, per esempio, o l’UCK kossovaro. » La massima ambizione dello spettacolare integrato è pur sempre che gli agenti segreti diventino dei rivoluzionari, e che i rivoluzionari diventino degli agenti segreti (Commentari, cap. IV), per anticipare la contrapposizione a un potere pericolante di un nemico che sappia essere il peggior nemico dei nemici, cioè dei proletarizzati e della loro critica sociale (dato che le condizioni non sono mai state così pesantemente rivoluzionarie ovunque, anche se solo i governi lo pensano). In questo gioco viene così messa alla prova la capacità di far propria l’emergenza da parte delle vecchie caste burocratiche di controllo, costituite consensualmente attraverso «guerra fredda» e «decolonizzazione»: gli arcaismi renitenti a fare uso dei nuovi mezzi a loro disposizione possono lasciarci la testa, come Rabin, proprio nel momento in cui «tra la popolazione e l’autorità israeliana la contraddizione si approfondisce» e «tra la popolazione e l’autorità palestinese, la divaricazione si approfondisce», con «una maggioranza di israeliani... contraria alle colonie» e i giovani palestinesi ribelli che scandalizzano i sociologi perché «non sanno nemmeno chi è Arafat» (come ricordava L’Achèvement, Lyon, marzo 2001); quando dunque è diventato urgente mettere in azione i «coloni», questi ebrei proletarizzati dell’est «invitati» dallo Stato e mandati per forza, debitamente inquadrati da capi ideologico-militari, a sfidare la risposta dei provocatori specializzati in nome e ormai al posto dei proletari palestinesi. Mediante questo disordine, poi, le «forze dell’ordine» locali hanno ritrovato la loro missione di repressione fisica o preventiva delle rispettive popolazioni: e se questa emergenza non dovesse bastare per l’area mediorientale, ci sono in occidente gli uomini giusti al posto giusto per non arretrare di fronte alla messa in gioco della stessa «sicurezza di Israele» con interventi ancora una volta richiamati dalla riscoperta di terroristi islamici presso i suoi vicini.

Quando questo «terrorismo islamico» promosso ora a tuttofare, dopo aver fatto bene la sua prova come indispensabile controfigura dello Stato per bloccare con il terrore l’estensione delle rivolte in Algeria, era stato per tempo allevato in quasi tutte le situazioni candidate alla controrivoluzione preventiva (e, si capisce dallo stesso esempio algerino, non unicamente a cura degli Stati Uniti). Certo, la direzione della sorveglianza e della manipolazione non è unificata. Infatti si lotta ovunque per la spartizione dei profitti; e quindi anche per lo sviluppo prioritario di una data virtualità della società esistente, a scapito di tutte le altre virtualità che pure, a patto che siano dello stesso stampo, sono reputate anch’esse rispettabili (Commentari, cap. XXX): ma una simile condizione, se tende a una redditività decrescente del controllo proprio man mano che questo si avvicina alla totalità dello spazio sociale e dunque il suo personale e i suoi mezzi aumentano, vincola pure il conflitto tra le diverse virtualità al rispetto che ciascuna sa esigere, in nome delle esigenze comuni o trasversali (come nell’alleanza a perseguire in lungo e in largo la nuova «Libertà Duratura»); e d’altra parte produce lo stato di fatto nel quale ogni mezzo aspira a diventare un fine, e opera in questo senso, come ben noto già al tempo di Machiavelli per il comportamento dei capi mercenari. A seguito dell’esperimento del Behemoth nazista, si dovrebbe sapere che la più probabile benché provvisoria conciliazione di tanti interessi operanti, i cui complotti a favore dell’ordine costituito s’ingarbugliano e si combattono ora su più larga scala senza che nessuna rete ce ne informi meglio di prima, consiste appunto nell’instaurare uno stato d’emergenza quanto più generale e permanente, in cui tutti i colpi sferrati servano comunque a mettere sotto protezione le popolazioni. Un genere di lavoro che può dare a una vasta gamma di organizzazioni, paramilitari, sanitarie, umanitarie o d’informazione (del resto sempre più intercambiabili fra loro), così come a una rosa ben selezionata di speculatori produttivi, attrezzati per le nuove sfere e dimensioni di intervento, l’occasione di far valere le proprie capacità e i propri mezzi sui soli terreni operativi che ancora si aprono davvero: come si sperimenta anche nel campo cosiddetto «civile», con le misteriose minacce alla salute e con le agenzie di «protezione», e le biotecnologie, mobilitate a mettere sotto controllo i minacciati.

Del resto, come poteva dichiarare nel suo piccolo uno dei «decisori» algerini, dopo la repressione dei moti di ottobre 1988, fin che si può sussiste il principio vitale delle classi dirigenti, così che «Per trent’anni, abbiamo potuto farci a pezzi, piantarci il coltello nella schiena. Ma ci prendiamo cura di non abbandonare mai un dirigente escluso, non fosse che continuando a fargli visita. Perché siamo uniti da una certezza: i nostri figli dovranno succederci. Sappiamo che il giorno in cui questa legge fosse infranta, sarebbe finita per noi tutti, perché la piazza, quella, non si accontenterà di una testa, ma le pretenderà tutte» (citato da José Garçon nella prefazione a Djallal Malti, La Nouvelle Guerre d’Algérie, 1999). Questa è una regola che vale ancora, nonostante le apparenze, come è valsa nella Cambogia depolpottizzata per recuperare una parte dei membri dell’apparato nel nuovo ordinamento «democratico»: il diavolo visto da vicino non è tanto brutto, tanto che è stata ora dichiarata la necessità di avere commercio con qualunque sua incarnazione che sia più visibile di un Osama Bin Laden, almeno per i servizi segreti deputati a esorcizzare il «Male». Invece, stavano davvero pretendendo tutte le teste i rivoltosi dell’Albania nel 1997, come pare lo vogliano fare i ribelli argentini, annunciati da un’astensione-annullamento dei voti pari almeno al 30% nelle ultime elezioni, e scesi in piazza senza bandiere contro ogni colore di governo regionale e statale, oltreché contro i supermercati. Non si è trovato di meglio, per ora, che affidarli alle cure del peronismo più aggiornato, quando è chiaro che l’originario modello populista di quel fascismo non sarebbe più disponibile (e infatti sono già state annunciate nuove cure da Cavallo condite con la promessa all’italiana di «un milione di posti di lavoro»): dato che il minimo che possa toccare a un paese ancora non strategico per il nuovo disordine mondiale, e invece consegnato da tempo alle misure di aggiustamento di un ordine economico che è andato fuori controllo, è fare da ammortizzatore della crisi che non deve esplodere altrove, soprattutto come crisi sociale negli Stati Uniti e in Europa. Da dove si guarda con commiserazione alle vittime predestinate, ascrivendole subito alla corruzione e alla speciale «inettocrazia» del sistema argentino (ammessa perfino da un ministro ora ex, secondo Le Monde del 21 dicembre), e deplorando a posteriori la cecità di un «neoliberismo» che sarebbe venuto meno alla sua responsabilità di evitare il collasso finanziario e sociale: mentre quelle entità apparentemente onnipotenti come FMI e Banca mondiale che l’hanno finora amministrato devono abbastanza esplicitamente passare la mano al nuovo disordine mondiale; e non si trova dappertutto già pronto l’opportuno insediamento «terroristico» parastatale , da usare come bersaglio fantoccio del terrore reale che sarebbe necessario instaurare, magari con civile discrezione.

In Argentina, finora, sembravano essere pronte solo le organizzazioni «non governative» tipiche di un paese politicamente maturo, ammortizzatori sociali come una Corriente Classista Combativa che si è occupata nei primi giorni di negoziare con autorità e supermercati la distribuzione di «pacchi di Natale» ai suoi seguaci (così effimeramente incrementati), o quale la più radicale Coordinadora de Trabajadores Desocupados, che si preoccupava per tempo di avvertire i responsabili di come, «se il Governo e la classe politica continuano a non ascoltare le richieste dei poveri e dei disoccupati, disgraziatamente, stiamo andando verso esplosioni sociali molto più gravi anche prima di fine anno» (Pagina/12, 18 dicembre 2001). Nessuno di questi corpi intermedi tradizionali ha potuto alla fine organizzare «una risposta della società civile» nello stile nostrano della petizione per procura, su cui puntava ancora il manifesto del 21 dicembre ospitando il «commento» di uno dei protagonisti del maggior tentativo in questo senso, quel Frente nacional contra la pobreza (Frenapo, formato dalla sinistra sindacale, dal gruppo «per la democrazia e il diritto» presieduto dal giornalista-scrittore Horacio Verbitsky, dalle Madri e Nonne della Plaza de Majo oltreché da «persone singole rappresentative») che ha totalizzato tre milioni di voti in una consultazione nazionale sulla sua proposta di «salario di cittadinanza». Il dispetto di questa sorta di peronismo rivisitato in vari colori, che si è proposto come «l’unica alternativa seria alla barbarie che è esplosa», lamentando «l’assenza di una prospettiva di superamento della crisi che contempli in qualche modo gli interessi popolari», portava comunque già allora Verbitski a denunciare come «è evidente che a saccheggiare non sono stati solo gli esclusi ma anche i nuovi poveri, recenti emigranti della classe media. Lì ribolle un’avversione tanto pericolosa quanto esacerbata per tutto ciò che abbia a che vedere con la politica». Il pericolo per la democrazia nella crisi argentina starebbe quindi in queste classi medie che là per davvero, in dimensioni occidentali, ci sono state, e ora non ci sono più: arrivando non solo a partecipare a dei saccheggi senza la scusante di essere «affamati» ed a manifestare a dispetto dello stato d’assedio, ma soprattutto ad attaccare gli edifici pubblici, a Buenos Aires come pure a Cordoba, dove il municipio è stato preso d’assalto da impiegati ormai da tempo non pagati, e ora respinti con proiettili di gomma a cura del governatore peronista, futuro candidato alla presidenza (Le Monde del 21 dicembre). Di fronte a questo, Verbitsky non trova di meglio che rispolverare l’addebito a «gruppi di provocatori» in combutta con le forze dell’ordine per creare le condizioni della repressione militare (come a Genova i responsabili della sceneggiata andata a male hanno dato la colpa a chi invece di seguire loro, avrebbe servito il demonio): ma il direttore della edizione latinoamericana di Le Monde diplomatique, pure ospitato dal manifesto, arriva a dipingere il timore, agitato in realtà da tutta la stampa progressista, che «la reazione sociale... acquisti le sembianze dell’anarchia», agitando «le similitudini della crisi argentina con la grande depressione mondiale degli anni ’30, e anche con lo sviluppo e le conseguenze politiche della Repubblica di Weimar... una guerra persa, anni di frustrazioni, crisi di rappresentatività, perdita di fiducia nelle istituzioni, mancanza di orizzonti, crisi mondiale...» Quei «cittadini» di cui non si può negare che abbiano rifiutato non solo il «modello economico neoliberale» ma l’«insieme dei dirigenti della politica, del sindacato e dell’impresa», e che non siano più quelli di prima, che «eseguivano l’ordine di scioperare e manifestavano incolonnati sotto le bandiere delle proprie organizzazioni sindacali e politiche», ora che «lo fanno spontaneamente», sono avvertiti: sarà colpa loro se anche in Argentina dovranno spuntar fuori dei terroristi, forse incendiari di Reichstag, e nuovi capi «avventurieri».

Si preferirebbe evidentemente che gli insorti spontanei di ogni dove si espongano al rischio di morte, e in ogni caso di sottomissione a cosche locali o meno (alleate nella concorrenza a riprendere il controllo), piuttosto secondo la via tracciata ad esempio dal F.L.N. algerino, che nel 1961 aveva mandato i lavoratori immigrati a sfidare a Parigi il coprifuoco, e poi commemorato i «martiri» dopo aver impedito loro qualunque autodifesa, al nobile scopo di «non allentare la pressione» sul governo francese nei negoziati per ottenere il suo potere.

Come si vede, a tappe forzate che precedono il 2000 siamo arrivati a un surrealismo di governo (corrispettivo alla surrealtà di quella che ancora si chiama «economia»), un surrogato rovesciato che perciò ha bisogno di liquidare l’originale che ha usurpato: come si presta camaleonticamente a fare l’agente-di-penna Jean Clair, nel suo contributo allo «speciale guerra» di Le Monde del 21 novembre, senza badare al sottile quanto a falsificazione della storia per fabbricare una «ideologia surrealista» filo-afgana, islamista, votata alla distruzione barbarica dell’America e «di tutto ciò che ha dato all’Occidente la sua supremazia». Che sarebbero la logica e la ragione, proprio quando sono negate ovunque dal sistema spettacolare: evocate così per denunciare come serpente in seno non una memoria d’avanguardia artistica passata, ma ogni coscienza della cattiva surrealtà presente e della necessità della sua negazione. Del resto, almeno dal tempo delle Memorie dei Savi di Sion prefabbricare complotti serve a screditare anche l’evidenza delle manovre reali come paranoica «teoria del complotto».

 

 

 

 

L’Albania anti-statale e anti-spettacolare

di Roberto Galeotti

I due testi che presentiamo nelle pagine che seguono, Rien n’est permis, tout est vrai e La terra desolata, sono entrambi dedicati alla rivoluzione sociale albanese del febbraio-marzo 1997.

Gli avvenimenti accaduti in Albania tra la fine del ’96 ed il maggio ’97 hanno prodotto in modo univoco e generalizzato reazioni di disgusto e di riprovazione. Anche per questo motivo quindi, qualcuno troverà oltremodo sorprendente che Invarianti giunga, anche se gravemente attardata, su una questione tanto delicata quanto decisiva com’è quella albanese.

All’epoca dei fatti, tra le due opzioni correntemente ammesse, la calunnia ed il silenzio, Invarianti scelse la seconda. Questa reazione, squallidamente conforme alla strategia redazionale della rivista1, fu comune ad una impressionante quantità di compagni. Ricordo d’aver assistito a diversi incontri nei quali, senza alcun senso del comico, venivano snocciolati tutti i più diffusi, e perciò stesso fallaci, luoghi comuni elaborati dalla frangia più insidiosa della controrivoluzione. Stante il parere di questi dottori della sinistra, quella albanese non poteva essere considerata una rivoluzione perché [sic!] « ... le condizioni oggettive non [erano] rivoluzionarie. », oppure perché, al contrario di quanto stava accadendo in Albania, [sic!!] « ... i processi rivoluzionari non hanno carattere di spontaneità! ». Il lettore potrà valutare la posizione che affermazioni di questo tipo occupano nella scala che dalla malafede cronica arriva all’idiozia conclamata.

Possiamo dolercene o rallegrarcene, resta il fatto che le Ossessive disavventure della macchina fredda, la sua sterile potenza, l’assoluta incapacità di comportamenti creativi, hanno fatto sì che l’impianto logico-argomentativo dei due lavori abbia mantenuto immutato il suo valore, anche a cinque anni di distanza dall’evento albanese. Ma questo non è il solo pregio comune ai due contributi.

I metodi per scongiurare le crisi raramente obbediscono al criterio di economia, più spesso ne sono lo specchio. È per questo motivo che diventano sempre più ridondanti, grotteschi ed inverosimili. Oramai è dal semplice esame dei fatti, così come ce li riferiscono i mezzi di informazione, che emerge quanto il presente momento storico sia pesantemente rivoluzionario. Il segreto di Pulcinella malamente celato dietro i sempre più frequenti e generalizzati stati di eccezione e di emergenza, stati che sono al tempo stesso causa e conseguenza di sé stessi, è che, nella fase attuale, questa è l’unica reazione che la controrivoluzione può opporre alla propria liquidazione.

La metodologia comune ai due testi, la messa a nudo delle menzogne della cosiddetta informazione e la scoperta del rimosso, svela il carattere intimamente ossessivo della strategia complessiva dello spettacolare integrato, riconosce l’evento albanese come rivoluzionario, riconosce tutti gli eventi rivoluzionari accaduti in tempi e luoghi diversi (Los Angeles, Medio Oriente, Algeria, Argentina) e tutti quelli che verranno.

Rien n’est permis, tout est vrai, il documento degli Associés Autonomes, ha finora conosciuto due edizioni.

L’Albanie anti-étatique et anti-spectaculaire, era questo il titolo della prima edizione, è uscito una prima volta nel marzo-aprile 1997 allegato al numero tre de L’Achèvement, un «bollettino d’arte contemporanea» che gli stessi Associés Autonomes pubblicano a Lione.

Era questo il periodo in cui i ranghi della controrivoluzione internazionale si erano quasi del tutto serrati e i pochi che guardavano all’iniziativa dei rivoluzionari albanesi lo facevano o per screditarla agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, oppure, attaccandola da sinistra, per isolarla e affossarla.

Quando, esattamente un anno più tardi, nell’aprile 1998, il documento fu ripubblicato con il titolo Rien n’est permis, tout est vrai l’Albania era stata ridotta «pacifica e obbediente al braccio regio» dello spettacolo2.

Questa seconda edizione, sulla quale è stata condotta la traduzione, oltre ad una più accurata redazione, presenta una sezione d’apertura nella quale, con grande economia di mezzi, è documentato lo stato dell’arte della controrivoluzione ad un anno dai rovinosi avvenimenti albanesi.

Tale sezione introduttiva può forse apparire fin troppo puntuale e persino zelante, ma di certo non è superflua anzi, metodologicamente parlando, è di straordinaria correttezza essendo la vita quotidiana il primo terreno sul quale processi rivoluzionari e processi antagonisti controrivoluzionari si affrontano. Da questo privilegiato punto di osservazione è relativamente agevole prevedere lo sviluppo e finanche l’esito degli avvenimenti futuri.

De La terra desolata, di Filippo Scarpelli, ho potuto seguire più da presso le vicende. Quando Filippo Scarpelli propose alla discussione il documento Anacharsis I risultò chiaro che il lumicino critico di alcuni compagni era prossimo allo spegnimento. Chi non l’aveva fatto per tempo, si ricordò d’aver lasciato sul fuoco prelibatissime pietanze teoriche3 e si dileguò.

Pensammo quindi d’andare a far danno altrove. Memori delle non proprio felicissime sortite precedenti4, provammo a far entrare dalla finestra ciò che, fino a quel momento, non era riuscito a passare nemmeno dalla porta. Filippo Scarpelli iniziò allora la stesura dei primi appunti da sottoporre alla redazione di Invarianti al fine di sollecitare una discussione sugli avvenimenti albanesi. La discussione non ebbe mai luogo5 e gli appunti non vennero più toccati fino a quando l’ipotesi di tradurre il documento dei lionesi non iniziò a prendere corpo. Sulle prime si pensò che le note avrebbero potuto utilmente contrappuntare alcuni passi ritenuti non perfettamente compiuti di Rien n’est permis... Infine, Paola Ferraris, chi scrive ed il recalcitrante autore convennero che, effettuati due o tre lievissimi interventi, il documento poteva anche essere pubblicato così com’era.

Per quanto penalizzato da una limitatissima circolazione, La terra desolata è uno dei pochissimi [non] lavori6 (ho già ricordato che più di un testo è di note ed appunti che si tratta) in cui l’insurrezione albanese è trattata con la serietà che merita, che ne riconosce e sottolinea l’originalità e l’importanza, che sgombra il campo da equivoci confusionisti in cui altri hanno preferito cadere e che, soprattutto, la inserisce molto opportunamente tra le numerose emergenze che, dal Sessantotto in poi, ci rammentano quanto il presente momento storico sia pesantemente rivoluzionario.

Ancora oggi, a cinque anni di distanza, i fatti d’Albania rimangono un momento di grande rilevanza nel quadro delle lotte proletarie recenti. Caso più unico che raro, l’insurrezione albanese s’è scatenata in un luogo che fino all’istante prima era ritenuto più che sicuro e pour cause, minacciato com’era all’esterno dalle milizie regolari o mercenarie che presidiavano l’area, e all’interno dalle cosche mafiose e prossenetiste. Del tutto inattesa, imprevedibile e imprevista, l’insurrezione albanese s’è abbattuta sui locali affari di famiglia. A farne le spese, al di là dei miserabili interessi politici ed economici, sono stati soprattutto i termini perversi e a-dialettici della diade rappresentazione-contemplazione. E questi nessuna forza multinazionale di protezione potrà restaurarli.

In Italia, come un po’ dovunque, tutto ciò non è stato affatto gradito. Non parlo dalla reazione poliziesco-confindustriale, just-in-time come impongono i modi di produzione attuali, quanto di quella dei custodi della sua ideologia. Costoro hanno passato gli eventi albanesi dapprima per le armi della rimozione e della calunnia, li hanno poi cristallizzati nella fissità del modello (negativo, ovviamente) e li hanno, infine, additati come l’esempio stesso di ciò che non andava assolutamente fatto da chi veramente voleva nuocere alla migliore delle società possibili e alle sue epifanie statali e mafiose.

Il livore della sinistra tricolore è tuttavia autentico e proprio per questo va giustificato. Centocinquanta anni di storia della negazione del proletariato e tutti quei ritrovati della sovrapproduzione confutati e liquidati in meno di un attimo da una maggioranza ostinatamente vitale.

Gli stalinisti non cambiano mai: se le cose si mettono male mandano tutto all’aria, sempre. E dovunque: «En France, l’insurrection algérienne a été plus ignorée qu’incomprise, et plus encore qu’ignorée, spontanément méprisée, la fausse conscience ne voyant rien là d’intéressant, tout occupée qu’elle est à scruter les "phénomènes de société" qu’on met en scène à son intention. Quant aux intellectuels, dont certains délégués avaient la naïvité de croire qu’ils pourraient aider a faire connaître le mouvement à l’étranger, ils se sont bien gardés d’en dire quoi que ce soit. [...] Le fond de l’abjection fut atteint avec naturel par Sollers affirmant que toute "dignité humaine" n’était qu’illusion (spectaculaire bien évidemment), puisque de toute façon personne n’allait se "mobiliser pour défendre la révolte kabyle" [...]» (Jaime Semprun, Apologie pour l’insurrection algérienne, Édition de l’Encyclopédie des Niusances, Paris 2001, pp. 58-59)7.

Vorrei fare un passo indietro e tornare all’insurrezione albanese e all’onesta (con il senno di poi) ammissione di Samuele Benzi il quale, nel pieno della rivolta, affermava " Esiste un margine di 20-40 giorni, a far data dalla metà di marzo, oltre il quale la situazione, già compromessa sul piano politico, rischia di essere incontrollabile anche dal punto di vista militare, allorché gli insorti abbiano consolidato un’organizzazione militare ancorché labile. " (Progetto di intervento italiano, "I quaderni speciali di Limes: Albania, emergenza italiana"). Indubbiamente in questo come in molti altri casi, l’esito finale è dipeso soprattutto dalla mancanza di sostegno internazionale; ora, però, non si tratta tanto di raggiungere gli insorti sul campo, ai quattro angoli del pianeta, quanto di avviare anche all’interno un analogo processo di liquidazione del reale, ovvero dell’apparente. La questione che la maggioranza dei potenzialmente interessati ignori sia l’esistenza della cabilia che del processo rivoluzionario attualmente in atto è meno grave del fatto che costoro convergano su Genova e che questo soddisfi, sappiamo come, le loro esigenze di libertà ed espressione.

Indirizzare le masse sul binario morto delle false contestazioni è una risorsa alla quale ultimamente si attinge sempre più di frequente. Questa fase precede quella delle intimidazioni vere e proprie e si rende necessaria quando il rischio di crisi raggiunge la soglia di guardia, ma non solo. È pur vero, però, che un uso così intensivo ha le sue controindicazioni. A Genova, ad esempio, si sapeva che l’allegra coreografia di macchine incendiate e vetrine rotte non sarebbe bastata a riempire i vuoti di un copione logoro e ripetitivo. La passività dei dimostranti, o se si preferisce l’attività coatta, l’assenza di prospettive e di idee, potevano trasformarsi in un pericoloso boomerang: alla lunga, anche ciò che è privo di senso può rappresentare un problema (sarà forse questo il motivo per cui qualcuno è convinto d’avere vinto a Genova). La morte di un uomo, soddisfacendo le attese, ha ristabilito un ordine paradossalmente minato da tanta insulsaggine. Come si vede, per la democrazia spettacolare non è sufficiente aver reso semplicemente impensabile tutto quanto ricada all’esterno del dominio delle apparenze. Gli artisti di sinistra come pure gli esuberi più avvertiti lo sanno: le apparenze vanno alimentate; ma è il Surrealismo di Stato che provvede al vettovagliamento. Ecco allora ineffabili terroristi islamici che si fanno esplodere su autobus zeppi di ebrei e palestinesi, o che (la notizia è di poche ore fa), con l’ingenuità e lo zelo del neofita, sparano alla cieca sulla folla interpretandone, fin troppo alla lettera, l’atto più semplice. E ancora aerei che precipitano su torri (anche in questo caso qualcuno ha parlato di arte). Ma, effettivamente, le torri precipitano su cosa? Poche ore prima dell’undici settembre il rischio più grave che correvano gli Stati Uniti era interno. Esattamente come diversi decenni fa, poiché «... in effetti "la causa più vera è anche la meno confessata"; perché la vera crisi di oggi, e non lo si dice, non è una crisi economica, come per esempio quella che c’è stata nel ’29, e che siamo stati capaci di superare, sappiamo come; la crisi è innanzitutto una crisi dell’economia ...» (Censor, Rapporto veridico sulle ultime opportunità di salvare il capitalismo in Italia, Milano 1975).

NOTE

1. Per ulteriori lumi su questo ed altri punti si rinvia il lettore a «Anacharsis», Una questione privata.

2. Nel tentativo di confermare le menzogne precedentemente fatte circolare sul conto degli albanesi in generale e della rivoluzione in particolare, lungo un arco di tempo approssimativamente pari ad un anno, si dovettero registrare numerosi delitti immancabilmente perpetrati da bande di albanesi. Poco importa chi materialmente li abbia compiuti: la maggioranza degli italiani era, e rimane, effettivamente persuasa che il popolo albanese sia composto in massima parte da mafiosi, delinquenti e puttane. Come volevasi dimostrare.

3. Si trattava in realtà di insipide sbobbe a base, perlopiù, di resoconti aziendali e rassegne stampa.

4. Sono numerosi gli indizi che portano a concludere che per Invarianti il tema della rivoluzione sociale non fosse sufficientemente elevato. Cfr. Una questione privata.

5. Sul costume della redazione di Invarianti in materia di discussioni si veda ancora Una questione privata.

6. A quanto ci è dato sapere l’unico del genere scritto in Italia.

7. «In Francia, l’insurrezione algerina è stata più ignorata che incompresa, e ancor più che ignorata, spontaneamente disprezzata: la falsa coscienza, occupata com’è a scrutare i "fenomeni di società" messi in scena a suo uso e consumo, non vi ha visto nulla di interessante. Quanto agli intellettuali, in cui alcuni delegati hanno avuto l’ingenuità di credere ritenendo che costoro avrebbero potuto contribuire a far conoscere il movimento all’estero, si sono ben guardati dal proferire verbo/parola. [...] Il fondo dell’abiezione fu toccato con naturalezza da Sollers affermando che ogni "dignità umana" non è che illusione (spettacolare, ovviamente) dal momento che in ogni caso nessuno si "sarebbe mobilitato per difendere la rivolta cabila" [...]». Con Apologie pour l’insurrection algérienne Semprun sembra correggere il tiro rispetto ad un fugace ma esplicito riferimento di segno leggermente diverso contenuto all’interno de L’abîme se repeuple: «[...] Car le fond de tout cela, de toutes ces "luttes" pour le service public et le civisme, c’est la réclamation, présentée à la société administrée, de nous éviter les désordres que répand partout la loi du marché, pour laquelle "l’État coûte trop cher". Et comment le pourrait-elle, sinon par des nouvelles coercitions, seules capables de tenir ensemble ces agrégations de folies que sont devenues les sociétés humaines civilisées? Qu’est-ce qui nous protège en effet d’un genre de chaos à l’algérienne ou à l’albanaiese? Certainement pas la solidité des institutions financières, la rationalité des dirigeants, le civisme des dirigés, etc.» (p. 81). Non è perfettamente chiaro a quale tipo di caos alluda Semprun a proposito dell’Algeria, meno dubbio sembra il riferimento all’Albania (L’abîme apparve sul finire della prima metà del ’97), ma in quest’ultimo caso il giudizio non è mai stato corretto.

 

 

 

 

E’ l’ora della guerra sanitaria: tutto ciò che si può fare deve essere fatto

di Paola Ferraris

«Nasce un vitello con un occhio solo. Nurri. (...) Peraltro, nell’unico occhio si evidenziavano tracce di ben tre pupille. Secondo l’équipe dei veterinari l’effetto è dovuto quasi sicuramente alla somministrazione di farmaci al bovino in stato di gravidanza.»

«L’Unione Sarda», 21 settembre 2001

«Usa, muore una cavia umana...»: «Ventiquattrenne, dipendente della John Hopkins, la Roche si era sottoposta su base volontaria a un test per una ricerca sull’asma. Aveva inalato all’inizio di maggio una sostanza sperimentale che in poco tempo aveva portato alla distruzione dei polmoni. (...) non esistevano studi sufficienti sui pericoli della sostanza... né erano stati resi noti gli effetti perniciosi che la stessa sostanza, in dosi minori, aveva provocato su un altro volontario.»; «"Il governo ha preso una decisione affrettata, inutile e paralizzante", hanno tuonato i vertici dell’università, sottolineando come il blocco dei finanziamenti porterà anche all’interruzione delle cure sperimentali per gli ammalati di cancro.»; «E’ opinione diffusa che la Hopkins riuscirà tra poche settimane, tutt’al più tra qualche mese, a riavere i finanziamenti federali.»

«La Repubblica», 21 luglio 2001

Di quel tutto, qualunque esempio è sempre troppo poco, come gli «effetti collaterali» bellici che si fanno apparire di tanto in tanto, dopo aver provveduto a contrapporre loro un nemico al cospetto del quale non sia ammesso indietreggiare di fronte a niente: anzi, «errori» e «incidenti» vengono adesso preannunciati, anticipando l’archiviazione di una quantità indeterminata di scandali che non ci sono più. Quanto agli scandali vecchi di ieri, sono subito superati dalle nuove emergenze della guerra «sanitaria» in senso lato, che esigono il ri-dispiegamento delle stesse armi già dimostratesi poco intelligenti: o troppo, se computate secondo la «razionalità limitata» delle «giustizie infinite» a cui devono mirare, ma di questo ancora si tace. Notizia di questi tempi «post 11 settembre», ora è la minaccia terroristica dell’antrace e di quant’altro sia stato elaborato in casa nostra in senso lato (evidentemente nella speranza di poterne fare qualcosa, dato che si può fare, e sono pronte le adeguate «risorse umane» variamente colorate), quella che ha fatto recuperare le brillanti misure di sicurezza sanitaria consistenti nella vaccinazione coatta dei soldati estesa ora ai civili «esposti al rischio»: e non c’è dubbio, le rivendicazioni dei sindacati saranno esaudite, via via, per tutte quante le categorie. La stessa minaccia, amministrata ai cittadini spettatori in regime di monopolio e di segreto sui test di «positività» all’antrace (meglio ancora che per l’AIDS) dal super-servizio di controllo sanitario americano (CDC, Centers for Disease Control), subito emulato dai suoi omologhi europei, ha già introdotto la «novità» dal sapore antico di lazzaretto e quarantena che consiste nella ospedalizzazione forzata, preceduta o abbinata a massiccia profilassi antibiotica, per chiunque sia solo sospettato di esposizione al contagio, ovvero si sia trovato, a loro discrezione, in un ambiente impolverato. Superando così ogni renitenza a simili cure, quale si era manifestata dopo che sono stati sufficientemente provati (benché mai ammessi) i legami tra il vaccino dell’antrace, sempre lo stesso dal brevetto del 1970, e la sindrome dei reduci dalla guerra del Golfo; come più in generale tra la pluri-vaccinazione (prevedendo il vaiolo, ecc.) e l’immunodepressione: la quale non si dovrà ormai più collegare neppure al trattamento con potenti antibiotici, mentre sarà necessario obliterare qualunque vecchia informazione sul nugolo di infezioni potenziate proprio dall’ambiente «sterile» degli ospedali. Perché è in nome della suprema salvezza «comune» che le agenzie di «protezione civile» assumono il controllo della stessa sopravvivenza e fanno tutto ciò che può essere fatto, come nelle emergenze ormai abbastanza normali da perturbazioni climatiche: essere sfollati e ricoverati a tempo indeterminato non è più un’esclusiva dei migranti, gli ambienti che sono resi inabitabili aumentano un po’ da ogni parte, e le tecniche di gestione dei trasferimenti forzati di gruppi o popolazioni si esercitano in campi molto più vari della massiva movimentazione nazista. Un altro risultato della sola emergenza «bioterrorismo» è il sospetto creato verso le comunicazioni postali, e il controllo selettivo precauzionale inaugurato, quando erano le meno predisposte alla lettura indiscriminata (rispetto ai «sistemi a rete» di trasmissione dati e messaggi) e ancora le più adeguate per i soggetti umani. Come le pecore e tutti i loro derivati alimentari che sono ancora insufficientemente controllati dalle reti di allevamento industriale e di elaborazione «sterile» dei cibi, mentre vengono fatti sospettare di un contagio «di ritorno» da BSE (promossa così a infezione circolare: ovini-bovini-umani-bovini-ovini...), per annunciare una ulteriore campagna europea di sicurezza a base di abbattimento massiccio e divieto alimentare ampliato fino all’ultimo derivato (notizia «In breve» da il manifesto del 14 ottobre): e poco importa se il passaggio all’azione si deve per ora rimandare, perché qualche anello della catena omertosa della «ricerca» britannica è saltato facendo scoprire anche al Financial Times del 20 ottobre che gli scienziati responsabili della nuova emergenza «pecora pazza» avevano esaminato per cinque anni cervelli bovini presi per ovini. Le macchine più o meno oliate che fabbricano così il sospetto verso l’abbacchio, le lettere, come verso i rapporti sessuali, e in definitiva umani, ancora non «messi in sicurezza» al pari delle centrali nucleari, lavorano comunque per il superamento del loro oggetto incriminato, anche se lo fanno con i mezzi più moderni della più arcaica purificazione della «comunità» dagli spiriti maligni e dai loro portatori anche sani, e se mirano a sostituirlo con le forme più avveniristiche della magia nera e dei rifugi cavernicoli: ma soprattutto, al di là di questo o di quell’altro mezzo di vita rimasto alla portata delle scelte storiche dei proletarizzati, lavorano per una «riforma sanitaria» di tutti quanti, dando per scontate le imperfezioni dei risultati e qualunque costo «collaterale».

In epoca di bollettini di guerra contro agenti terroristici improvvisamente riscoperti, e di minacce reali alle residue libertà civili in tutto il mondo, è facile far diventare non-importanti i bollettini di guerra sanitaria che si sono accumulati da almeno vent’anni (dalla scoperta dell’AIDS e poi della «mucca pazza»), in modo tale da non far rilevare la durata già assunta da un’operazione che ha preparato e condivide con la Libertà Duratura non solo l’ossimoro della soluzione finale auspicata, ma anche le condizioni che hanno determinato a proclamare in lungo e in largo l’intera offensiva. Invece non è mai stata così attuale la sintetica analisi di Debord, agli inizi di questa svolta nel modo di governare politica ed economia allo sbando, sul fatto che (dai Commentari sulla società dello spettacolo, 1988, n. XXI) «il dominio è lucido almeno in questo, che si aspetta dalla propria gestione, libera e senza ostacoli, un numero piuttosto elevato di catastrofi di prima grandezza in un futuro imminente, sia sui terreni ecologici, ad esempio chimico, che su quelli economici, ad esempio bancario. Già da qualche tempo si è messo nella situazione di poter trattare tali sciagure eccezionali usando un metodo diverso da quello abituale della mite disinformazione.» E per quel metodo, di cui si vedono ora buone prove nella guerra sanitaria in senso lato, risulta fondamentale la definizione tempestiva dell’«agente patogeno» unico e superiore, eletto inappellabilmente a sostituire l’intera gamma dei «fattori di rischio» disseminati nell’ambiente naturale e sociale, cioè eletto a «nemico»: questa democrazia vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati (Commentari, IX), e ne ha certamente motivo. Perciò la storia educativa dell’AIDS, della BSE, come del terrorismo, e altrettanto degli effetti ancora da battezzare delle modificazioni genetiche o climatiche in corso, è stata scritta da stati e sovrastati tanto quanto sarà riscritta alla bisogna: e di siffatti nemici tali da impegnare le massime intelligenze ed apparati delle tecnoscienze civili e militari, le popolazioni spettatrici non potranno naturalmente sapere tutto, ma potranno sempre saperne abbastanza da essere convinte che, rispetto al male, tutto il resto dovrà sembrar loro abbastanza accettabile, e comunque più razionale e più democratico: qualunque cura.

L’amministrazione più o meno oculata del terrore di catastrofi di cui si sono alimentate le cause, serve dunque all’imposizione di speranze di salvezza, che sono tali soltanto rispetto all’obiettivo di controllare preventivamente quella disperazione che sarebbe socialmente pericolosa; oltre ad avere come corollario più evidente l’effetto di ridare fiato almeno per un po’ all’accumulazione, certo con una selezione fra tutti i capitali bisognosi di quelli in posizione migliore per fare la loro parte, come i gruppi biochimi già ben concentrati e tali da abbracciare bene insieme agricoltura, sanità, e armi. La relativa novità introdotta così dalla guerra sanitaria che falsifica da vent’anni i fattori patogeni, già normalmente prodotti, sotto forma di agenti infettivi eccezionali e dall’origine misteriosa, sta dunque nel non limitarsi a assicurare l’irresponsabilità di produttori, controllori ed esperti di ogni falso «bene» o «male minore» consumato (dissimulandolo col somministrare penitenze più o meno reali a colpevoli selezionati), per servire ancor più a rilanciare ad un livello superiore il ciclo del «tutto ciò che si può fare deve essere fatto»: cioè a somministrare senza più concedere alternative tutti quei controlli e quelle cure sperimentali, mediante cui si tende effettivamente ad una soluzione finale delle possibilità di scelta storica degli esseri umani (e poco male se per questo si deve alzare anche la posta del rischio sulla nuda e cruda sopravvivenza «da difendere»). Tra le popolazioni spettatrici, viene peraltro ammesso che una parte non se la senta ancora di accettare la prospettiva, offerta come tale mentre viene già messa in produzione, di una «riforma» delle specie viventi difficili da controllare per la cosiddetta sicurezza degli alimenti, e dei «caratteri» umani resi inadeguati dalle sempre più pericolose condizioni dell’ambiente: ogni obiettore di coscienza potrà fare comunque la sua parte, alimentando la speranza di prevenire tali estreme misure mediante quel controllo «democratico» su merci e persone che la tracciabilità informatica consente (redenta nella caccia agli agenti patogeni dal suo ruolo pionieristico in quella degli ebrei)1; e contribuendo pure a produrre l’illusione di sottrarsi agli esperimenti con la conquista del diritto al «consenso informato» per un «consumo intelligente».

La posta in gioco nella gestione ricattatoria delle minacce e dei rimedi, verificabile già nei casi della «mucca pazza» e dell’AIDS, consiste infatti nel superare con ogni mezzo a disposizione la soglia di «accettabilità sociale» per quella sopravvivenza del governo e della produzione, che sta trovando ancora uno sbocco nel sottomettersi la sopravvivenza umana con i suoi mezzi e rapporti primari: se proprio in quegli alimenti e rapporti sessuali (o sociali), rimasti legati a una elaborazione storica e ad una mediazione soggettiva più a lungo di altre merci e relazioni, si possono scoprire ora gli agenti portatori di nuove infezioni letali, non si potrà che sperare in una bioingegneria che «riformi» alimentazione quanto riproduzione umana per «sterilizzarle» da quei rischi, consegnandosi intanto alla sperimentazione di controlli e rimedi riciclati il cui fallimento è stato già messo in preventivo. Quanto al «disincanto del mondo» che quella riforma in nome della sopravvivenza può aggravare, gli esperti hanno già consigliato ai decisori di predisporre un rimedio per la nostalgia, costituendo una riserva museale di ambienti, alimenti, e pure rapporti umani «tradizionali», da sottoporre alle garanzie governative in vigore per la conservazione del patrimonio «dell’umanità»: così sterilizzati dalle loro condizioni storiche e sociali di esistenza, da poter essere anche codificati e riprodotti in fac simile industriale per la domanda solvibile di antidoti al sospetto sul progresso. Questo è forse l’aggiornamento più sostanziale rispetto alla gestione totalitaria della sopravvivenza assunta, assai meno sperimentalmente, dall’antico dispotismo orientale, che non doveva e non poteva «innovare».

Quindi, nel dare importanza a teatri d’operazione che sembrano passati in riserva, come quelli delle battaglie contro le «epidemie infettive» battezzate AIDS, BSE e n-CJD (dove le sigle in lingua inglese stanno a denotare i padrini delle neo-sindromi in questione), non basta soltanto denunciare le falsificazioni che hanno autorizzato medicine peggiori dei mali, come hanno fatto a proprio rischio e pericolo pochi ricercatori rimasti ancora tali: dato che potremo sapere sempre troppo tardi quel che veramente succede, ricostruire la storia delle operazioni già mature può valere piuttosto ad indicare come funzionano in generale, e soprattutto dove vanno a parare.

In proposito, un’idea approssimativa la può dare ancora il peana, ormai vecchio di un secolo, alla sterilizzazione della storia umana recitato da Marcelin Berthelot (chimico e insieme uomo di stato repubblicano) nel 1894 sotto forma di discorso augurale presso la Camera sindacale dei prodotti chimici, come segue tradotto per intero dalla tempestiva ripubblicazione da parte di René Riesel2.

Marcelin Berthelot, Nell’anno 2000 (1894)

Signori,

Io vi ringrazio per aver voluto invitarci al vostro banchetto e per aver riunito in questa agape fraterna, sotto la presidenza dell’uomo votato al bene pubblico che è seduto dinanzi a me, i servitori dei laboratori scientifici, tra i quali ho l’onore di collocarmi da quasi mezzo secolo, ed i padroni delle officine industriali, dove si crea la ricchezza nazionale. Con ciò voi avete preteso affermare questa alleanza indissolubile della scienza e dell’industria, che caratterizza le società moderne. Voi ne avete il diritto e il dovere più di ogni altro, dato che le industrie chimiche non sono il frutto spontaneo della natura: sono derivate dal lavoro dell’intelligenza umana.

C’è bisogno di ricordarvi i progressi da voi compiuti durante il secolo che è quasi trascorso? La fabbricazione dell’acido solforico e della soda artificiale, il candeggio e la tintura delle stoffe, lo zucchero di barbabietola, gli alcaloidi terapeutici, il gas da illuminazione, la doratura e l’argentatura, e tante altre invenzioni, dovute ai nostri predecessori? Senza sopravvalutare il nostro lavoro personale, possiamo dichiarare che le invenzioni dell’epoca attuale non sono certo minori: l’elettrochimica trasforma in questo momento la vecchia metallurgia e rivoluziona le sue pratiche secolari; i materiali esplosivi sono perfezionati dai progressi della termochimica e conferiscono all’arte mineraria e a quella della guerra il contributo di energie onnipotenti; la sintesi organica soprattutto, opera della nostra generazione, prodiga le sue meraviglie nell’invenzione di materie coloranti, di profumi, di agenti terapeutici e antisettici.

Ma, per considerevoli che siano questi progressi, ciascuno di noi ne intravede di ben altri: l’avvenire della chimica sarà, non ne dubitate, più grande ancora del suo passato. Lasciate che vi dica a questo proposito quel che io sogno: è bene andare avanti, con l'azione quando si può, ma sempre con il pensiero. E’ la speranza che spinge l’uomo e gli dona l’energia delle grandi azioni; una volta dato l’impulso, se non si realizza sempre quel che si ha previsto, si realizza qualche cosa d’altro, e spesso di più straordinario ancora: chi avrebbe osato annunciare, cent’anni fa, la fotografia ed il telefono?

Lasciate dunque che vi dica i miei sogni: il momento è propizio, è dopo bevuto che ci si fa le confidenze. Si è parlato sovente dello stato futuro delle società umane; io voglio a mia volta immaginarle, come saranno nell’anno 2000: dal punto di vista puramente chimico, ben inteso; noi parliamo chimica a questa tavola.

A quel tempo, non ci sarà più al mondo né agricoltura, né pastori, né contadini: il problema della sussistenza mediante la coltura del suolo sarà stato eliminato dalla chimica! Non ci saranno più miniere di carbone nella terrà, né lavoro sotterraneo, né di conseguenza scioperi di minatori! Il problema dei combustibili sarà stato eliminato, con il concorso della chimica e della fisica. Non ci saranno più né dogane, né protezionismo, né guerre, né frontiere arrossate di sangue umano! La navigazione aerea, con i suoi motori alimentati dalle energie chimiche, avrà relegato queste istituzioni antiquate nel passato! Saremo allora davvero vicini a realizzare i sogni del socialismo... posto che si riesca a scoprire una chimica spirituale, che cambi la natura morale dell’uomo così profondamente come la nostra chimica trasforma la natura materiale!

Ecco un bel po’ di promesse; come realizzarle? E’ quel che cercherò di dirvi.

Il problema fondamentale dell’industria consiste nello scoprire delle fonti di energia inestinguibili e che si rinnovino quasi senza lavoro.

Abbiamo già visto la forza delle braccia umane rimpiazzata da quella del vapore, cioè dall’energia chimica derivata dalla combustione del carbone; ma questo elemento deve essere estratto faticosamente dal seno della terra, e la sua proporzione diminuisce senza sosta. Bisogna trovare di meglio. Ora, il principio di questa invenzione è facile da concepire: bisogna utilizzare il calore solare, bisogna utilizzare il calore centrale del nostro globo. I progressi incessanti della scienza fanno nascere la speranza legittima di captare queste fonti di una energia illimitata. Per captare il calore centrale, ad esempio, basterebbe scavare dei pozzi di 4-5000 metri di profondità: cosa che forse non eccede i mezzi degli ingegneri attuali, e soprattutto quelli degli ingegneri dell’avvenire. Si troverà là il calore, origine di ogni vita e di ogni industria. Così l’acqua raggiungerebbe al fondo di questi pozzi una temperatura elevata e svilupperebbe una pressione capace di far muovere tutte le macchine possibili. La sua distillazione continua produrrebbe quell’acqua pura, esente da microbi, che si ricerca oggi a così gran prezzo, da fontane spesso contaminate. A quella profondità, si avrebbe una fonte di energia sempre rinnovata. Si avrebbe dunque la forza presente dappertutto, su tutti i punti del globo, e passerebbero molte migliaia di secoli prima che essa patisca una diminuzione sensibile.

Ma ritorniamo a bomba, cioè alla chimica. Chi dice fonte di energia termica o elettrica, dice fonte di energia chimica. Con una simile fonte, la fabbricazione di tutti i prodotti chimici diventa facile, economica, in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni punto della superficie del globo.

E’ lì che troveremo la soluzione economica del più grande problema forse che dipenda dalla chimica, quello della fabbricazione dei prodotti alimentari. In linea di principio, è già risolto: la sintesi dei grassi e degli oli è realizzata da quarant’anni, quella degli zuccheri e degli idrati di carbonio si compie ai nostri giorni, e la sintesi dei corpi azotati non è lontana a venire. Così il problema degli alimenti, non dimentichiamolo, è un problema chimico. Il giorno in cui l’energia sarà ottenuta economicamente, non si tarderà molto a fabbricare degli alimenti di tutti i tipi, con il carbonio derivato dall’acido carbonico, con l’idrogeno preso dall’acqua, con l’azoto e l’ossigeno tratti dall’atmosfera. Quello che i vegetali hanno fatto fino ad oggi, con l’aiuto dell’energia derivata dall’universo ambientale, noi lo compiremo e lo compiremo assai meglio, in un modo più esteso e più perfetto di quel che fa la natura: perché tale è la potenza della sintesi chimica.

Verrà un giorno in cui ciascuno porterà con sé per nutrirsi la sua tavoletta azotata, il suo panetto di materia grassa, il suo pezzetto di fecola o di zucchero, il suo flaconcino di spezie aromatiche, adattati al suo gusto personale; tutto ciò fabbricato economicamente e in quantità inesauribili dalle nostre fabbriche; tutto ciò indipendente dalle stagioni irregolari, dalla pioggia, o dalla siccità, dal calore che dissecca le piante, o dal gelo che distrugge la speranza della fruttificazione; tutto ciò finalmente esente da quei microbi patogeni, origine delle epidemie e nemici della vita umana.

Quel giorno, la chimica avrà compiuto nel mondo una rivoluzione radicale, di cui nessuno può calcolare la portata; non ci saranno più né campi coperti di messi, né vigneti, né praterie piene di bestiame. L’uomo ne guadagnerà in dolcezza e in moralità, perché cesserà di vivere mediante la carneficina e la distruzione di creature viventi. Non ci sarà più distinzione fra le regioni fertili e le regioni sterili. Può anche darsi che i deserti di sabbia diventeranno il soggiorno prediletto delle civiltà umane, perché saranno più salubri di questi sedimenti alluvionali impestati e di queste pianure paludose, ingrassate dalla putrefazione, che sono oggi la sede della nostra agricoltura.

In questo impero universale della forza chimica, non crediate che l’arte, la bellezza, il fascino della vita umana siano destinati a scomparire. Se la superficie terrestre cessa di essere utilizzata, come oggi, e lo diciamo a bassa voce, sfigurata, dal lavorìo geometrico dell’agricoltore, essa si ricoprirà allora di verzura, di bosco, di fiori; la terra diventerà un vasto giardino, irrigato dall’effusione di acque sotterranee, dove la razza umana vivrà nell’abbondanza e nella gioia della leggendaria età dell’oro.

Guardatevi bene però dal pensare che vivrà nell’ozio e nella corruzione morale. Il lavoro fa parte della felicità: chi lo sa meglio dei chimici qui presenti? Ora, è stato detto nel libro della Sapienza: «Chi accresce la scienza accresce il lavoro. » Nella futura età dell’oro, ognuno lavorerà più che mai. Ora, l’uomo che lavora è buono, il lavoro è la fonte di ogni virtù. In questo mondo rinnovellato, ciascuno lavorerà con zelo, perché godrà del frutto del suo lavoro; ciascuno troverà in questa remunerazione legittima e integrale, i mezzi per spingere al più alto grado il proprio sviluppo intellettuale, morale ed estetico.

Signori, che questi sogni oppure altri si realizzino, sarà sempre vero dire che la felicità si conquista con l’azione, e nell’azione spinta alla propria massima intensità mediante il dominio della scienza.

Tale è la mia speranza, che essa trionfi del mondo, secondo il vecchio motto cristiano; tale è il vostro ideale comune! E’ quello della Camera sindacale dei prodotti chimici. Io bevo al lavoro, alla giustizia e alla felicità dell’umanità!

[...]

Note

  1. Vedi Edwin Black, L’IBM e l’Olocausto, Rizzoli, Milano 2001.
  2. René Riesel, Aveux complets des véritables mobiles du crime commis au CIRAD le 5 Juin 1999, Éditions de l’Encyclopédie des nuisances, Paris 2001, pp. 94-99. Le traduzioni sono di chi scrive, salvo altra indicazione.

 

 

 

 

Un processo come continuazione delle diverse lotte sugli ogm con diversi mezzi

a cura di Paola Ferraris

Quello in cui René Riesel figura ora come imputato insieme a José Bové ed a Dominique Soullier (tuttora dirigenti della Confédération paysanne da cui Riesel si è ormai da tempo dimesso), dopo il primo tenuto presso il tribunale di Agen nel febbraio 1998 contro gli stessi Bové e Riesel, e Francis Roux, per aver snaturato del mais transgenico della Novartis rendendolo inidoneo alla vendita1, è uno dei pochi processi derivati da azioni di sabotaggio contro le cosiddette sperimentazioni genetiche in agricoltura, reso possibile dal fatto che i promotori hanno rivendicato le proprie azioni, per aver modo di confessare pubblicamente le loro motivazioni. Nessuno si può infatti sognare che dei «piccoli sabotaggi esemplari», per quanto mirati, bastino a far vincere da sola un’avanguardia, manu militari, nella guerra contro il «genio genetico» sedicente civile: ciò non toglie che possano servire, unendo la parola all’azione, a dimostrare la propria posizione e farla conoscere come tale; oppure a proporsi come figura esemplare per un «movimento» di spettatori impegnati al seguito, e aspirare così al riconoscimento dei pubblici poteri come interpreti del ruolo di nemico spettacolare. Queste diverse continuazioni della lotta che aveva trovato un punto in comune si sono contrapposte finora nel processo, implicando diverse definizioni dell’atto compiuto e diversi mezzi impiegati per difenderlo: mentre René Riesel ha rifiutato il dialogo sociale offerto dal tribunale, e dalla scena politico-mediatica in generale, ricercando altri interlocutori con le sue dichiarazioni di principio, diffuse senza soccorso mediatico in decine di migliaia di copie (prima ancora di essere raccolte in pubblicazioni presso le Éditions de l’Encyclopédie des nuisances)2, i suoi coimputati hanno pensato bene di ribattezzare il sabotaggio come «azione civile» di disobbedienza, per farsi avvocati di una sua «legittimazione», ed offrirsi al dibattito come interpreti della vera vocazione della ricerca pubblica, attaccata solo per richiamarla al dovere allorché si mette a «lavorare nell’interesse di qualche gruppo industriale». Anche un simile impegno, da parte di Bové e di tutti i sindacalisti come antimondialisti di sostegno, può comunque non bastare ad ottenere tutti i privilegi inerenti al ruolo di nemico riconosciuto, dati i tempi (e chiunque lo dovrebbe sapere almeno dopo Genova): lo ha potuto rilevare René Riesel già prima della sentenza che il 20 dicembre ha condannato lui e Bové a 6 mesi di prigione irrevocabile in quanto recidivi (lasciando aperto solo il ricorso in cassazione), nella dichiarazione con cui si è ritirato da una scena in cui «Certi perdono la ragione al punto da dimenticare che la funzione dell’istituzione giudiziaria non è di organizzare colloqui o talk show ma, più prosaicamente, di reprimere delitti, in uno stato sociale dato. Che l’esercizio di questo "stato di diritto" si confonda sempre più con uno stato d’eccezione permanente, è un’evidenza, anche se alcuni preferiscono vedervi una "criminalizzazione dei movimenti sociali" che essi pretendono di incarnare»3. Questo vittimismo sempre pronto ad utilizzare come martire anche chi non lo vuole, salvo rassicurare il suo pubblico con l’esibizione dei futili riconoscimenti che pure per questa via può ottenere, dovrebbe avere ormai scoperto le sue carte in modo tale da non poter più ingannare se non chi vuole essere ingannato.

In conclusione, considerando anche solo da questo riassunto per sommi capi4 tutte le operazioni fallaci, ingannevoli, da impostore o da seduttore, insidiose o capziose che hanno concorso da più parti a realizzare i diversi scopi spettacolari assegnati a questo processo, resta difficile capire come René Riesel, che ha saputo finora difendere egregiamente il senso delle proprie azioni da simili falsificazioni, abbia però deplorato quale «ossessiva e sterile teoria del complotto»5 perlomeno metà dei Commentari, quando risultano tutti così pertinenti al caso suo e alle condizioni in cui la critica sociale deve sapere di operare. Niente può comunque cancellare retroattivamente il valore delle dimostrazioni che ha realizzato, proprio come situazioni costruite che si fanno forti del fatto di essere effimere (che non vuol dire affatto senza conseguenze), senza predisporsi una continuazione per via cumulativa e militantesca. Non possiamo sapere se questa è la posizione dei membri della Société contre l’obscurantisme scientiste et le terrorisme industriel, costituita in appoggio di René Riesel e per «far meglio conoscere le posizioni che difende, quali egli le ha espresse con le azioni, la parola e la scrittura, e quali richiedono oggi di essere sviluppate»6: ne riportiamo per ora i contenuti che esprime nella seguente «Dichiarazione».

Considerando:
che è perfettamente illusorio pretendere di lottare contro gli OGM senza lottare contro i fondamenti del mondo che li produce, come fa mostra di fare un cittadinismo postulante, rispettoso dell’Economia e dello Stato,
che il clamore mediatico e la confusione sono fino ad ora riusciti, ivi compreso in occasione del processo di prima istanza l’8 febbraio, ad impedire che il rifiuto radicale del genio genetico
in quanto tale possa chiaramente apparire come la sola ragione conseguente del sabotaggio commesso al CIRAD e di quelli, noti o occultati, che l’hanno seguito,
che la funzione dei cittadinisti,
progressisti attardati che sognano di vedere gli Stati e la tecno-scienza - globalmente integrata all’arsenale e agli interessi del dominio - continuare a vigilare il campo, è su ogni punto determinante in questo occultamento,
che non c’è alcun bisogno di attendere delle conclusioni di esperti di qualunque provenienza per sapere di quali disastri sono portatrici le innovazioni «biotecnologiche» quando, sotto la forma dell’avvelenamento chimico-nucleare del pianeta, le conseguenze e i risultati cumulativi di tecnologie meno ambiziose sono ovunque ingovernabili, oggi e per i secoli a venire,
che la scienza prodotta dalla società industriale e mercantile ha già contribuito a fare della natura terrestre un caos e a
disadattare l’uomo rispetto al proprio mondo,
che quella che si spaccia adesso per una attività scientifica
presentabile consiste soltanto nel tarare delle soglie di tolleranza, nello spostarle progressivamente e nell’acclimatarci, mentalmente e fisiologicamente, a un mondo reso propriamente invivibile, mobilitando tutte le risorse dell’elettronica e della chimica pesante prima ancora delle promesse delle chimere transgeniche,
che questa pretesa scientista al controllo totale della natura, degli uomini e della società non conduce palesemente ad altro che a mutilazioni supplementari ed a disastri aggravati, e che la funzione residuale di questa scienza mercenaria non mira a nient’altro che ad abituarci a tutte le catastrofi future e ad armare i protettori dell’ordine sociale - polizia, eserciti, gruppi d’assistenza psicologica, ecc. - contro gli individui o le popolazioni che dovessero mostrarsi renitenti,
che le catastrofi sono già qui, in abbastanza gran numero e da abbastanza tempo perché sia chiaro che in mancanza dell’estendersi di una lucidità critica sufficiente circa le loro
cause profonde, non porteranno che ad un aumento della sottomissione e alla perdita degli ultimi brandelli di autonomia, in altre parole al bisogno e alla domanda di protezione, dispensata dal potere dello Stato da solo o con l’aiuto dei suoi riservisti, lobbies cittadiniste e altre organizzazioni «non governative»,
Considerando l’atavismo riduzionista della scienza moderna, la sua metodica negligenza delle conseguenze, e il suo disprezzo di tutte le conoscenze non-scientifiche che hanno contribuito all’umanizzazione
in tutte le sue forme e si oppongono ancora come possono a questo estremismo artificializzatore,
Considerando che l’incoscienza scientifica specializzata corrisponde perfettamente all’incoscienza storica dell’Economia politica, l’altra componente essenziale dell’ideologia dominante,
Considerando inoltre che data la vulnerabilità intrinseca del sistema industriale, la disintegrazione sociale planetaria che ha prodotto e il caos che ne risulta, ci si deve attendere che i tempi che arrivano siano quelli del terrorismo industriale e della guerra permanente, sotto l’egida del
Ministero della Paura,
Considerando infine che è solo a partire dall’esercizio collettivo della libertà di pensiero e di critica che potranno formarsi delle comunità capaci di opporsi praticamente alle devastazioni materiali e
intellettuali di questa società mercantile e tecno-industriale,

La Società contro l’oscurantismo scientista e il terrorismo industriale

si propone, senza trascurare l’esame pratico dei risultati dell’attività tecno-scientifica, di passare immediatamente a mettere in causa i suoi princìpi riduttori, senza che si debba vedere in questo una condanna pura e semplice della scienza sperimentale occidentale. Ma nella misura in cui questa è venuta a costituirsi in maniera assoluta ed esclusiva come il crogiolo di ogni conoscenza, vietandosi e vietando ogni bilancio, essa rappresenta nondimeno la forma dominante dell’oscurantismo moderno.
È in nome della libertà di pensare e di scegliere la propria vita contro la sovrasocializzazione totalitaria che si mette in atto che noi chiamiamo ad iniziare la discussione pubblica di queste analisi
(a partire dall’assemblea-dibattito così convocata a Montpellier, il 15 per il 22 novembre).

Note

  1. René Riesel, Déclaration devant le tribunal d’Agen, 3 febbraio 1998, ora in Déclarations sur l’agriculture transgénique et ceux qui prétendent s’y opposer, Éditions de l’Encyclopédie des nuisances, Paris 2000, pp. 79-86: dalla nota finale risulta come «Il 3 febbraio, il procuratore ha chiesto nove mesi di prigione di cui sei col beneficio della condizionale per José Bové e René Riesel, e quattro mesi di cui due con la condizionale per Francis Roux; come pure una caparra di 500.000 franchi sul risarcimento del danno a favore di Novartis. In seduta differita, la sentenza è stata pronunciata il 18 febbraio: otto mesi con la condizionale per José Bové e René Riesel, cinque mesi con la condizionale per Francis Roux. Tutti e tre dovranno versare in solido la caparra di 500.000 franchi in attesa della perizia (le stime anticipate da Novartis vanno da 2,5 a 7 milioni di franchi). Essi vengono pure condannati a versare ognuno 6000 franchi a Novartis; e, oltre al franco simbolico, 3000 franchi all’UD-CFDT del Lot-et-Garonne per "attacco innegabile allo strumento di lavoro", "disorganizzazione dell’impresa (...) perturbando in modo anomalo e grave l’organizzazione della produzione" ed "attentato all’esercizio della libertà di lavoro del personale dell’impresa". I condannati non hanno presentato appello».
  2. Dopo la Déclaration devanti le tribunal d’Agen del ‘98, TILT! ou La recherche scientifique en référé, comunicato diffuso a Montpellier il 12 ottobre 2000, ed Aveux complets des véritables mobiles du crime commis au CIRAD le 5 juin 1999, dell’8 febbraio 2001 (che qui traduciamo, mentre la versione originale è stata pubblicata da Riesel, con lo stesso titolo e seguita da altri documenti relativi al processo, per le Éditions de l’Encyclopédie des nuisances, Paris 2001), sono nati sotto forma di opuscoli indipendenti, riprodotti da altri anche via e-mail e su siti internet.
  3. Dalla dichiarazione, pubblicata per ora (a quanto ne sappiamo) solo nel gruppo di discussione sul sito http://groups.yahoo.com/group/libertari da «Boccadorata» (messaggio n. 14227 del 29 novembre 2001; la dissociazione di Riesel dai metodi «da avanspettacolo» di Bové, e il suo ritiro dall’aula, sono riferiti senza commento anche da Le Monde del 23 novembre.
  4. Per quanto riguarda le manovre degli scienziati, non troppo brillanti se non avessero trovato interlocutori degni di loro (oltre all’imbeccata autocritica ricevuta dai media e al soccorso di tutti gli apparati per la sicurezza del genio genetico), riportiamo in appendice una traduzione del primo comunicato con il quale Riesel gliele ha ritorte contro.
  5. Intervista a Libération, pubblicata il 3 febbraio 2001, e inserita tra i documenti di Aveux complets..., p. 41.
  6. La Dichiarazione che segue è stata diffusa da René Riesel nell’imminenza del processo d’appello del 22 e 23 novembre; una traduzione italiana ne è stata data, il 17 novembre, sempre da «Boccadorata» sul sito citato.

 

 

 

 

Una volta per tutte. Del dover essere o non poter essere situazionisti in tempi Bui



di Leonardo Lippolis

«Ho spesso la sensazione di non aver abbastanza tempo per riflettere; mi sento parte di un meccanismo di produzione in cui non è ben chiaro che cosa sia importante produrre e come. Le sole cose importanti mi sembrano essere la velocità nel lavorare e la quantità di prodotti realizzati.
Si cambia continuamente obiettivo (e questo equivale a dire che non c’è un reale obiettivo), senza nemmeno il tempo di guardare indietro. Meglio così: non corriamo il rischio di accorgerci degli scarsi risultati di tanto affannarsi.»
Piermario Ciani

 

Ad uso e consumo degli scandalizzati blissett e di tutti coloro che sono stati incapaci di cogliere il senso di «Togliti i baffi, ti abbiamo riconosciuto», ne ricapitolo i due punti essenziali: 1) Ricostruire il background controculturale da cui proviene ed è nato il Luther Blissett Project, per far vedere come i suoi innegabili esiti autopubblicitari e carrieristi fossero insiti nel suo DNA. 2) Far conseguentemente vedere come, e soprattutto perché, i LB si siano sentiti in dovere di sparlare in lungo e in largo dei situazionisti, cercando di riscriverne la storia in modo da legittimare la propria esistenza.

Se è vero che «chi tace acconsente», dovrei limitarmi a notare che di tutte le rimostranze che mi sono state fatte - ed in primis l’affannosa sottolineatura di Bui di tutte le presunte imprecisioni della ricostruzione storica del progetto - nessuna ha messo in discussione le mie affermazioni su questi due punti e quindi concludere che forse nessuno ha nulla da obiettare sulla loro verità. Ma visto che Luther Blissett si è permesso di darmi ben dieci lezioni su come diventare situazionista - attraverso, sia detto en passant, un’operazione la cui mediocrità è testimoniata più dalla scarsa fantasia con cui ha recuperato un testo già vecchio, che non dalla tendenza alla mistificazione di basso rango -, mi sia concesso di completare il modesto potlatch blissettiano con due brevi lezioni riassuntive sui suddetti punti.

Una lezione di metodo storiografico

Quanto alla ricostruzione storica del LBP, mi piace prendere spunto dai presunti errori che mi vengono attribuiti da Bui (l’unico reale dei quali - essendo gli altri ampiamente preventivati e messi in conto - sarebbe la confusione dei due Guglielmi, tanto verosimile da rientrare in quei parametri che ho anteposto alla legittimità della ricostruzione nell’avvertenza in calce alla stessa), per notare quanto sia gratificante avere una conferma della cattiva coscienza di chi, proclamatosi massimo teorizzatore e sfruttatore della legittimità dell’intreccio tra realtà e finzione, tra verità e falsità, fa la morale a chi gioca con le sue stesse carte. Com’era ovvio e del tutto prevedibile, i figli illegittimi dell’anonimato sovversivo e della mitopoiesi autopubblicitaria fanno appello alle identità personali e alla verità storica per sconfessare un’operazione che trova altrove il suo senso. Lo stesso Luther Blissett che prima era tutti e nessuno, ovvero un con-dividuo anonimo e senza volto, ora arriva addirittura a scomodare l’orgoglio femminile della fidanzata del Blissett-Guglielmi per tutelare l’identità di quest’ultimo da poco onorevoli confusioni «estetiche».2 Ma chi pretende di far rubare al Mito la marmellata per poi correre alla gonnella della Storia per difendersi da chi l’ha scoperto, dovrebbe leggere meno Toni Negri (che, non a caso, non ha mai rinnegato il cattolicesimo) e più Nietzsche per imparare qualcosa sulla cattiva coscienza e sulla morale.

Basta leggere la suddetta avvertenza posta in calce alla ricostruzione per smontare l’importanza di ogni affannosa puntualizzazione storica e per capire come a me non interessasse affatto fare una cronaca scandalistica e assolutamente vera del LBP, bensì ricostruire una microstoria paradigmatica di un certo mondo, una storia verosimile di un microcosmo reale: «Un caso esemplare della decomposizione della controcultura», come ipotizzava una variante del sottotitolo del testo.

Avendo questa chiara idea in testa, ho coscientemente e volontariamente usato tutto il materiale diffuso da LB negli anni senza preoccuparmi di distinguere troppo il vero dal falso.3 Mi sono insomma messo nella condizione metodologica di tanti storici di fatti lontani che, avendo a disposizione una serie limitata di documenti e non potendo garantire sulla loro autenticità (essi per carenze oggettive, io per il carattere peculiare dell’operazione in se stessa, strutturalmente fondata su dei falsi), usano questo materiale spurio per ricostruire una mentalità (essi di un’epoca, io di un certo ambiente). Chiunque abbia una minima conoscenza delle scuole storiografiche più avanzate - e Bui dovrebbe saperlo essendo un laureato in Storia nonché discepolo delle lezioni di Carlo Ginzburg - sa che quando si vuole ricostruire la storia di una mentalità, una microstoria, ogni documento, soprattutto se falso, assume un valore particolare. In questo senso, che Coleman Healy o Harry Kipper esistano realmente o no (magari con altro nome) è del tutto irrilevante. Essi esistono come prodotti dell’immaginario dei loro creatori ed in quanto tali sono ben più significativi (...personaggi iperrealisti, direbbe uno dei critici d’arte a loro così cari...). Per quel che ne so o che importa al senso del mio lavoro anche Roberto Bui o Stewart Home potrebbero essere personaggi immaginari; quel che importa veramente è che Coleman Healy come Roberto Bui, Harry Kipper come Stewart Home, sono tutti attori mediocri di una farsa che va in scena da decenni, gli interpreti di una commedia dell’arte che ha la sua forza in un canovaccio tanto oliato quanto stantio. Essi si credono inventori di una storia che ha invece bisogno soltanto di figuranti. E se Il formaggio e i vermi era il titolo con cui Ginzburg aveva riassunto la visione del mondo di un contadino del ‘500, lascio alla navigazione tra le frattaglie di cui è cosparsa la mia ricostruzione o ai deliri trash delle pagine di Mind Invaders lo spunto per trovare il degno titolo della microstoria blissettiana.

Questo principio - l’immaginazione come «volontà e rappresentazione» delle persone - fa inoltre giustizia all’appello di Bui e altri blissettiani alla presunta ironia di Home (l’unico aspetto ironico di Home è la sua stessa esistenza) o alle similitudini allegoriche di Baroni per cercare di sganciarsi dall’orizzonte mentale nel quale essi stessi sguazzano. E’ evidente che non ho sostenuto che P-Orridge ha fondato o è stato parte del LBP, ma che ne è un precursore, anzi il precursore più diretto. Non soltanto è del tutto evidente l’eredità blissettiana del metodo di P-Orridge nel costruirsi un’immagine di artista «maledetto» attraverso le varie sfumature di quella tecnica della perversione che Orwell aveva già individuato come lo strumento pubblicitario scelto da Dalì, ma addirittura i Blissett hanno direttamente copiato da P-Orridge e dal suo TOPY la doppia espressione «terrorismo culturale» e «guerriglia psichica» per nobilitare la propria campagna autopubblicitaria di una volontà sovversiva. D’altronde non è certo colpa mia - ma è ben significativo - se Baroni vede nei rituali onanistici (pardon «esoterica performance postale») del TOPY l’allegoria delle vicende blissettiane.



NOTE

1. Questo illuminante brano autobiografico è tratto (p. 247) dall'ultima fatica di un ex-Luther Blissett, Piermario Ciani: un libro di 256 pagine su se stesso pubblicato dalla sua casa editrice (P. Ciani, Dal Great Complotto a Luther Blissett, AAA Edizioni, 2000).
2. Lo stesso Federico Guglielmi non ha potuto testimoniare in prima persona a difesa della propria identità essendo al momento una delle oltre cento tute bianche rimaste ingloriosamente appiedate nel bel mezzo del Messico, dove, in occasione della spedizione organizzata al seguito della parata spettacolare di Marcos, i nostri eroi si sono meritatamente fatti fregare i pullman noleggiati dagli indios.
3. Chi, come Bui, ha visto nel mio saggio il lunghissimo lavoro partorito dalla paranoia di un pro-situ, non si è evidentemente accorto che il 90% del materiale usato per la mia ricostruzione è tratto dai documenti blissettiani ufficiali, e non può neanche sospettare che per tracciare lo scheletro dell'intreccio di quelle vicende mi siano bastati una quindicina di giorni. Prima del marzo 2000 io di Luther Blissett non sapevo niente di più di quanto sapesse qualunque altra persona che in quegli anni si fosse limitata a leggere i giornali. Uniche eredità preziose il libercolo Mind Invaders (acquistato casualmente cinque anni prima e dimenticato su uno scaffale della mia libreria) e Assalto alla cultura (comprato e letto per motivi di studio), che mai avevo pensato di associare fino appunto a quel marzo, quando la mia curiosità (e un'istintiva diffidenza) per la vicenda blissettiana è stata risvegliata dall'articolo comparso in prima pagina di Repubblica in cui se ne annunciava il suicidio. Da allora è bastato procacciarmi un po' di materiale (fornito per lo più da LB stesso via-Internet) e ricombinarlo come un puzzle.