Cassazione 4 marzo 2000 n.2466, Pres.Santojanni, Est. Di Lella, Gagliardo Laura (avv. Stradella e Petracci) c. La Rinascente S.P.A. – Divisione UPIM (avv. Sadar e Ferri), P.M. Palmieri (concl. conformi)

Conferma Tribunale Trieste 20 marzo 1997


In materia di tutela delle lavoratrici madri mentre l’istituto dell’astensione obbligatoria, di cui all’art. 4 della legge n.1204 del 1971, è collegato alla normale evoluzione della gestazione e alla necessità di tutela della donna nelle fasi di maternità che precedono e immediatamente seguono il momento del parto (per cui sotto tale profilo, lo stato di salute e il comportamento della lavoratrice in tale periodo possono risultare indifferenti al datore di lavoro, considerata l’obbligatorietà, in ogni caso, dell’astensione dal lavoro e le ragioni che la giustificano); invece, l’istituto dell’anticipazione del periodo di interdizione dal lavoro di cui all’art. 5, lett.a), della legge n. 1204 del 1971 cit., trova la sua giustificazione in una situazione patologica di accertata insorgenza di complicanze della gestazione nel periodo che precede quello dell’astensione obbligatoria, sicché per esso assumono rilievo non soltanto il concreto stato di salute della lavoratrice (la cui considerazione costituisce il presupposto per l’applicazione dell’istituto e per la determinazione  della sua durata) ma anche il comportamento tenuto dalla lavoratrice  stessa durante il periodo o i periodi di interdizione anticipata dal lavoro in quanto, ove esso sia idoneo ad aggravare le complicanze della gestazione o a ritardarne il superamento, può determinare l’esigenza di rinnovare o prorogare i periodi di interdizione anticipata. (Nella specie la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto legittimo il licenziamento intimato ad una lavoratrice la quale, durante un periodo di interdizione anticipata dal lavoro concessole per un accertato pericolo di aborto, aveva prestato la propria attività lavorativa al di fuori del rapporto di lavoro in un negozio di cui era titolare e che veniva normalmente gestito dalla madre, esponendosi al rischio di compromettere o ritardare il superamento della riscontrata complicanza della gestazione).


Rilevanza dei comportamenti extralavorativi del dipendente nei periodi di sospensione del rapporto di lavoro

 

1. Nel caso esaminato dalla sentenza in epigrafe, una dipendente di un grande magazzino aveva richiesto ed ottenuto la sospensione del proprio rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 5 lett. a) della l. 30 dicembre 1971, n.1204, per diagnosticato pericolo di aborto; tuttavia, durante tale periodo, era stata sorpresa a lavorare in altro esercizio commerciale, di cui era titolare e per questo, previa contestazione dell’addebito, licenziata per giusta causa. L'interessata aveva impugnato il licenziamento asserendo che il pericolo di aborto era stato effettivo e, pertanto, la sospensione del rapporto legittima anche perché il comportamento tenuto in tale periodo doveva considerarsi indifferente per il datore di lavoro, in quanto l’astensione andava parificata a quella dell’art. 4 della medesima legge. (Sull’individuazione della natura dell’astensione ex art. 5 lett. a) come fattispecie a struttura complessa v. Cass. 20 gennaio 2000, n.603, inedita a quanto consta. La normativa è stata recentemente integrata dalla l. 13/3/2000 n.60 sui congedi parentali che non ha tuttavia modificato gli artt. 4 e 5 della l. 30 dicembre 1971 n.1204. In particolare, l’art.3 primo comma della recente legge, modificando l’art. 1 della vecchia normativa, estende ad entrambi i genitori il diritto di astenersi dell'art. 7 anche se l’altro genitore non ne abbia diritto; l’art.3 secondo e quarto comma modifica il suddetto art. 7 stabilendo nuovi termini per le astensioni facoltative; l’art. 4 prevede infine nuove ipotesi di congedo per cause particolari).

La Suprema Corte, invece, ha ritenuto rilevante il comportamento della lavoratrice durante il periodo di astensione ex art. 5 sul presupposto che le due fattispecie siano sostanzialmente diverse, poiché l’una è legata al normale andamento della gravidanza, l’altra a situazioni patologiche che possono essere aggravate dal comportamento della lavoratrice

 

2. La sentenza offre lo spunto per ulteriori riflessioni sulla rilevanza dei comportamenti extralavorativi del prestatore di lavoro nei periodi di sospensione del rapporto.

Dottrina e giurisprudenza hanno sempre affermato che, poiché nelle ipotesi contemplate dall'art. 2110 cc il rapporto di lavoro, pur sospeso, è sempre in corso, restano in vita tutti gli obblighi del prestatore di lavoro, con esclusione di quelli connessi alla prestazione lavorativa (Ichino, Diritto alla riservatezza  e diritto al segreto nel rapporto di lavoro, Milano 1979, 206; Trioni, L’obbligo di fedeltà nel rapporto di lavoro, Milano, 1982 113; Marimpietri, La categoria giurisprudenziale della fedeltà aziendale,  FI, 1990, I, 991. In giurisprudenza Cass. 11 dicembre 1995, n.12686, NGL, 1995, 892; q. Riv., 1996, II, 844 con nota di Faleri; MGL, 1996, 65; GC, 1996, I, 2663; Cass. 17 giugno 1983, n.4179, MGL, 1983, 240 e 1984, 350 con nota Massart; NGL, 1983, 97; Cass. 26 ottobre 1982, n.5618, NGL, 1982, 516; MGL, 1983, 38).

Più problematiche sono le altre questioni legate alla liceità o meno del comportamento extralavorativo del dipendente durante i periodi di sospensione, con riferimento alla lesione della futura capacità di adempiere (Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro in Commentario al Codice civile diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992, 557;  Mancini, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957, 147ss.) e alla frode all’istituto previdenziale ed al datore di lavoro connessa allo svolgimento di altra attività (Del Punta, op. cit., 556-557).

3. In particolare, per la malattia e la gravidanza l’osservanza o meno dei trattamenti terapeutici ed il comportamento del lavoratore durante tali periodi possono essere causa di prolungamenti della patologia e addirittura dell’insorgere di nuove cause di sospensione (Cfr. Cass. 14 dicembre 1991, n.13490, DPL, 1992, 297; GC, 1992, I, 2752; RGL, 1992, II, 465; LPO, 1992, 2231; OGL, 1992, 112; Iprev , 1992, 77; Cass. 6 giugno 1990, n.5407, OGL, 1990, 3, 111; FI, 1991, I, 578; Cass. 14 giugno 1985, n.3578, NGL, 1986, 65; Cass. 8 ottobre 1985, n.4866, GI, 1987, I, 1, 151).

Va ricordato che non possono essere imposti trattamenti sanitari al di fuori dei casi previsti dalla legge (art.32 secondo comma Cost.), e quindi il lavoratore non può essere obbligato ad un trattamento terapeutico diverso da quello da lui prescelto, compreso il diritto di non seguire la medicina tradizionale o di non assumere alcun farmaco.

Tuttavia, come il diritto alle ferie ed ai riposi non può essere pregiudicato in vista del futuro adempimento, anche nel caso di sospensione per malattia esiste un analogo diritto del lavoratore a disporre del proprio tempo libero, sia pure con le limitazioni imposte dall’art.5 l. 20 maggio 1970 n.300.

4. E’ però evidente che non tutti i comportamenti extralavorativi possono essere tutelati dall’ordinamento, essendo necessario contemperare da un lato la libertà del prestatore fuori dal luogo di lavoro, dall’altro l’interesse del datore a che il dipendente sia successivamente in grado di adempiere.

Oltre a limiti specifici imposti in relazione a particolari tipi di rapporti (per il lavoro sportivo v. l’art.4 l.23 marzo 1981 n.91), ne sono stati individuati altri generali che il prestatore di lavoro è tenuto a osservare nei periodi di sospensione del rapporto di lavoro.

Per parte della dottrina il dovere preparatorio all’adempimento del contratto comporterebbe l'obbligo del lavoratore di preservarsi in buona salute durante i periodi di sospensione del rapporto, (Natoli, L’attuazione del rapporto di lavoro, Milano 1984, II, 81; Smuraglia, La persona del prestatore nel rapporto di lavoro, Milano 1967, 99ss).

Per altra parte della dottrina, invece, tali limiti devono essere individuati in base all'obbligo di fedeltà e ai principi di correttezza e buona fede (su cui Tullini, Clausole generali e rapporto di lavoro, Rimini, 1990). Coerentemente, si è individuato il limite del comportamento extralavorativo del dipendente nella concreta possibilità di ritardare l’adempimento futuro (Del Punta, op. cit., 558; Mancini, op. cit., 155ss; Betti, Teoria generale delle obbligazioni,  vol. I, Milano, 1953, 96; Mengoni, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi (studio critico), RDComm., 1954, I, 203; Persiani, Contratto di lavoro e organizzazione, Milano, 1966,  216; Riva Sanseverino, Sospensione per malattia e obbligo di fedeltà, MGL, 1976, 573).

Questa posizione è stata fatta propria anche dalla giurisprudenza che ha abbandonato le rigide posizioni del passato (T. Milano 22 giugno 1981, OGL, 1981, 1101; T. Monza 12 novembre 1980, NGL, 1981, 496; P. Milano 14 maggio 1980, NGL, 1981, 496. In dottrina Bassanelli, L’obbligazione negativa del prestatore di lavoro, RDComm., 1939, I, 359) escludendo l’automatica illiceità dello svolgimento di altra attività lavorativa nei periodi di sospensione purché ciò non configuri una violazione dei doveri del lavoratore, come quello di fedeltà o non concorrenza, o sia incompatibile con la causa di sospensione che debba pertanto presumersi falsa (Cass. 27 aprile 1992, n.5006, RFI, 1992, voce lavoro (Rapporto di), 1590; v. già Cass.16 giugno 1976, n.2244, MGL, 1976, 573).

Quindi, per la dottrina e la giurisprudenza dominante il lavoratore è libero di tenere durante i periodi di sospensione qualunque comportamento, compreso lo svolgimento di altra attività lavorativa, purché non sia in contrasto con specifici doveri, non possa prolungarne la durata o faccia presumere l’inesistenza della causa di sospensione (Cass. 7 giugno 1995, n.6399, LG, 1996, 254; Cass. 22 luglio 1993, n.8165,  RFI 1993, voce lavoro (Rapporto di), 1434; Cass. 14 dicembre 1991, n.14390, cit.; Cass. 17 luglio 1991, n.7915, MGL, 1991, 542; AC, 1991, 1243; Cass. 19 febbraio 1991, n.1747, DPL, 1991, 1491; Cass. 4 settembre 1990, n.9128, NGL, 1990, 811; Cass. 6 giugno 1990, n.5407, cit.; Cass. 5 dicembre 1990, n.11657, NGL, 1991, 320; q. Riv., 1991, II, 828 con nota di Proia; MGL, 1991, 71; Cass. 6 luglio 1988, n.4448, GI, 1989, I, 1, 1380 con nota di Falcone; Cass. 14 giugno 1985, n.3578, cit.. Sull’onere della prova della compatibilità dell’attività svolta con lo stato di malattia v. Cass.21 ottobre 1991, n.11142, RFI, 1991, voce lavoro (Rapporto di), 1240; Cass. 13 aprile 1999, n.3647, inedita. Sulla liceità dell’uso di agenzie private per indagare le attività extralavorative del dipendente in malattia P. Torino 11 agosto 1995, Adamo c. Fergat, in LG, 1996, 73).

In talune ipotesi, tuttavia, operare tale distinzione può essere difficile, come ad esempio quando il comportamento sia effettivamente in grado di ritardare la guarigione ma venga tenuto per motivazioni anch’esse tutelate dall’ordinamento. Può farsi il caso del rifiuto di sottoporsi a determinati trattamenti sanitari per motivi religiosi, come le trasfusioni di sangue per i testimoni di Geova, o della partecipazione ad attività religiose, politiche o sociali che possano effettivamente mettere a repentaglio la ripresa dell’attività lavorativa, come uscire di casa per partecipare ad una funzione religiosa o per votare nonostante le cattive condizioni atmosferiche o per partecipare ad attività di volontariato.

Il diritto del datore di lavoro ad una celere ripresa della capacità lavorativa contrasta in queste ipotesi con il diritto del prestatore, spesso costituzionalmente garantito, di seguire un dato comportamento per motivi moralmente e giuridicamente apprezzabili, per cui il mero ricorso ai principi di fedeltà o di buona fede e correttezza può risultare insoddisfacente per l'esistenza di un diritto di grado superiore del lavoratore.

Può quindi affermarsi che il lavoratore non può tenere nei periodi di sospensione un’attività tale da compromettere una celere ripresa dell’attività lavorativa a meno che questa non sia dovuta a cause che trovino un rilevante fondamento in valori costituzionali. Va notato che il datore di lavoro verrebbe comunque tutelato dall’esistenza di un limite massimo di assenze del lavoratore, cui rimanda lo stesso art. 2110 secondo comma cc.

5. La soluzione adottata nella sentenza in epigrafe appare dunque in linea con il prevalente indirizzo giurisprudenziale. Il comportamento della lavoratrice assume rilievo non in quanto incompatibile con lo stato di gravidanza ma in quanto potenzialmente lesivo dell’interesse del datore ad una ripresa dell’attività lavorativa ed al superamento del periodo di sospensione dal lavoro.

Diversa sarebbe stata probabilmente la soluzione se l’attività fosse stata considerata compatibile con lo stato di gravidanza a rischio della lavoratrice, come ad esempio nel caso di svolgimento di lavoro a domicilio o telelavoro.

La sentenza enuncia inoltre un’importante eccezione chiarendo che il comportamento della lavoratrice durante i periodi di astensione obbligatoria non assume alcun rilievo per il datore di lavoro essendo detti periodi prefissati dalla legge senza che su di essi la lavoratrice possa influire in alcun modo. Ma si tratta di un’eccezione solo in parte apparente, che conferma piuttosto il principio secondo il quale il comportamento extralavorativo del dipendente assumerebbe rilievo solo se sia in grado di incidere sulla ripresa dell’attività lavorativa, rimanendo altrimenti ininfluente per il datore di lavoro.

 

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