LICENZIAMENTI COLLETTIVI, CRISI AZIENDALI
E PICCOLA IMPRESA
1 Le riduzioni di personale nell’impresa minore nella normativa previgente la L.223/91............................................... 2
2 Il campo di applicazione e la disciplina degli accordi interconfederali per le piccole imprese.........................................7
3 L’elaborazione della giurisprudenza e dottrina prima della L. 223/91...........................................................................13
4 I tentativi di tutelare i settori esclusi dal campo di applicazione degli accordi: in particolare l’art.25 L.675/77.............16
5 Lo scenario dopo l’emanazione della L. 223/91............18
6 La direttiva 92/56 e le modifiche alla L.223/91............21
7 Il campo di applicazione della L. 223/91 e l’esclusione dei lavoratori delle piccole imprese....................................................24
8 Il quadro degli interventi di sostegno al reddito dei lavoratori delle piccole imprese....................................................28
9 L’estensione della mobilità non economica....................29
10 I contratti di solidarietà e le misure alternative ai licenziamenti in relazione alle piccole imprese................................31
11 L’esclusione dalla CIGS delle imprese minori e l’estensione alle imprese artigiane con oltre 15 dipendenti................32
12 L’estensione pattizia dell’integrazione salariale nel comparto artigiano.......................................................................34
13.Conclusioni..............................................................37
Licenziamenti collettivi, crisi aziendali
e piccola impresa.
1
Le riduzioni di personale nell’impresa minore nella normativa previgente la
L.223/91.
Con
la legge n. 223/91 sui licenziamenti collettivi giungono a conclusione due linee
evolutive: la prima, volta a tipizzare i motivi del licenziamento collettivo; la
seconda, a procedimentalizzare le scelte operate dall’imprenditore, spostando
il controllo dal momento giudiziario, successivo al licenziamento, a quello
amministrativo e sindacale, che invece lo precede[1].
La
legge, che offre una compiuta regolamentazione dei licenziamenti collettivi,
prevede due distinte ipotesi: l’art.4, che disciplina la messa in mobilità
dei lavoratori già in CIGS e l’art.24, che regola i licenziamenti collettivi
per riduzione di personale[2]
In
questo contesto, nonostante la compiutezza della legge, in entrambe le ipotesi
contemplate rimangono esclusi i licenziamenti operati da imprese con meno di 15
dipendenti.
Infatti,
nei licenziamenti per riduzione di personale ex art.24 tale esclusione é
espressamente indicata dalla legge, che pone quale requisito per
l’applicabilità della norma il limite numerico di quindici dipendenti per
l’impresa che voglia procedere ai licenziamenti. Ma le imprese minori sono
ugualmente escluse dall’ambito di applicazione della messa in mobilità ex
art.4, in quanto tale norma presuppone che vi sia stato un preventivo intervento
di integrazione salariale straordinaria i cui requisiti sono ancora più
restrittivi di quelli della riduzione di personale, poiché il numero dei
dipendenti richiesto, che in nessun caso può essere inferiore a quindici, in
taluni settori é ancora più elevato. Inoltre, in alcuni casi, l’integrazione
salariale é del tutto esclusa o, come nel comparto artigiano, richiede
ulteriori presupposti[3].
Pertanto,
anche dopo la L.223/91, i problemi derivanti dalla mancanza di una
regolamentazione legislativa per i licenziamenti collettivi, che avevano
caratterizzato l’ordinamento italiano prima e dopo l’emanazione della
direttiva 75/129, permangono in relazione alle piccole imprese. Le critiche che
la dottrina non ha risparmiato a quest’aspetto della legge hanno trovato
parziale accoglimento, invece, nella L. 236/93[4].
L’art. 4 della suddetta legge, infatti, estende ai lavoratori licenziati per
giustificato motivo oggettivo da imprese con meno di 15 addetti i benefici non
economici derivanti dall’iscrizione nelle liste di mobilità[5].
Si tratta, evidentemente, di evitare per questi lavoratori un ulteriore ed
ingiustificato svantaggio rispetto a quelli che erano dipendenti da imprese di
maggiori dimensioni: non solo la perdita dell’indennità di mobilità, ma
anche la minore appetibilità sul mercato del lavoro[6].
Un’altra
norma, quella sull’estensione della CIGS alle imprese minori, che avrebbe
potuto rivestire notevole importanza per queste ultime,
non é stata invece convertita nel testo finale della L.236/93[7].
Va
altresì ricordata la norma in materia di contratti di solidarietà per le
imprese artigiane (art.5 ottavo comma), che pure si applica indipendentemente
dalla dimensione aziendale[8].
Ma, nonostante le modifiche apportate alla L. 223/91, l’esclusione delle
piccole imprese dall’ambito di applicazione della legge é rimasta invariata
per la parte relativa ai licenziamenti collettivi.
Permane,
dunque, la necessità, avvertita prima della legge 223/91 per tutte le imprese,
di individuare la disciplina applicabile alle ipotesi di licenziamenti
collettivi non contemplate dalla legge ed in particolare per quelli posti in
essere da imprese con meno di 16 dipendenti[9].Punto
di partenza per l’enucleazione della normativa applicabile a tali fattispecie
deve necessariamente essere l’analisi della disciplina previgente la L.223/91.
Le
fonti normative esistenti prima di tale legge, se a prima vista appaiono
numerose, ad un più attento esame evidenziano la loro natura frammentaria.
Uniche
normative organiche, valide tuttavia per il solo settore industriale, erano
l’accordo interconfederale siglato il 21/4/50 e sottoscritto, con efficacia
retroattiva da tale data, il 20/12/50 e quello del 5/5/65. Il primo, sebbene
reso efficace erga omnes con d.p.r.
14/7/60 n° 1019, fu parzialmente dichiarato incostituzionale per la parte che
prevedeva come obbligatoria la procedura di consultazione sindacale [10].
Già
in precedenza, tuttavia, il d.l.lgt. 21/8/45 n° 523 (provvedimenti a favore dei
lavoratori dell’Alta Italia) e il d.l.lgt. 8/2/46 n° 50 (blocco dei
licenziamenti per i lavoratori dell’Alta Italia) avevano l’uno
temporaneamente bloccato i licenziamenti per il settore industriale, l’altro
consentiti solo a seguito di una procedura sindacale e secondo determinati
criteri[11].
Detti
decreti, di durata limitata nel tempo, verranno sostituiti dall’accordo del
7/8/47 sulle Commissioni interne, in vigore dal 1/9/47 dopo il termine del
blocco dei licenziamenti, che per la prima volta divise in due capi i
licenziamenti per riduzione di personale (capo A art. 3) e quelli individuali
(capo B)[12].
Successivamente, cessata l’efficacia del suddetto accordo il 31/12/48 per la
disdetta dell’organizzazione datoriale, i licenziamenti collettivi furono
disciplinati pattiziamente dagli accordi interconfederali citati i quali, pur
senza darne espressamente una definizione, hanno sempre mantenuto distinti i due
settori, sul presupposto che essi siano sorretti da esigenze diverse[13].
La
nozione di licenziamento collettivo nasce dunque per escluderlo dalle
limitazioni poste ai licenziamenti individuali prima dall’autonomia collettiva
e successivamente dalla legge[14].
Tuttavia, anche gli accordi del 1950 e del 1965 escludevano dal loro campo di
applicazione le imprese al di sotto di un certo numero di dipendenti; inoltre,
essi si applicavano alle sole imprese industriali che aderissero alle
associazioni datoriali firmatarie degli accordi. Dunque, fin dal principio la
dottrina e la giurisprudenza dovettero porsi il problema della disciplina
applicabile alle aree non coperte dagli accordi interconfederali.
Con
l’emanazione della legge 604/66 sui licenziamenti individuali, sebbene
l’art. 11, secondo comma, della legge escludesse espressamente dal suo ambito
di applicazione i licenziamenti collettivi, mutò tuttavia il quadro di
riferimento interpretativo degli accordi interconfederali nonché le conseguenze
in caso di trasformazione del licenziamento da collettivo ad individuale, non più
senza rilievo pratico.
La
dottrina, dopo alcune oscillazioni[15],
si orientò nel senso opposto alla lettera della legge che apparentemente aveva
inteso rendere inapplicabile ai licenziamenti collettivi la disciplina dei
licenziamenti individuali[16].
Infatti,
partendo dalla necessità di tutelare il singolo lavoratore licenziato dal
datore di lavoro nel corso di un licenziamento collettivo qualora il recesso
fosse stato causato da ragioni individuali illegittime, parte della dottrina[17]
giungerà a consentire al lavoratore licenziato nell’ambito di un
licenziamento collettivo di impugnare il recesso ai sensi della L.604/66[18].
Fra
i successivi interventi del legislatore in materia, devono essere segnalate le
numerose norme in tema di CIGS, sulla GEPI, sulla riforma del collocamento[19]
e soprattutto l’art. 25 della L. 675/77, integrato dall’art.2 L.27/7/79 n°301[20].
Di tutte queste norme, di cui alcune tuttora in vigore, é stata segnalata da un
lato la frammentarietà e la disomogeneità, dall’altro il comune
denominatore: rendere rilevanti i motivi del licenziamento e obbligare il datore
di lavoro ad informare la P.A e/o la controparte sindacale delle scelte che si
intendono adottare, operando così un passaggio dal controllo giudiziario a
quello sindacale ed amministrativo o, altrimenti, dalla maggiore prevalenza
dell’art. 4 Cost. sull’art. 41[21].
Tuttavia, tutte queste norme faranno sempre riferimento all’impresa medio -
grande, escludendo dal proprio ambio di applicazione le piccole imprese
Vanno
infine menzionate le due direttive C.E.E. in materia, la n. 129 del 17/2/75 e la
n. 56 del 24/6/92, che parte minoritaria della dottrina riteneva direttamente
applicabile nel nostro paese[22]
ma che, dopo la L. 223/91 e il D.Lgs. 26/5/97 n°151, sono state
formalmente recepite in Italia[23].
2
Il campo di applicazione e la disciplina degli accordi interconfederali per le
piccole imprese.
Come
accennato, la disciplina degli accordi del 1950 e 1965 era valida solo per gli
imprenditori del settore industriale iscritti alle associazioni firmatarie,
tranne che per l’accordo del 1950 che era stato recepito dal D.P.R. 1019/60[24].
Tuttavia, poiché questo Decreto Presidenziale era stato dichiarato illegittimo
dalla Corte Costituzionale nella parte relativa alla obbligatorietà della
procedura di consultazione sindacale[25],
rimanevano in vigore per tutti gli imprenditori, sempre del settore industriale[26],
le sole norme sostanziali ed in particolare quelle degli artt.2 e 4.
Entrambi
gli accordi prevedevano una soglia numerica al di sotto della quale essi non
erano applicabili. In particolare, l’accordo del 1950 aveva riguardo ai datori
di lavoro con oltre 25 dipendenti, mentre per quelli da 10 a 25 era previsto
un semplice esame conciliativo tra il delegato di impresa e la direzione
aziendale (art.3). L’accordo del 1965, invece, si applicava normalmente ai
datori di lavoro con oltre 10 dipendenti, mentre per le imprese nelle quali era
prevista la figura del delegato aziendale, cioè quelle con oltre 5 dipendenti
ai sensi dell’art.2 dell’accordo 18/4/66 sulle Commissioni interne, era
previsto un semplice esame congiunto[27].
Si
vengono così a configurare già prima della L. 223/91 due aree di tutela: una
forte nel settore industriale, cui si applicano integralmente sia le norme degli
accordi sia quelle di creazione giurisprudenziale[28];
una debole per i settori scoperti, in particolare l’edilizia[29],
il commercio e per tutte le imprese industriali al di sotto dei limiti numerici
degli accordi, in cui questi non trovano applicazione[30]
ma nei quali la giurisprudenza prevalente ritiene comunque configurabile un
licenziamento collettivo[31].
Oltre
i menzionati settori dell’edilizia e del commercio, la dottrina e la
giurisprudenza ricomprendono in quest’ultima categoria anche i datori di
lavoro non imprenditori[32],
nonché le imprese con meno di 10 dipendenti ed escluse quindi dagli accordi,
con la conseguenza che il datore di lavoro potrebbe avere interesse a far
dichiarare di volta in volta, a seconda dei casi, collettivo o individuale il
licenziamento[33].
Nei
settori coperti dagli accordi, invece, ex art.4 A.I., il licenziamento
collettivo deve essere qualificato tale dal datore di lavoro che non ha facoltà
di scegliere tra recesso individuale o collettivo[34]
Va
segnalata, tuttavia, un’interpretazione minoritaria per la quale la disciplina
degli accordi, ed in particolare quella valida erga
omnes ex d.p.r. 1019/60, sarebbe applicabile non solo al settore industriale
ma a tutti i campi di attività di cui all’art.2195 primo comma,
ricomprendendo così non solo le industrie di trasformazione ma anche quelle di
prestazione[35].
Venendo
all’esame della disciplina applicabile ai licenziamenti collettivi soggetti
agli accordi interconfederali, oltre all’obbligo di procedura per gli
imprenditori firmatari degli accordi[36],
per gli altri imprenditori industriali trovano applicazione le norme relative
all’obbligo di qualificare collettivo il licenziamento[37]
nonché di riassumere i lavoratori licenziati in caso di nuove assunzioni
(art.4)[38]
e ai criteri di scelta (art.2)[39].
Per
l’accordo del 1950, sul punto esteso erga
omnes a tutti gli imprenditori industriali al di sopra dei limiti numerici
suddetti, i criteri erano: esigenze tecniche e di rendimento, anzianità,
carico di famiglia, situazione economica. L’accordo del 1965, invece, valido
solo per gli imprenditori iscritti, prevedeva invece le esigenze tecniche e
produttive, l’anzianità ed i carichi di famiglia[40].
Inoltre,
sebbene non specificamente indicati negli accordi, fra i criteri di scelta vanno
incluse alcune limitazioni legali previste per le lavoratrici in maternità[41],
per quelli in malattia[42]
e per gli invalidi[43].
Vanno anche segnalate le ipotesi di divieto di licenziamento per causa di
matrimonio e dei lavoratori sindacalisti, che presentano altre peculiarità[44].
Dopo
qualche oscillazione sulla stessa sindacabilità dei licenziamenti collettivi[45],
la giurisprudenza di legittimità si era orientata definitivamente in senso
affermativo[46],
sia pure ritenendo che il giudice non potesse sindacare le scelte del datore di
lavoro ma solo verificare l’esistenza del nesso di causalità[47]
e dei presupposti del licenziamento[48].
Anche sui criteri di scelta adoperati dal datore il sindacato del giudice deve
limitarsi alla verifica del rispetto dei parametri normativi o alla completezza
e coerenza della motivazione, non
essendo ammissibile alcuna ingerenza nel merito delle singole scelte[49].
Per
quanto attiene, poi, alle sanzioni per la violazione della normativa sui
licenziamenti collettivi, la giurisprudenza anteriore alla L. 223/91
distingueva innanzitutto il caso della totale mancanza dei presupposti
sostanziali del licenziamento e dell’omessa qualificazione dello stesso come
collettivo, cui conseguirebbe l’impossibilità di configurare collettivo il
recesso, che pertanto sarebbe individuale fin dal principio, con il conseguente
onere per il datore di giustificare il recesso per giustificato motivo oggettivo[50].
Prima
dell’emanazione della L.604/66 e della L.300/70 al lavoratore licenziato
sarebbe spettato solo il risarcimento dei danni previsto all’art.6
dall’accordo Interconfederale sui licenziamenti individuali del 18/10/50[51].
Successivamente, invece, la mancanza dei presupposti del licenziamento
collettivo e la conseguente
degradazione del recesso ad individuale comporterà l’applicazione della
L.604/66 e della L.300/70, sussistendone i presupposti numerici[52].
Nel
caso di violazioni formali, invece, mentre parte della giurisprudenza
individuava una sorta di conversione del licenziamento da collettivo ad
individuale[53],
altra parte riteneva che ai vizi procedurali si ricollegherebbe la sanzione
dell’inefficacia o il risarcimento del danno[54]. e la sua valutazione alla stregua della disciplina limitatrice dei
licenziamenti individuali[55].
Pertanto,
le imprese minori, che fino alla L.108/90 erano escluse dall’ambito di
applicazione delle leggi limitatrici dei licenziamenti individuali, anche nel
caso in cui fossero soggette alla disciplina degli accordi interconfederali sui
licenziamenti collettivi non erano soggette ad alcuna sanzione.
Queste
ipotesi erano tutt’altro che marginali, se si pensa che prima della L.108/90
la tutela obbligatoria si applicava solo alle imprese con oltre 35 dipendenti,
mentre quella reale era applicabile nelle unità produttive con oltre 15
dipendenti. Pertanto, le imprese industriali con oltre 10 - 15 dipendenti (ma
con meno di 15 lavoratori nell’unità produttiva e di 35 nell’intera
impresa) erano soggette agli accordi interconfederali ma escluse dall’ambito
di applicazione delle normative limitatrici dei licenziamenti individuali.
La
violazione dei criteri di scelta, invece, non comportava l’applicazione della
L. 604/66 né tanto meno dell’art. 18 Statuto, ma il solo risarcimento del
danno per tutte le imprese, indipendentemente dalla loro dimensione[56].
L’entità
di tale risarcimento era ragguagliabile, per parte minoritaria della dottrina e
della giurisprudenza, alle retribuzioni perdute fino alla sentenza oltre quelle
presumibili per l’ulteriore durata del rapporto; la prevalente giurisprudenza,
invece, riteneva che il mancato rispetto dei criteri di scelta comportasse
conseguenze diverse a seconda del grado di stabilità del rapporto coinvolto[57],
il cui onere della prova spettava in ogni caso al lavoratore[58].
Pertanto,
ancora una volta, per le imprese minori escluse dall’ambito di applicazione
delle leggi limitatrici dei licenziamenti individuali, le conseguenze del
mancato rispetto dei criteri erano affidate al libero apprezzamento del giudice[59].
3
L’elaborazione della giurisprudenza e dottrina prima della L.223/91
La
carenza di interventi legislativi ha spinto dottrina e giurisprudenza, in
mancanza di una definizione legale, ad individuare i presupposti necessari per
potersi parlare di licenziamento collettivo[60].
Il problema, naturalmente, era maggiormente avvertito in quei settori ove gli
accordi interconfederali non trovavano applicazione, nonché per definire le
sanzioni alle violazioni delle regole contrattuali di questi ultimi.
Il
sistema vigente anteriormente alla L.223/91 era stato delineato dalle Sezioni
Unite della Cassazione, che avevano individuato i presupposti del licenziamento
collettivo nella pluralità di lavoratori colpiti dal provvedimento di recesso e
nel nesso causale tra i licenziamenti e la volontà del datore di ridimensionare
o comunque trasformare la propria attività[61];
a questi presupposti, si aggiungeva la necessità del rispetto della procedura
sindacale. La mancanza di uno qualunque di questi
elementi avrebbe comportato la qualificazione ab
origine del licenziamento come individuale[62].
E’
la consacrazione della definizione ontologica del licenziamento collettivo che
giurisprudenza e gran parte della dottrina non abbandoneranno più fino
all’emanazione della L. 223/91[63].
Fulcro
di questa separazione di tutele é l’individuazione della fonte dei
licenziamenti collettivi nella scelta imprenditoriale di ridimensionare la
propria impresa, che invece mancherebbe nel licenziamento individuale plurimo
per giustificato motivo oggettivo[64].
In quest’ultimo, infatti, si avrebbe una ristrutturazione qualitativa che,
lasciando immutate le dimensioni dell’azienda, renderebbe superflua la
permanenza di uno o più dipendenti[65].
La giurisprudenza aveva inoltre stabilito, nel precedente regime, che anche un
singolo licenziamento effettuato da una piccola azienda potesse configurare un
licenziamento collettivo[66].
Nell’ambito
di quest’indirizzo maggioritario[67],
in giurisprudenza si erano distinte una corrente restrittiva, che in un primo
tempo aveva riscosso ampi consensi ma era stata oggetto di vivaci critiche in
dottrina[68],
che richiedeva per il licenziamento collettivo un’effettiva e stabile
trasformazione o ridimensionamento della struttura dell’impresa[69];
e un indirizzo, risultato poi prevalente, per il quale era sufficiente anche una
riduzione effettiva e duratura dell’elemento personale, sia pure correlata con
un ridimensionamento aziendale [70].
In
ogni caso, restavano esclusi i licenziamenti tecnologici e quelli per cessazione
di attività che solo con la L. 223/91 saranno ricondotti al loro alveo
naturale, cioè i licenziamenti collettivi[71].
Diversamente
dalla giurisprudenza, la dottrina anteriore alla legge 223/91 aveva assunto fin
dal principio una posizione diversa e per molti aspetti più coerente.
L’orientamento
prevalente, sostenendo la fungibilità tra licenziamento collettivo e
individuale[72]
o comunque che il licenziamento collettivo si riduce ad una somma di
licenziamenti individuali[73],
affermava che ad essere diversa non é la natura dei due tipi di recesso, bensì
le modalità di individuazione dei lavoratori da licenziare, le quali variano a
seconda degli interessi posti in gioco che, nei licenziamenti collettivi,
assumono rilievo collettivo e quindi sociale[74].
Inoltre,
sulla presunta necessità di una riduzione o trasformazione dell’attività
economica dell’impresa e non della mera attività lavorativa[75],
oltre ad avere da tempo segnalato un evidente contrasto con il dato letterale
degli accordi, la dottrina giuslavoristica evidenzierà l’illogicità di
siffatta pretesa. Forse anche per le vivaci critiche dottrinali cui era stata
sottoposta, la giurisprudenza si orienterà a ritenere sufficiente una effettiva
e non transeunte soppressione o riduzione dell’attività di lavoro
nell’impresa[76].
Particolare
interesse suscita oggi, alla luce della L. 223/91, un’autorevole dottrina che
aveva individuato proprio nell’elemento numerico la particolarità del
licenziamento collettivo rispetto a quello individuale. Lo stesso licenziamento
di un singolo lavoratore, si era detto, potrebbe
essere considerato collettivo se ad esso si é giunti riducendo il numero dei
licenziandi a seguito di un accordo[77].
In
pratica, l’elemento caratterizzante il licenziamento collettivo sarebbe
proprio la proporzione tra il numero di lavoratori da licenziare e la forza
lavoro occupata in azienda, cioè la rilevanza sociale del fenomeno o, in altre
parole, la portata degli interessi coinvolti[78].
E’
interessante notare come dopo la L. 223/91 molte di queste affermazioni saranno
fatte proprie dalla prevalente dottrina[79].
4
I tentativi di tutelare i settori esclusi dal campo di applicazione degli
accordi: in particolare l’art.25 L.675/77
In
mancanza di una disciplina legale e contrattuale per i settori non coperti dagli
accordi interconfederali, la dottrina e la giurisprudenza avevano cercato di
individuare quale fosse il regime applicabile a tali fattispecie.
Un
autorevole corrente riteneva che la procedura degli accordi e dei criteri di
scelta potesse essere estesa anche ai settori cui gli accordi interconfederali
per l’industria non trovano applicazione, basandosi sui principi di
correttezza e buona fede vigenti nel nostro ordinamento[80].
Altri autori giungevano alla stessa conclusione considerando la violazione dei
criteri di scelta come un abuso di diritto, comportante la nullità dell’atto
stesso[81]
Seppure
rimasta isolata, merita di essere segnalata una teoria basata sull’art. 25
ultimo comma della L. 675/77, oggi abrogato dalla L.223/91. La norma imponeva
alle aziende dei settori non vincolati da procedure sindacali di comunicare
all’ULPMO i licenziamenti collettivi da effettuare; l’ufficio aveva poi il
compito di dare impulso ad una procedura non ben identificata dalla legge[82].
La
legge, secondo questa dottrina, non sarebbe stata applicabile alle sole imprese
in crisi, ma a tutte quelle di qualsiasi dimensione o settore per le quali non
fossero operanti procedure sindacali. Quindi, in primo luogo, alle imprese
appartenenti a settori non industriali, per le quali la norma era evidentemente
stata pensata; inoltre, anche alle imprese industriali non aderenti alla
Confederazione Generale dell’Industria, alle quali pure gli accordi erano
inapplicabili per la parte relativa alla procedura; infine, alle imprese di
qualunque settore al di sotto dei limiti degli accordi.
L’omissione
della procedura avrebbe prodotto non la conversione del licenziamento da
collettivo ad individuale ma la nullità dell’atto per il difetto di uno dei
presupposti richiesti dalla legge[83].
Si
cercava così di trovare una disciplina applicabile alle imprese fuori del campo
di applicazione degli accordi interconfederali, in particolare nei settori non
industriali e, soprattutto, valida obbligatoriamente per tutti gli imprenditori.
La
giurisprudenza, tuttavia, si orienterà in senso diverso, interpretando
restrittivamente la norma nel senso della sua applicabilità ai soli casi di
imprese in crisi[84].
Oggi
peraltro, a seguito dell’entrata in vigore della L. 223/91, il problema del
mancato rispetto delle procedure fuori dell’ambito di applicazione degli
accordi interconfederali si potrebbe ancora
porre solo per gli imprenditori non vincolati neppure al rispetto della legge.
Tuttavia, l’espressa abrogazione operata dalla L.223/91 dell’art.25u.c.
della L.675/77 non consente più definitivamente il ricorso alle costruzioni
dottrinali sopra delineate.
5.
Lo scenario dopo l’emanazione della L.223/91.
La
L. 223/91, oltre ad una serie di requisiti temporali, sostanziali e numerici, ha
introdotto, per i licenziamenti collettivi, un limite dimensionale, sia pure più
ridotto di quello previsto nella direttiva C.E.E. 75/129: infatti la relativa
disciplina si applica solo nel caso in cui l’impresa occupi più di quindici
dipendenti.[85].
La
legge, forse anche per la lunga gestazione di cui é frutto, non si é limitata
a recepire la direttiva del ‘75, ma ha operato una sistemazione di tutti gli
istituti inerenti i licenziamenti collettivi, la Cassa integrazione ed in
generale la gestione del mercato del lavoro, definendone organicamente gli
equilibri[86].
Lo scopo unificatore della legge si coglie anche nelle numerose abrogazioni,
operate analiticamente, di tutte le previgenti norme che regolavano tali
materie. Infatti espressamente vengono caducate l’art. 2 della L. 301/79 che
aveva aggiunto il 7° comma (cd. comma Venchi Unica) all’art. 25 della L.
675/77: quest’articolo, insieme con il precedente, viene interamente abrogato,
come pure l’art. 8 della L. 1115/68 sulla disoccupazione speciale per i
lavoratori dell’industria[87].
La
principale novità della nuova normativa é stata identificata
nella previsione di una procedura negoziale obbligatoria, incentivando
così la possibilità che la trattativa termini con un accordo[88]
e nel superamento della definizione ontologica di licenziamento collettivo, che
diviene una particolare forma del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo il quale, in talune circostanze, richiede una speciale procedura[89].
Non ci sarebbe dunque distinzione tra licenziamento collettivo e licenziamento
individuale oggettivo plurimo tranne che per la portata degli interessi
coinvolti che può ricavarsi, come probabilmente ha fatto la stessa L. 223/91,
dalla dimensione dell’impresa e dal numero dei licenziamenti[90].Un’ulteriore
conferma può ravvisarsi nella norma della 236/93 che nell’estendere ai
lavoratori delle piccole imprese i benefici non economici della mobilità
richiede che i lavoratori siano stati licenziati per giustificato motivo
oggettivo connesso a trasformazioni o cessazioni di attività o di lavoro. In
pratica ogni diversità terminologica scompare definitivamente ed é lo stesso
legislatore a superare ogni differenziazione che non sia quantitativa tra i due
tipi di licenziamento[91].
La
distinzione ontologica può dunque dirsi definitivamente tramontata[92].
Per la qualificazione del licenziamento come collettivo, la legge prevede
presupposti che solo in parte coincidono con quelli che la giurisprudenza aveva
identificato in passato[93].
Perché l’art. 24 trovi applicazione occorrono infatti dei requisiti
quantitativi e temporali: vi é un requisito soggettivo, un imprenditore con più
di 15 addetti; uno numerico-temporale, 5 licenziamenti in 120 giorni
nell’ambito della stessa provincia[94];
uno causale, corrispondente all’elemento qualitativo che caratterizza il
licenziamento[95].
In linea di principio, i recessi
dovranno essere caratterizzati dall’unicità della causa, cioè, secondo la
lettera della legge, essere “tutti riconducibili alla medesima riduzione o
trasformazione”[96].
Il
requisito temporale, tuttavia, può considerarsi come una sorta di un
presunzione di collegamento causale dettato dal legislatore[97]
e la previsione di un limite minimo numerico per i licenziamenti collettivi
porterà probabilmente in secondo piano la motivazione degli stessi; in presenza
del numero richiesto dal legislatore la normativa scatterà quasi
automaticamente[98].
L’evoluzione giurisprudenziale antecedente alla legge, che aveva identificato
il licenziamento collettivo come fattispecie distinta da quello individuale per
giustificato motivo oggettivo plurimo non per il dato numerico ma per la
diversità dei motivi sembra destinata a capovolgersi nell’impostazione della
legge 223/91[99].
Una
così precisa delimitazione dell’area del licenziamento collettivo cui siano
applicabili le norme della L. 223/91 comporta di conseguenza che tutte le
fattispecie escluse da quest’ambito non possano rientrarvi. La L. 223/91
costituisce un sistema autonomo, anche per le sanzioni ivi previste, e non
permette di trovare all’esterno soluzioni alternative[100].
Appare
altresì superata la questione dei cosiddetti licenziamenti tecnologici che la
giurisprudenza escludeva, sia pure con le diverse sfumature viste prima, mentre
parte della dottrina lo includeva tra i possibili licenziamenti collettivi[101].
L’ampia
nozione utilizzata dal legislatore fa definitivamente propendere per la loro
inclusione nell’ambito dei licenziamenti collettivi[102],
come pure i licenziamenti per cessazione di attività, che vengono espressamente
compresi dall’art.24 secondo comma[103].
6
La direttiva CEE 92/56 e le modifiche alla L.223/91.
La
direttiva C.E.E. del 1975 è stata emendata da quella più recente n°56 del
24/6/92[104],
che, avendo modificato alcuni aspetti della precedente normativa comunitaria,
aveva reso necessario un nuovo adattamento della legislazione nazionale.
Le
novità principali della direttiva riguardano in primo luogo la definizione
stessa di licenziamento collettivo[105],
ampliata a tutti i casi di soppressione di posti di lavoro ad opera del datore
non dipendenti da volontà del lavoratore, quindi anche i prepensionamenti e la
risoluzione consensuale[106].
Altre
novità della direttiva riguardano l’obbligo di informazione e consultazione:
dovranno essere indicare “le misure sociali di accompagnamento ad esempio
quelle volte a favorire la riclassificazione o la riconversione dei lavoratori
licenziati”, con un’evidente somiglianza con il diritto tedesco. La legge
223/91 prevede all’art. 4 terzo comma questa indicazione come un’eventualità,
la direttiva lo configura oggi come un obbligo.
Importante
é poi la previsione per i complessi aziendali multinazionali che vengono, ai
fini del licenziamento collettivo, considerati unitariamente. I ritardi o le
omissioni nelle comunicazioni non potranno essere giustificati dalla mancata
trasmissione dei dati dall’impresa madre alla controllata che operi
concretamente i licenziamenti[107].
Questa previsione é sembrata privilegiare un’ottica esclusivamente nazionale
e dunque, almeno per l’Italia dove lo schermo della personalità giuridica non
é ancora stato scalfito, una dimensione esclusivamente societaria[108].
D’altra parte la stessa previsione potrebbe indicare una sorta di unicità del
gruppo, considerando l’impossibilità di giustificare il mancato ricevimento
dall’impresa madre come un’indifferenza del legislatore comunitario alla
disfunzioni interne al gruppo, considerato dunque unitariamente.
Ai
fini che qui ci interessano, si deve dire che non sono state introdotte
ulteriori differenziazioni per le piccole e medie imprese, per cui la
disposizione del nostro ordinamento, già di migliore favore rispetto alla
normativa comunitaria, non dovrebbe subire modifiche.
Infatti,
le proposte che miravano a differenziare la procedura a seconda delle dimensioni
dell’impresa non hanno trovato accoglimento nel testo finale[109].
Con
maggiore puntualità rispetto alla direttiva 75/129, il legislatore nazionale ha
recepito la direttiva 56/92.
Il
D.Lgs. 151/97, emanato in base alla legge delega comunitaria 6/2/96 n°52,
modifica infatti la L.223/91 adeguandola alla direttiva 56/92, sia introducendo
l’obbligo di ricorrere a misure sociali di sostegno, qualora siano possibili,
sia introducendo nuovi contenuti della comunicazione che le imprese che
intendono avvalersi della procedura di mobilità devono inviare al sindacato[110].
In particolare, vengono aggiunti gli obblighi di comunicare il personale
normalmente occupato e il metodo di calcolo degli incentivi ed integrazioni al
reddito aggiuntivi rispetto a quelli legali. Viene altresì richiesto
l’assolvimento degli obblighi di informazione e consultazione anche nel caso
in cui le procedure siano poste in essere da imprese controllate, qualora
l’avvio della procedura risponda ad una decisione della controllante.
Non
risultano recepiti, invece, sia l’inclusione nel numero dei licenziamenti
necessari all’applicazione della normativa di ogni caso di soppressione del
posto dipendente da scelte del datore di lavoro; sia l’indicazione che
l’inizio della procedura debba avvenire in tempo utile per il sindacato. La
previsione di licenziamenti collettivi provocati da provvedimenti dell’Autorità
Giudiziaria, risulta invece già previsto dall’art.3 L.223/91.
La
prima omissione, indiscutibilmente voluta in quanto non inserita neppure nella
legge comunitaria di delega del 1996, é stata giustificata argomentando che
l’equiparazione delle forme di risoluzione incentivate dei rapporti di lavoro
potrebbero rientrare nel numero dei licenziamenti necessari al raggiungimento
dei limiti numerici richiesti per il licenziamento collettivo solo a patto che
i licenziamenti in senso stretto siano almeno cinque. Si ritiene cioè
che la direttiva abbia voluto escludere e non includere tali recessi dal computo
dei recessi necessari per l’applicazione della direttiva[111].
L’argomentazione
appare convincente in quanto la direttiva del 1992 ha stabilito che le
cessazioni del rapporto di lavoro ad iniziativa del datore sono assimilate ai
licenziamenti “per il calcolo del numero dei licenziamenti previsti dal primo
comma” ma “purché i licenziamenti siano almeno cinque”. Quest’ultimo
inciso si spiega in quanto, diversamente dalla L.223/91, la direttiva del 1975
prevede un numero superiore a cinque (almeno dieci licenziamenti), di cui
evidentemente la modifica del 1992 ha chiarito che almeno cinque debbano essere
licenziamenti in senso stretto, mentre gli altri potrebbero essere altre forme
di riduzione ad iniziativa del datore di lavoro[112].
Poiché la legge del 1991 già prevede il limite minimo di cinque licenziamenti,
l’ordinamento italiano non ha avuto bisogno di alcuna rettifica.
7.
Il campo di applicazione della L.223/91 e l’esclusione dei lavoratori delle
piccole imprese.
L’individuazione
del campo di applicazione della disciplina della L. 223/91 é dunque
fondamentale: solo delineando esattamente l’area esclusa dalla legge 223/91,
infatti, si possono individuare le fattispecie estranee al disposto legislativo,
per le quali occorre enucleare dalle disposizioni esistenti la disciplina
applicabile.
La
norma chiave per delimitare l’ambito di applicazione della disciplina dei
licenziamenti collettivi é, naturalmente, l’art. 24 della legge 223/91.
L’art.4, infatti, richiamando l’ambito di applicazione della CIGS, richiede
limiti numerici superiori.
In
primo luogo, va esaminata la possibilità di estendere o meno la disciplina in
esame ai datori di lavoro non imprenditori. In senso favorevole si potrebbe
richiamare la direttiva C.E.E., recepita dalla legge 223/91, che parla
genericamente di datori di lavoro senza alcuna distinzione[113].
Seguendo un’interpretazione letterale del testo legislativo, invece, si evince
un primo campo di non applicazione della disciplina, diversamente dal precedente
regime, nel quale si riteneva collettivo anche il licenziamento intimato da un
datore di lavoro non imprenditore, sempre in presenza dei requisiti richiesti[114].
Alcune
aree risultano invece completamente escluse, indipendentemente dalla dimensione
dell’impresa e dal numero di licenziamenti. Ad esempio, quelle relative agli
enti pubblici non economici nonché a specifici settori sottoposti a disciplina
in parte pubblicistica, come gli autoferrotranvieri, la cui disciplina é
dettata fondamentalmente dal Regio Decreto 148/1931[115]
o i dipendenti delle imprese esattoriali, ai quali si applicano le norme del
D.P.R. 858/63[116].
Questi settori non rilevano ai nostri fini in quanto assoggettati, anche per le
riduzioni di personale, a normative diverse che garantiscono una parziale
stabilità al rapporto[117].
Le
imprese di navigazione marittima e, per analogia, aerea sono invece escluse
dalla stessa direttiva che testualmente parla degli “equipaggi di navi
marittime”[118],
sebbene parte della dottrina ritenga
diversamente a seguito della estensione della disciplina dei licenziamenti
individuali alle suddette fattispecie[119].
Esplicitamente
esclusi sono invece i licenziamenti per fine lavori edili, ai quali anche in
passato, si riteneva applicabile la legge sui licenziamenti individuali[120];
la cessazione di rapporti di lavoro a termine, compresi probabilmente i
dipendenti in prova e quelli assunti con contratto di formazione e lavoro[121],
nonché i lavoratori stagionali o saltuari di cui alla L. 230/62 e successive
modifiche o le attività previste dai contratti stipulati in base all’art. 23
L. 56/87.
Per
le imprese artigiane, la legge prevede che quelle che abbiano i requisiti
dimensionali richiesti possano rientrare nel campo di applicazione della
normativa e, sia pure a determinate condizioni, godere del trattamento di CIGS[122].
Dubbi
interpretativi sono invece sorti per quanto attiene il computo dei dipendenti e
l’ambito applicativo cui fare riferimento.
Il
numero di 15 dipendenti, in primo luogo, deve secondo alcuni essere collegato al
criterio dettato dall’art. 1 della legge 223/91 e cioè quello dei dipendenti
occupati mediamente nel semestre precedente[123];
secondo altri, invece, deve essere
riferito all’organico oggettivo, inteso come numero di dipendenti normalmente
necessario per lo svolgimento dell’attività lavorativa[124].
In
ogni caso, il computo andrà effettuato al momento dell’avvio della procedura[125].
Per
quanto attiene l’ambito territoriale nel quale calcolare il numero dei
dipendenti dell’impresa[126],
sembra preferibile, sia per la formula legislativa sia per l’analogo richiamo
operato dalla disciplina comunitaria, la tesi che fa riferimento a tutto il
territorio nazionale e non solo a quello provinciale[127].
Il
riferimento all’impresa piuttosto che alla singola unità produttiva, come
accade per i licenziamenti individuali, comporta la possibilità di applicare ai
licenziamenti collettivi la tutela reale anche laddove essa non trovi
applicazione per quelli individuali[128].
Infatti,
sia per i licenziamenti orali che per quelli inefficaci per mancato rispetto
della procedura[129]
nonché per quelli comunque invalidi (quindi con riferimento al caso in cui
manchino presupposti essenziali del licenziamento collettivo e, al caso in cui i
licenziamenti siano annullati per violazione dei criteri di scelta), l’art.5
terzo comma prevede la sanzione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori
indipendentemente dall’esistenza dei requisiti numerici per l’applicazione
di quest’ultimo. La tutela reale troverà dunque applicazione anche in unità
produttive con meno di quindici dipendenti purché l’impresa complessivamente
raggiunga tale limite. Il campo di applicazione della reintegrazione risulta così
ampliato alle imprese da 15 a 60 dipendenti[130].
In
conclusione, le aree non coperte dalla L. 223/91, come modificata dalla L. 236/93,
per le quali si deve ricercare la disciplina applicabile, sono più di una. In
primo piano, il licenziamento collettivo in imprese con meno di 16 dipendenti,
quello attuato dal datore di lavoro non imprenditore indipendentemente dal
numero di dipendenti occupati, quello che colpisce meno di 5 addetti in 120
giorni, calcolati secondo i criteri visti prima. Inoltre, le aree esplicitamente
o implicitamente escluse dall’applicazione della legge.
E’
stato detto che l’effetto forse più rilevante della L. 223/91 é proprio
quello della sua applicabilità generale a tutti i settori, compresi quelli del
commercio e dell’agricoltura, che principalmente avevano causato le sentenze
di condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia della C.E.E.
[131].
I
settori che, come visto, restano esclusi corrispondono per lo più a quelli che
restavano fuori anche dall’ambito di applicazione degli accordi
interconfederali, seppure con delle significative eccezioni: ad esempio, il
numero di quindici dipendenti previsto dalla legge, seppure migliorativo
rispetto alla direttiva, é peggiorativo rispetto all’accordo del 1965 che,
all’art. 3, ne prevede l’applicazione alle imprese industriali con più di
10 dipendenti ed una procedura semplificata per le imprese al di sopra di 5,
senza alcun limite minimo di licenziamenti.
Dalle
ipotesi escluse dalla legge possono enuclearsi quelle che ineriscono alle
imprese minori, distinguibili in due aree principali: da un lato, un’area
“diretta”, cioè le piccole imprese in senso stretto, con meno di 16
dipendenti; dall’altro una “indiretta” cioè i datori di lavoro minori che
appartengono ad aree completamente escluse dalla disciplina.
Il
problema dell’individuazione della disciplina applicabile, pertanto, lungi
dall’essere marginale appare di notevole rilievo proprio per quell’esigenza
di certezza del diritto che la L. 223/91 ha avuto come obiettivo.
8.
Il quadro degli interventi di sostegno al reddito dei lavoratori delle piccole
imprese
L’esclusione delle piccole imprese
dalla disciplina applicabile ai licenziamenti collettivi trova riscontro in
quella delle stesse dai principali strumenti di integrazione del reddito
previsti per i dipendenti delle imprese maggiori.
E’ noto che il settore più tutelato
sia stato, fin dai primi interventi
a sostegno del reddito, quello della grande impresa industriale. La progressiva
estensione ad altri settori di alcuni benefici non ha mai comportato il
superamento di tale originaria impostazione ed ancora oggi gli interventi
statali in settori diversi da quello industriale sono di minore portata sia per
il campo di applicazione più ristretto sia per l’entità del trattamento
erogato.
Tra questi viene in rilievo l’indennità
di disoccupazione ordinaria, prevista per i lavoratori rimasti provvisoriamente
senza lavoro ma che generalmente viene ritenuta applicabile anche ai periodi di
sospensione dal lavoro, purché involontaria, senza necessità di un atto
formale di licenziamento da parte del datore[132].
L’indennità di disoccupazione
ordinaria viene tuttavia corrisposta ai lavoratori dipendenti da imprese di
qualunque genere e dimensione, con le sole eccezione di cui all’art.40 del
R.D.L. 1827/35, purché abbiano maturato un minimo di contributi versati e siano
iscritti al collocamento (art.7 terzo comma DL 86/88 conv. L.160/88). La
prestazione erogata, in passato prevista in misura fissa, é oggi rapportata ad
una percentuale della retribuzione media calcolata secondo determinati parametri
(art.7 commi 1 e 2) e viene erogata per 180 giorni a partire dall’ottavo
successivo al licenziamento (o al trentesimo in caso di dimissioni).
Accanto a questa prestazione presocché
generalizzata, ancorché legata ad una minima anzianità contributiva e comunque
limitata nel tempo, l’altro strumento previsto per alcune tipologie di
lavoratori dipendenti da imprese minori é quello del trattamento ordinario di
Cassa Integrazioni Guadagni.
Tuttavia, tale intervento é stato fin
dalle origini riservato agli operai del solo settore industriale (D.Lgs.Lgt.
788/45), seppure successivamente sia stato esteso ad altre tipologie di imprese[133]
e di lavoratori[134].
Inoltre, la prestazione erogata, sia per la sospensione totale sia per la
riduzione di orario, ha una durata massima di tre mesi, prorogabili fino a
dodici mesi in un biennio[135]
ed é commisurata, come quella della CIGS, all’80% della retribuzione, con il
medesimo massimale previsto per l’integrazione straordinaria[136].
Dunque, analogamente alla disciplina dei
licenziamenti collettivi, anche per gli interventi di sostegno al reddito può
individuarsi da un lato un settore che usufruisce degli interventi più
rilevanti per entità e per durata, come la CIGS e l’indennità di mobilità[137],
oltre che di quelli di minor ampiezza come la CIG ordinaria; da un altro, il
settore della piccola impresa industriale, che usufruisce di interventi meno
rilevanti ma comunque di una qualche portata; da ultimo, la piccola impresa non
industriale, esclusa quasi completamente da ogni forma di tutela del reddito ,
con l’eccezione, a determinate condizioni, della indennità di disoccupazione
ordinaria[138].
9.
L’estensione della mobilità non economica
L’impianto delineato dalla legge 223/91
ha subito fin da subito notevoli innovazioni dovute sia all’aggravarsi della
congiuntura economica ed al conseguente aumento della disoccupazione, sia alla
fase di transizione socio - politica attraversata dal nostro paese.
Ciò ha influito in due direzioni: da un
lato paralizzando a lungo i progetti di riforma del mercato del lavoro che
avrebbero dovuto costituire un naturale completamento alla legge sui
licenziamenti collettivi[139];
dall’altro, imponendo misure di emergenza che non sempre sono andate nella
stessa direzione della legge 223/91[140].
Già con il Decreto Legge 8/10/92 n° 398
erano state previste l’estensione della CIGS alle imprese minori, la
ridefinizione dei contratti di solidarietà difensivi e, successivamente, la
previsione di una serie di misure alternative al licenziamento, spesso
coincidenti con situazioni di emergenza[141].
Si verifica, in pratica, una sorta di
inversione di tendenza per quanto attiene all’uso della CIGS, che ridiviene lo
strumento per “congelare” i licenziamenti il più a lungo possibile.
Tutta questa decretazione di urgenza ha
infine trovato una sistemazione più organica nella legge 236/93[142]
che ha ridisegnato gli incentivi all’occupazione, definendo in primo luogo le
cosiddette aree di declino industriale e intervenendo concretamente in materia
di politica dell’impiego.
Per gli aspetti che interessano in questa
sede, viene in evidenza innanzitutto l’estensione della mobilità non
economica ai lavoratori di imprese anche artigiane o cooperative di produzione e
lavoro, che occupino meno di quindici dipendenti, i quali siano stati licenziati
per giustificato motivo oggettivo.
Prima
dell’emanazione della L. 236/93, invece, i lavoratori licenziati da imprese
minori, esclusi pertanto dalla disciplina del licenziamento collettivo, non
potevano neppure iscriversi alle liste di mobilità. L’art. 4, comma 1° della
L. 236/93, ha esteso la possibilità di iscrizione alle liste di mobilità anche
ai lavoratori licenziati da imprese con meno di 16 dipendenti, nonché da quelle
aventi un numero di dipendenti superiore a 15 ma inferiore comunque a quello
necessario per ottenere l’indennità di mobilità (es. imprese commerciali) ed
infine a tutti i lavoratori comunque licenziati per riduzione di personale che
non possono fruire dell’indennità di mobilità[143],
come gli edili non licenziati per fine lavori e i dipendenti di datori di lavoro
non imprenditori[144].
Non prevedendosi un minimo di dipendenti, anche il lavoratore unico ne potrà
usufruire e, non essendoci nessuna esclusione, la norma deve intendersi valida
per tutti i licenziamenti non ricompresi nella L. 223/91[145].
Si
noti però che l’iscrizione nelle liste di mobilità di queste categorie di
lavoratori non comporta l’estensione di tutti i benefici previsti dalla legge
stessa, bensì solo di quelli non connessi all’indennità di mobilità. Perciò
tali lavoratori non godranno del maggiore incentivo all’assunzione concesso
agli iscritti nelle liste di mobilità, ossia della corresponsione ai datori di
lavoro che li assumono della metà del trattamento economico che sarebbe
spettata al lavoratore (L.223/91, art. 8, comma IV)[146].
10.
I contratti di solidarietà e le misure alternative ai licenziamenti in
relazione alle piccole imprese
I contratti di solidarietà
erano stati introdotti nel nostro ordinamento dall’art.1 della L.19/12/84 n°863,
ma avevano avuto una scarsissima diffusione per la risoluzione delle crisi
aziendali.
La L. 223/91 aveva cercato di
incentivare il ricorso a questa misura alternativa al licenziamento, eliminando
sia il limite all’importo massimo del trattamento di integrazione salariale
erogabile in tale ipotesi sia il sistema di indicizzazioni introdotto dalla L.
427/80.
A seguito delle ulteriori modifiche
apportate dalla L.236/93, è oggi possibile cumulare i benefici dei contratti di
solidarietà difensivi con l’intervento di CIGS, ottenendo una sommatoria di
incentivi che possono costituire per l’azienda una valido contributo al
proprio risanamento.
In presenza
di un accordo di solidarietà, i lavoratori hanno diritto ad un contributo pari
alla metà della retribuzione perduta a seguito della riduzione di orario, per
un periodo massimo di due anni, elevato al 75% prima e ridotto al 60%
dall’art.6 terzo comma della L.510/96. Inoltre, anche le imprese non
rientranti nell’art.1 della 726/94 (in pratica, le imprese non industriali)
ricevono un contributo pari alla metà del monte retributivo da esse non dovuto
per i contratti di solidarietà stipulati (entro il 31/12/95).
A seguito delle modificazioni
introdotte dall’art.5 della L.236/93, possono usufruire di quest’incentivo:
le imprese con oltre quindici dipendenti che non rientrino tuttavia nel campo di
applicazione della CIGS; le aziende alberghiere e termali di qualsiasi
dimensione individuate con decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri
(art. 5, settimo comma); le aziende artigiane di qualsiasi dimensione, qualora
vi sia una normativa sindacale loro applicabile che preveda per i lavoratori con
orario ridotto un’erogazione pari almeno alla metà del contributo pubblico da
parte di un Ente Bilaterale (art.5 ottavo comma)[147],.
Con quest’ultima norma il
legislatore ha inteso valorizzare un’istituzione quasi decennale del settore
artigiano che ha avuto un notevole sviluppo negli ultimi anni.
La dizione originaria della
legge aveva sollevato qualche perplessità in dottrina in quanto si era ritenuto
che la mancata previsione di una erogazione pari almeno alla metà del
contributo pubblico avrebbe giustificato l’intervento pubblico anche in
presenza di un’erogazione minima del Fondo bilaterale privato[148].
Tuttavia, anche a seguito
dell’estensione alle imprese minori dei contratti di solidarietà ed
all’aumento dei benefici connessi all’utilizzo del trattamento, il ricorso a
questo strumento appare ancora assai modesto e certamente inferiore alle
aspettative del legislatore[149].
11. L’esclusione
dalla CIGS delle imprese minori e l’estensione alle imprese artigiane con
oltre 15 dipendenti
Resta invece confermata anche dopo la
riforma della legge 236/93 l’esclusione dal trattamento di integrazione
salariale dei dipendenti delle imprese al di sotto dei limiti numerici previsti
dalla legge a seconda delle tipologie di impresa.
Nei decreti di urgenza erano state
previste una serie di norme che avrebbero potuto avere notevole rilevanza se
fossero state convertite nel testo finale della legge 236/93 e, in particolare,
la proroga ai dipendenti delle piccole imprese della CIG ordinaria[150]
e l’estensione della CIGS alle imprese che occupano da cinque a quindici
dipendenti[151],
nonché ad imprese commerciali di media dimensione (cinquanta dipendenti).
Tuttavia, tali estensioni non
sono state tutte confermate dalla L. 236/93 che, con riferimento alle piccole
imprese, si é limitata a prorogare il trattamento concesso con la decretazione
di urgenza.
Va
invece ricordato l’art.7 sesto comma, che ha esteso la Cassa Integrazione
ordinaria alle imprese da 5 a 50 dipendenti nelle aree depresse per un massimo
di 24 mesi in un triennio, con efficacia fino al 31/12/95[152].
Fino alla legge 223/91 il
comparto artigiano era sempre stato escluso dalle integrazioni salariali,
tradizionalmente riservato al settore industriale. L’art. 12 della legge ha
invece per la prima volta previsto che le imprese artigiane che abbiano i
requisiti occupazionali previsti in via generale, cioè i 15 dipendenti nel
semestre precedente la data di presentazione della richiesta, possano accedere
all’integrazione salariale straordinaria qualora siano collegate ad
un’impresa committente che sia stata ammessa al trattamento di integrazione
salariale e che eserciti un prevalente influsso gestionale sull’impresa
artigiana[153].
Prima della legge quadro
sull’artigianato n°443/85, la previsione avrebbe avuto poco senso, in quanto
ben poche potevano essere le aziende artigiane con oltre 15 dipendenti. Oggi,
invece, la riforma operata nel 1985 ha notevolmente ampliato i limiti
dimensionali delle imprese artigiane, aggiungendovi anche quelle addette alla
produzione di semilavorati, cui particolarmente l’art. 12 L. 223/91 sembra
fare riferimento[154].
In conclusione, sebbene la
disciplina della CIGS sia stata modificata, la principale esclusione, quella
delle imprese con meno di sedici dipendenti, é rimasta invariata. Pertanto, i
dipendenti delle imprese minori restano privi di tutela sia nella fase di crisi
dell’impresa, non accedendo al trattamento di integrazione salariale,
sia nella fase del licenziamento, sia infine in quella successiva, con
l’unica eccezione dell’iscrizione nelle liste di mobilità.
12. L’estensione
pattizia dell’integrazione salariale nel comparto artigiano
Tradizionalmente le
integrazioni salariali, sia straordinarie che ordinarie, sono dunque applicabili
alle sole imprese industriali, lasciando così privi di tutela tutti gli altri
settori indipendentemente dal numero di dipendenti occupati. Quest’impianto
originario é stato progressivamente modificato nel tempo, allargando il campo
delle integrazioni salariali a settori diversi, anche se spesso con requisiti
dimensionali superiori. La stessa L.223/91 ha ulteriormente esteso il campo
della CIGS a comparti, quale quello artigiano, che erano sempre stati esclusi da
tale trattamento, ma solo per le imprese con oltre quindici dipendenti.
Pertanto, tali settori
esclusi, con l’eccezione di specifiche categorie come quella edile, non
avevano neppure potuto usufruire delle modifiche alla disciplina del trattamento
ordinario, come la parificazione tra operai ed impiegati e l’eliminazione del
tetto massimo di intervento ordinario per i primi sei mesi (art.14 primo comma)[155].
La contrattazione collettiva
del comparto artigiano, tuttavia, aveva supplito
alla carenza legislativa con la costituzione di un apposito fondo, sul genere
della Cassa Edile[156],
destinato ad erogare un trattamento di sostegno al reddito dei lavoratori delle
imprese che abbiano dovuto sospendere l’attività per determinati eventi[157].
Questo sistema era stato
introdotto nel settore artigiano dall’art.4 dell’Accordo Interconfederale
21/12/83, sulla scia di alcune esperienze settoriali; successivamente, con
l’accordo interconfederale 27/2/87 e del 21/7/88 modificato il 22/6/93, é
stato previsto che tali enti siano costituiti a livello regionale e con
struttura intercategoriale. Sebbene l’accordo nazionale prevedesse erogazioni
solo in ipotesi del tutto peculiari, la contrattazione regionale ha quasi
ovunque generalizzato l’intervento anche nelle ipotesi di sospensione dal
lavoro per crisi aziendali e di settore.
Tali enti, di istituzione
ormai non più recentissima, dagli anni ‘90 in avanti hanno avuto uno sviluppo
notevolissimo, tanto da destare l’interesse del legislatore che, in varie
norme, ha fatto riferimento a questa istituzione[158].
Grande interesse suscita altresì la previsione di un Fondo
per le relazioni sindacali e per la formazione teorica, individuati come una
possibilità di concreta formazione professionale e dunque uno strumento contro
la disoccupazione[159].
Più in dettaglio, il
sostegno al reddito, che costituisce il fine originario e fondamentale
dell’ente, viene realizzato mediante un apposito Fondo Bilaterale denominato Fondo
per la salvaguardia del patrimonio di professionalità di lavoro dipendente ed
imprenditoriale delle imprese artigiane,[160]
che eroga trattamenti sia ai lavoratori sia alle imprese. Le prestazioni erogate
ai primi sono tanto di carattere assistenziale e previdenziale (l’integrazione
dell’indennità di disoccupazione ordinaria, interventi di formazione, cure
termali, prestazioni sanitarie) quanto sociali (borse di studio, indumenti di
lavoro, etc.). Per le imprese, invece, sono previste provvidenze in materia di
sicurezza e in caso di sospensione dell’attività per eventi di forza
maggiore.
Gli interventi che
maggiormente vengono in rilievo in questa sede sono, naturalmente, quelli
previsti per le ipotesi di sospensione o riduzione dell’attività[161].
Come detto, già l’Accordo Interconfederale prevedeva come causali di
intervento il caso di eventi di forza maggiore che provocassero la sospensione o
la riduzione dell’attività lavorativa. In tali casi, l’ente interviene
erogando un trattamento sia a favore dei lavoratori, integrando l’indennità
di disoccupazione ordinaria, sia a vantaggio delle imprese. Ampliando tali
casistiche, quasi tutti gli enti bilaterali regionali hanno previsto, accanto a
queste “cause integrabili”, altre ipotesi quali la sospensione o la
riduzione dell’attività lavorativa o il ricorso ai contratti di solidarietà.
Grazie a questo intervento, i dipendenti di imprese artigiane possono cumulare
l’indennità di disoccupazione ordinaria o il trattamento previsto per i
contratti di solidarietà con il trattamento mutualistico dell’ente,
garantendosi così una prestazione che, seppur limitata nel tempo, può giungere
al 70% della retribuzione perduta nel primo caso ed anche oltre nel secondo.
Anzi, poiché il trattamento previsto dall’ente non é soggetto a massimale,
il trattamento può in taluni casi superare quello della cassa integrazione[162].
Seppure appaia prematuro
azzardare previsioni sullo sviluppo di questi enti bilaterali, non può non
riconoscere alla contrattazione collettiva artigiana il merito
di avere sperimentato uno strumento di integrazione del reddito per i
settori lasciati scoperti dal legislatore che appare oggi la possibile soluzione
all’attuale crisi del sistema assistenziale italiano.
13.
Conclusioni.
Chiariti
dunque quali siano le aree non coperte dalla legge 223/91, occorre ora valutare
le norme che risulteranno applicabili ai recessi operati da datori di lavoro cui
per natura, dimensioni o caratteristiche del recesso non si applichi la
procedura prevista dalla 223/91.
Da
un punto di vista esclusivamente teorico, il problema potrebbe dirsi superato
accettando la tesi, prevalente ormai dopo il recepimento della direttiva C.E.E.
75/129, del superamento della distinzione ontologica tra licenziamento
individuale oggettivo (plurimo) e licenziamento collettivo[163].
Questa,
peraltro, emerge ormai anche quasi testualmente dal nostro ordinamento. La legge
236/93, infatti, nell’estendere i benefici non economici della mobilità ai
lavoratori dipendenti da imprese minori che effettuino licenziamenti per
giustificato motivo oggettivo connessi con una riduzione, trasformazione o
cessazione di attività conferma l’equivalenza dei presupposti fissati
dall’art. 4 L. 223/91 e quelli dell’art. 3 L. 604/66[164].
E’ dunque palese che le due nozioni coincidono anche se l’ordinamento, in
particolari condizioni, impone una procedura specifica; negli altri casi,
l’imprenditore non sarà vincolato da procedure e criteri di scelta per poter
effettuare riduzione di personale[165].
Peraltro, detti casi coincidono quasi completamente con i licenziamenti
collettivi nella piccola impresa.
E’
stato ritenuto che, non ricorrendo i requisiti della L. 223/91, si avrebbe un
licenziamento individuale (plurimo) per giustificato motivo oggettivo, con
conseguente inapplicabilità non solo della procedura di cui alla L. 223/91,
ovviamente, ma anche di altre eventuali norme applicabili ai licenziamenti
collettivi[166].
Ma
questa interpretazione non può essere condivisa in quanto ripropone in chiave
nuova la distinzione ontologica tra licenziamento individuale e collettivo,
superata come visto da dottrina e giurisprudenza. Permane, pertnto, la necessità
di individuare la disciplina applicabile alle ipotesi di licenziamenti
collettivi non rientranti nell’ambito di applicazione della L.223/91.
Il
primo problema che l’individuazione di aree non coperte dalla legge 223/91
comporta é quello dell’inapplicabilità della procedura e dei criteri di
scelta.
In
Italia, la perdurante vigenza degli accordi interconfederali permetterebbe, per
le aree coperte del settore industriale, di fare operare la procedura ivi
prevista nonché di applicarne i criteri di scelta[167].
Questi vengono da una consistente dottrina e giurisprudenza ritenuti comunque
applicabili, sulla scorta dei principi di correttezza e buona fede, anche ai
settori non coperti dagli accordi interconfederali[168].
I
lavoratori delle piccole imprese, dunque, già svantaggiati dalla non
applicabilità della normativa sulla CIGS e sulla mobilità, almeno per la parte
economica dopo la 236/93, potrebbero non subire l’ulteriore discriminazione
dell’inapplicabilità dei criteri di scelta.
Contrariamente,
parte della dottrina ha ritenuto che tutta la precedente normativa sia
contrattuale sia legale debba ritenersi, ove non esplicitamente, implicitamente
abrogata dalla L. 223/91, in quanto le ipotesi in cui esse troverebbero ancora
applicazione sarebbero così marginali da non giustificare la perdurante vigenza
di un regime così complesso. Inoltre, l’unica reale differenza consisterebbe
in quella procedura sindacale di consultazione che sarebbe tuttavia vincolante
solo in casi particolari, cioè per gli imprenditori industriali iscritti alle
associazioni stipulanti che abbiano da 5 a 15 dipendenti o che ne licenzino meno
di 5[169].
Tuttavia,
tale implicita abrogazione della vecchia normativa legale e contrattuale non
sembra sostenibile[170].
Infatti, a prescindere dalla possibilità di abrogare con una legge un accordo
sindacale non disdettato dalle parti, in violazione del principio di libertà
sindacale, l’unica norma legale di un certo rilievo per i licenziamenti
collettivi resta proprio l’accordo del 1950 recepito nel d.p.r. 1019/60 che, a
differenza di altre norme come l’art. 25 della L. 675/75, non é stato
abrogato dalla L.223/91[171],
a meno di non accedere alla tesi minoritaria che lo ritiene superato dal
successivo accordo del 1965[172].
Oltre
il problema della procedura e dei criteri di scelta, per le ipotesi escluse
dalla L. 223/91 sorge il problema della disciplina sostanziale applicabile, che
é contiguo a quello del superamento della nozione ontologica[173].
In mancanza dei presupposti del licenziamento collettivo scatterebbe
automaticamente l’obbligo di giustificare i licenziamenti alla luce della L.
604/66[174].
Ad
un più attento esame, tuttavia, appare evidente che queste problematiche sono
solo in apparenza consistenti. In effetti, dopo l’emanazione della L. 108/90,
pressoché tutti i licenziamenti che non ricadono nell’ambito della L. 223/91
rientrano senz’altro nella disciplina limitatrice dei licenziamenti
individuali. In questa, per di più, oltre ai principi validi in entrambe le
discipline, troverà applicazione il principio del cosiddetto “repêchage”
che la giurisprudenza riteneva applicabili ai soli licenziamenti individuali e
non anche a quelli collettivi[175].
Si
può dunque tentare una ricostruzione della disciplina applicabile ai
licenziamenti collettivi nella piccola impresa evidenziando, in primo luogo, che
l’art.11 della L.604/66 esclude esplicitamente i licenziamenti collettivi dal
proprio ambito di applicazione. Ma quali sono i licenziamenti collettivi esclusi
dalla legge del 1966? La risposta é data ora dall’art.24 della L.223/91 che
al quinto comma afferma “i licenziamenti collettivi di cui all’art.11
L.604/66 sono disciplinati dal presente articolo”[176].
Dunque
tra i licenziamenti individuali e quelli collettivi non vi é soluzione di
continuità, non vi sono spazi in cui non operi la legge sui licenziamenti
individuali o quella sui licenziamenti collettivi.
Tuttavia,
non é escluso che non vi siano licenziamenti collettivi al di fuori della
L.223/91.
Lo
si può argomentare a contrario dall’art.24 L.223/91, che, affermando che “La
materia dei licenziamenti collettivi di cui all’art.11...” é disciplinata
dalla legge del 1991, sottintende la possibilità che vi siano altri
licenziamenti collettivi che non rientrano in tale legge ma che restano nel
campo di applicazione della L.604/66.
In
realtà, la L. 223/91 non definisce espressamente, a differenza della direttiva
C.E.E. 75/129 come modificata dalla 92/56 del 24/6/92, la fattispecie del
licenziamento collettivo, bensì individua le ipotesi in cui occorrerà
applicare la procedura di cui all’art.1 della legge a causa della particolare
rilevanza sociale dei recessi.
Questa
é identificata e presupposta dal legislatore sia facendo riferimento alle
dimensioni dell’impresa (e non quindi dell’unità produttiva) sia al numero
dei licenziamenti da effettuare in un’area ristretta. La rilevanza collettiva
esiste anche per i licenziamenti ex art. 4 il quale, pur non ponendo limiti
quantitativi, si richiama alla disciplina della Cassa Integrazione Guadagni
Straordinaria ed ai limiti numerici ivi presupposti.[177]
Ai
licenziamenti collettivi non rientranti nella L.223/91 si applicheranno, anche
in virtù del disposto dell’art.12 L.604/66, sia le norme della legge sui
licenziamenti individuali sia quelle degli accordi interconfederali, se
l’impresa rientra nel campo di applicazione di questi ultimi, sia, infine, le
norme ed i principi che la giurisprudenza anteriore alla L.223/91 aveva
elaborato.
Da
quanto detto finora, può trarsi una prima considerazione e cioè quella di un
obbligo generale di consultazione nell’ipotesi di licenziamento, che diviene
più complesso nel caso in cui il recesso investa una pluralità di lavoratori e
derivi da un’impresa di una certa dimensione[178].
Anche
altri elementi conducono alla stessa conclusione: il tentativo di conciliazione
di cui all’art. 5 della L. 108/90, sia pure nell’interpretazione restrittiva
datane dalla Corte Costituzionale[179],
che introduce una sorta di procedura per i licenziamenti individuali per la
piccola impresa; la perdurante vigenza degli accordi interconfederali per i
licenziamenti collettivi; alcune pronunce giurisprudenziali che estendono a
tutti i datori di lavoro iscritti e non, anche non appartenenti al settore
industriale, l’obbligo della procedura degli accordi e che considerano la
procedura stessa requisito di efficacia se non elemento costitutivo del
licenziamento collettivo[180].
Il parallelismo
tra le due aree appare ancora più evidente se si considera che forma e termini
dell’impugnazione dei recessi nonché le sanzioni per vizi formali sono uguali
e comportano le medesime conseguenze nella piccola come nella grande impresa,
nel licenziamento individuale come in quello collettivo[181].
Inoltre, é
evidente che, sebbene il licenziamento collettivo intimato dal datore in
presenza dei requisiti dell’art.24 non possa essere qualificato dal giudice
come individuale, sul piano pratico non vi
sono conseguenze di rilievo. Infatti, oltre all’identità degli obblighi di
forma ed impugnazione del recesso nonché delle relative sanzioni, sussisterà
in entrambi i casi l’onere per il datore di lavoro di giustificare il
licenziamento: un onere che nei licenziamenti individuali prende il nome di
giustificato motivo oggettivo, ma che é identico a quello di motivare il
licenziamento collettivo[182].
Ulteriore
argomento può essere considerato l’estensione dell’area di operatività dei
licenziamenti collettivi anche alle ipotesi di cessazione totale di azienda, che
viene così ad essere assoggettata al regime dei licenziamenti individuali o
collettivi a seconda della dimensione aziendale[183].
A
ben vedere, dunque, tutti i licenziamenti nella piccola impresa richiedono una
procedura, sia pure minima. Infatti, o l’impresa é assoggettata al regime
degli accordi ed alla relativa procedura[184]
o non lo é ma é comunque soggetta al regime della L. 108/90 ed in particolare
all’obbligo di forma scritta e motivazione nonché al tentativo di
conciliazione dell’art. 5 (come naturalmente anche nel primo caso). E’ una
ricostruzione, questa, che si collega a quella della dottrina che aveva cercato
in passato di individuare un siffatto
principio nell’abrogato art. 25 L. 675/75[185].
Interessante
appare in questa linea una minoritaria giurisprudenza secondo cui nelle aziende
di piccole dimensioni, i licenziamenti per riduzione di personale sono
effettuabili senza dovere ricorrere alle ordinarie procedure di consultazione
sindacale, ma esplicando un semplice esame conciliativo con il delegato
d’impresa, mentre qualora manchi tale delegato d’impresa e ogni altro
rappresentante sindacale, si ricorrerà ad una procedura consistente nella
preventiva convocazione di tutte le maestranze per informarle della necessità
di procedere ad una riduzione di personale[186].
Tuttavia l’estendibilità di questo principio a tutte le ipotesi in cui il
datore non dia luogo volontariamente ad una procedura appare problematica, poiché
non vi é alcuna norma né legale né contrattuale che gli imponga di farlo.
In
quest’ottica, la reale scriminante potrebbe divenire l’aspetto economico cioè
non l’assoggettamento o meno ad una procedura ma la separazione tra area
assistita ed area non assistita a seconda delle dimensioni dell’impresa[187].
Una tendenza
comunitaria in tal senso sarebbe potuta emergere dalla nuova direttiva 24/6/92 n°56[188]
se fosse stata accolta la proposta che stemperava per le imprese di minori
dimensioni gli obblighi della direttiva[189].
In
questa direzione sembra invece muoversi la legislazione comunitaria in tema di
interventi di sostegno alle piccole e medie imprese, recepita in Italia con il
D.M. 18/9/97, che definisce medie imprese quelle con meno di 250 dipendenti,
aventi un fatturato non superiore a 40 milioni di ECU e una partecipazione al
proprio capitale sociale o con diritto di voto non superiore al 25% da parte di
una sola impresa o da più imprese non rientranti nella nozione di piccola e
media impresa. Piccole imprese sono, invece, quelle con meno di 50 dipendenti,
un fatturato inferiore a 7 milioni di ECU o un bilancio annuo di 5 milioni di
ECU e aventi il medesimo requisito di indipendenza delle medie imprese[190].
Tuttavia,
il limite di 50 dipendenti previsto dalla normativa comunitaria e da quella
nazionale di recepimento appare troppo alto per favorire realmente le imprese di
minori dimensioni, non in grado di competere con quelle più grandi rientranti
comunque nella definizione di piccola impresa comunitaria. Pertanto, a fianco
della definizione vista sopra di piccola impresa, é stata aggiunta quella di
microimpresa, definita come la piccola impresa che, oltre ad avere i requisiti
del fatturato, del totale di bilancio e dell’indipendenza propri di una
piccola impresa, occupi meno di dieci dipendenti[191].
In conclusione,
può trarsi un quadro abbastanza definito della materia.
In primo luogo,
la L. 223/91 non definisce il licenziamento collettivo[192]
ma individua una procedura che, in determinate condizioni, il datore che voglia
operare dei licenziamenti é obbligato a seguire, a causa delle ripercussioni
sociali delle sue scelte[193].
D’altra parte anche in passato la procedura degli accordi non si applicava a
tutti i licenziamenti collettivi ma solo ad un numero limitato di ipotesi[194].
In secondo
luogo, a nostro avviso, un datore di lavoro non soggetto alla legge 223/91 non
potrà licenziare attenendosi solo alle norme sui licenziamenti individuali se
il recesso, alla luce delle preesistenti norme tuttora vigenti, è inquadrabile
come collettivo. In tal caso, egli dovrà seguire le disposizioni contrattuali
se per lui vincolanti o, comunque, i principi individuati dalla giurisprudenza[195].
Tra l’altro, il datore avrà l’onere di motivare il licenziamento collettivo
e di seguire comunque quanto previsto dalle leggi limitatrici dei licenziamenti
individuali[196].
Tuttavia, il
problema della qualificazione del licenziamento come individuale plurimo o
collettivo non ha più la stessa rilevanza che in passato. Infatti, in
precedenza, fino alla L. 108/90, qualificare un licenziamento come individuale
in una piccola impresa voleva dire escludere la necessità della forma scritta e
quello di motivazioni; viceversa, qualificare un licenziamento come collettivo
in una impresa maggiore poteva portare all’esclusione della disciplina
limitatrice dei licenziamenti individuali, soprattutto se l’impresa non fosse
rientrata nel campo di applicazione degli accordi interconfederali[197].
Oggi, invece,
non é affatto detto che ad un imprenditore convenga qualificare collettivo un
licenziamento più di quanto non gli convenga definirlo individuale: le tutele
apprestate dalle leggi 108/90 e 223/91 appaiono per molti aspetti equivalenti[198].
Seppure
ridimensionato, tuttavia, il problema dell’inquadramento delle fattispecie di
licenziamento collettivo non ricomprese nella L. 223/91 mantiene una sua
rilevanza[199].
Infatti, soprattutto ritenendo necessaria comunque una procedura, sia pure
semplificata rispetto a quella legale, si vincola l’imprenditore ad un
confronto con il sindacato, seguendo quella che sembra la tendenza del diritto
del lavoro degli ultimi anni[200].
Si consideri,
infine, che dalle conclusioni sopra evidenziate discendono sanzioni per i datori
di lavoro non certamente trascurabili. Si ricordi che il mancato rispetto della
procedura era sanzionato dalla giurisprudenza con l’invalidità del recesso.
Il piccolo datore di lavoro potrebbe trovarsi, suo malgrado, di fronte a recessi
che, intimati senza il rispetto della procedura cui non si riteneva (più)
vincolato, sarebbero invalidi, con conseguenze dirompenti soprattutto nel caso
di imprese di minori dimensioni[201].
Marco Mocella
[1]Galantino,
I Licenziamenti collettivi, Milano
1984, 8-9; Cessari, Dai
licenziamenti ai trasferimenti collettivi, in Cessari
- De Luca Tamajo, Dal
garantismo al controllo, Milano 1982, 169, sul punto 173; Foglia,
Riduzioni di personale e licenziamenti
economici in Dir. Lav., 1997,
I, 4.
[2]Secondo
parte della dottrina le ipotesi sarebbero invece tre, considerando come
fattispecie autonoma quella dell’art.3 della legge: Topo,
I poteri dell’imprenditore nelle riduzioni di personale, Padova
1996, 75.
[3]Art.12
L.223/91. Vedi infra §3.4.
[4]
Già tra i primi commentatori della legge vedi Ferraro,
Le integrazioni salariali in Integrazioni
salariali, eccedenza di personale e mercato del lavoro. Commento
sistematico alla L.223/91 a cura di Ferraro,
Mazziotti, Santoni, Jovene 1992, 41; Foglia,
op. ult. cit., 5.
[5]Sulle
implicazioni teoriche di questa disposizione per la conferma del superamento
della concezione ontologica di licenziamento collettivo vedi infra
sub §2.1 e Napoli, Le nuove disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e di
mobilità in Riv. Giur. Lav,
1993, I, 189.
[6]Si
consideri che i lavoratori dipendenti da imprese industriali con meno di 16
dipendenti avevano in precedenza diritto all’indennità di disoccupazione
speciale di cui all’art. 8 della L. 5/11/68 n. 1115, oggi abolita
proprio dalla L. 223/91, art. 16, comma IV. Vedi Papaleoni,
L’indennità di mobilità, in
Papaleoni, Del Punta, Mariani, La
nuova Cassa integrazione guadagni e la mobilità, Padova 1993, 521; Ferraro,
op. loc. ult. cit., che prospetta
un’illegittimità costituzionale sotto questo profilo.
[7]Si
trattava dell’art.2 D.L.1/1993, che reiterava sul punto l’art.1 secondo
comma del D.L. 478/92, il quale aveva esteso la CIGS alle imprese da 5 a 15
dipendenti previo parere del CIPI.
Miscione, op. cit., V; Papaleoni,
Del Punta, Mariani, op. cit.,
588, in particolare la nota
8.
[8]
Su cui infra sub §3.3.
[9]Nelle
quali parte della dottrina ritiene non possa neppure parlarsi di
licenziamenti collettivi. Vedi infra sub 2.3.
[10]Corte
Cost. 8/2/66 n°8 in Riv. Giur. Lav., 66, II, 1; inForo
It. 1966, I, 201; in Giur. Cost.,
1966, 98. In dottrina Riva Sanseverino,
Il lavoro nell’impresa, Torino
1960, 594; Giugni, La disciplina interconfederale dei licenziamenti nell’industria, Quad.
IV, Riv. Dir. Lav., 1954, 16ss.
[11]
In particolare, il primo aveva istituito il ruolo dei lavoratori in
aspettativa, cui spettava un trattamento economico di sostegno previsto
dall’art.4 dello stesso decreto. Il secondo, invece, prevedeva la facoltà
per il datore si licenziare solo una determinata percentuale della forma
lavoro occupata a seguito della procedura prevista dall’art.6 e secondo
determinati criteri, dettati dall’art.4. Il decreto, tra l’altro,
prevedeva per il lavoratore licenziato illegittimamente una vera e propria
stabilità reale (art.6 ultimo comma) nonché l’inamovibilità dei membri
delle Commissioni Interne senza il previo consenso sindacale
(art.9).Inoltre, l’art.8 del decreto in esame prevedeva l’obbligo di
portare l’orario settimanale a 40 ore, come oggi previsto dalla legge
24/6/97 n°196, art.13. Per un’analisi del contenuto dei decreti vedi Garofalo,
Eccedenze di personale e conflitto:
profili giuridici in Licenziamenti
collettivi e mobilità, Atti delle giornate di studio di Roma 26-27/1/90
a cura dell’AIDLASS, Milano 1991, 15.
[12]D’altra
parte gli stessi decreti avevano a loro volta recepito il contenuto di
precedenti accordi interconfederali. Sul punto Simi,
L’estinzione del rapporto di lavoro, Milano, 1948, 20; Magrini,
Licenziamenti individuali e
collettivi: separatezza e convergenza delle tutele in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 1990, 2, 314 ed in Licenziamenti collettivi e mobilità, Atti delle giornate di studio
di Roma 26-27/1/90 a cura dell’AIDLASS, 93; Riva
Sanseverino, op. cit.,
593; Giugni, La
disciplina interconfederale, cit., 9; Paroli,
Nuovi orientamenti sul potere di recesso dell’imprenditore nella
disciplina dei licenziamenti nel settore dell’industria, in Dir.
Lav., 1947, I, 274. L’accordo prevedeva per i licenziamenti collettivi
una procedura conciliativa tra Commissioni Interne e impresa e, nel caso di
mancato accordo, tra le associazioni professionali a livello territoriale
[13]Infatti,
mentre lo scopo della disciplina dei licenziamenti individuali è, come
recita la premessa dell’accordo 29/4/65, quello di garantire il lavoratore
da eccessi, abusi ed ingiuste prevaricazioni del datore di lavoro, quello
individuato nella premessa dell’accordo sui licenziamenti collettivi del
5/5/65 è di contribuire a
“risolvere pacificamente gli eventuali contrasti che i provvedimenti di
licenziamento possono determinare nei rapporti di lavoro aziendali. Ciò
nella considerazione che la presenza di personale esuberante determina
aggravi nei costi dannosi per la vita dell’azienda e che, d’altra parte,
il licenziamento di tale personale preoccupa dal punto di vista sociale,
particolarmente in situazioni di disoccupazione”. In giurisprudenza Cass.
S.U. 27/2/79 n° 1270, in Foro It.,
1979, I, 605; in Mass. Giur. Lav.,
1979, 193 con nota di Franceschini;
ivi, 391 con nota di Riva
Sanseverino; in Riv. Giur. Lav.,
1979, II, 27 con nota di D’Antona;
in Giur. It., 1979, I, 1, 1088; in
Dir. Lav., 1979, II, 195 con nota
di Branca; in Not. Giur. Lav., 1979, 194; in Or.
Giur. Lav., 1979, 355; Cass. 20/6/87 n° 5460, in Foro It. Rep., voce Lavoro
(rapporto), 2641, c.1995. In dottrina De
Marchis, I licenziamenti
collettivi (vecchi e nuovi) in Riv.
Giur. Lav., II, 1993, 40; Magrini,
op. cit., 318; Mora,
Commento all’art. 11 L.604/66 in La disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi, Commentario
alle leggi 15 luglio 1966, n°604 e 11 maggio 1990 n°108 a cura di
Galantino, Torino 1993,
169.
[14]Mazziotti,
Diritto del lavoro,
Napoli, 1993, 399; Magrini,
Licenziamenti individuali e collettivi, separatezza e convergenza delle
tutele, cit., 93; Mancini, Il
recesso unilaterale ed i rapporti di lavoro, I, Milano, 1962, 391.
[15]Buggé,
Considerazioni sulla speciale
disciplina processuale della materia dei licenziamenti individuali in Problemi
di diritto del lavoro sulla legge del 1966 relativa ai licenziamenti
individuali, Milano, 1968, 37ss; Trioni,
Contributo all’esegesi della L.15
luglio 1966 n°604 in Riv. Giur.
Lav., 1967, I, 27.
[16]Per
una prima formulazione di questa teoria Pera,
I licenziamenti nell’interesse dell’impresa in I licenziamenti nell’interesse dell’impresa, Atti Giornate di
studio dell’AIDLASS 27-28/4/68, Milano 1969, 20ss.
[17]
Pera, op.
ult. cit., 20; Napoletano, op. cit., 62. In giurisprudenza Trib.Milano, 7/7/60 in Mass.
Giur. Lav., 1960, 289. Contra, per
l’impugnabilità solo in caso di licenziamento collettivo illegittimo,
Cass. 18/10/82 n°5396 in Giust.
Civ., 1983, I, 137; Cass. 28/3/83 n°2186, ibidem
, 3308.
[18]
Il problema era peraltro stato avvertito già in precedenza, rispetto alla
procedura arbitrale prevista per i licenziamenti individuali, che taluni
reputavano proponibile anche a seguito di un licenziamento collettivo. Si
era infatti detto che le due procedure si pongono su due piani distinti e
pertanto cumulabili: quello dei licenziamenti collettivi riguarda
l’opportunità della scelta dell’imprenditore; quella dei licenziamenti
individuali attiene invece alla posizione del singolo. In dottrina Mancini,
Il recesso unilaterale e i rapporti di
lavoro, I, Milano 1962, 377ss; Marchetti,
Nota, in Giust.Civ., 1956, I, 181; Pera,
op. ult. cit., 21; Napoletano,
op. cit., 62. In giurisprudenza Trib.Venezia 24/2/55 in Mass.
Giur. Lav., 1955, 13; App.Venezia 27/8/56 in Or.
Giur. Lav., 1957, 246; Trib.Teramo, 18/5/56 in Riv.
Giur. Lav., 1957, 61; App.Milano, 11/2/64 in Riv.
Dir. Lav., 1964, II, 290; App.Milano 2/7/64 in Or. Giur. Lav., 1964, 45; App.Napoli, 20/10/64 ibidem, 1965, 488; contra
Trib.Roma 27/5/57 in Mass. Giur. Lav.,
1957, 135; Trib.Napoli, 4/9/57 ibidem,
230; Trib. Milano, 28/1/65 in Or.
Giur. Lav., 1965, 308.
[19]Cfr.
L.29/4/49 n°264 art.15, sesto comma; L.5/11/68 n°1115; L.22/3/71 n°784;
L.18/12/73 n°877; DL 29/1/83 n°17 conv. L.25/3/83 n°79 art.9 ultimo
comma. Per un’ampia rassegna cfr.
Galantino, op. cit., 5 e 7.
[20]Su
cui vedi infra §1.4. Per un
attento studio della legge vedi Centofanti,
I licenziamenti per riduzione di
personale nei settori non interessati da procedure sindacali nel sistema
della L.675/77 in Dir. Lav.,
1979, I, 389; Ventura, Licenziamenti collettivi (voce per un’enciclopedia), in Riv.
Giur. Lav., 1986, I, 280ss ed in Enc.
Giur. Treccani, XIX, Roma 1990, 1ss.
[21]Sul
punto Cessari, Dal
garantismo al controllo, in Cessari,
De Luca Tamajo, Dal garantismo
al controllo, cit., 173; Galantino,
op. cit., 9
[22]
Grandi, Intervento,
in Licenziamenti collettivi e mobilità, cit., 214ss. Altra parte della dottrina aveva invece ritenuto le
direttive già applicate nel nostro paese: Foglia,
Obblighi comunitari e licenziamenti
collettivi, in Dir. Lav.,
1982, II, 385. Contra Cass. 8/8/89
n°3647 in Dir. Lav., 1990, II,
49; in Riv. Giur. Lav., 1989, II,
231 con nota di Colacurto; in Not.
Giur. Lav., 1989, 485; in Mass.
Giur. Lav., 1989, 477; in Or.
Giur. Lav., 1989, 1056.
[23]Cessari,
Dai licenziamenti ai trasferimenti, collettivi cit.,
13; Galantino, op.
cit., 91; Granata, La direttiva
comunitaria in materia di licenziamenti collettivi e l’ordinamento
italiano in Quad. Dir. Lav. Rel.
Ind., 1997, 175.
[24]
App.Napoli 28/11/63 in Riv. Dir. Lav., 1964, II, 292.
[25]Corte
Cost. 8/2/66 n° 8, cit.
[26]Sull’inapplicabilità
degli Accordi interconfederali a settori diversi da quello industriale cfr.
Cass. 9/6/90 n° 5601, in Dir. Prat.
Lav., 1990, 2710; Cass. 11/12/84 n° 6514, in Giur.
It., 1985, I, 1400. Contra
Cass. 18/12/84 n° 7709, ivi,
1984, I, 1379; Cass. 28/3/86 n° 2224, in Dir.
Prat. Lav., 1986, 1875. In dottrina Ventura,
op. cit., 289 e 327.
[27]Garofalo,
Eccedenze di personale e conflitto:
profili giuridici , cit., 41.
[28]Sempre
per i datori soggetti alla disciplina pattizia, naturalmente. Per i datori
non firmatari, invece, si applicavano solo le norme non dichiarate
incostituzionale dalla Corte Costituzionale.
[29]
L’art.5 dell’accordo del 1950 ed il 6 di quello del 1965 espressamente
escludevano dal proprio ambito di applicazione i contratti a termine, nonché
quelli per fine lavoro nell’edilizia nonché nelle industrie stagionali o
saltuarie.
[30]Cass.
6/12/85 n°6158 in Giur. It., 1987, I, 1, 110 con nota di Colecchia; Cass.
2/2/83 n°885 in Giust. Civ. 1983,
I, 3372. In dottrina Cottrau, Licenziamenti
collettivi e imprese minori in Giust.
Civ., 1985, I, 2361.
[31]Cass.
14/1/87 n°222 ivi, 1987, II, 79;
Cass. 18/12/86 n° 7709 in Giur. It.
1987, I, 1, 1379; Cass. 29/6/85 n°3909 in Riv. Giur. Lav., 1986, II, 382;
Cass. 11/12/84 n°6514 in Giur.
It., 1985, I, 1, 700; Cass. S.U. 18/10/82 n° 5396 ivi, 1983, I, 1, 1515; Cass. 1270/79, cit. Specificamente, per il settore edile Cass. 18/12/86 n°7709, cit.;
per il settore commerciale Cass. 20/11/86 n° 6832 in Dir.
Prat. Lav., 1987, 1214; Cass 25/1/84 n°616 in Not.
Giur. Lav., 1984, 201; Ventura,
op. cit., 300.
[32]Magrini,
op. cit., 346; in giurisprudenza
Cass. 11/12/84 n°6514 in Giur. It., I, 1, 700; Cass. 25/11/83 n°7100 in Foro It., 1984, I, 743.
[33]L’osservazione
aveva maggior peso prima dell’emanazione della L.108/90 che ha esteso
l’obbligo di forma e motivazione a tutti i datori di lavoro, sia pure con
diverse conseguenze. L’obbligo di motivare il licenziamento era previsto
dagli accordi per il solo settore industriale, anche se era stato svuotato
di significato dalla giurisprudenza che riteneva sufficiente la dizione
“riduzione di personale”. Cfr. Cass. 1/6/83 n°3750 in Or.
Giur. Lav., 1983, 974. Magrini,
op. loc. ult. cit.; in
giurisprudenza Cass. 14/1/87 n°222
in Riv. Giur. Lav., 1987, II, 79;
Cass. 20/11/86 n°6832 in Impresa,
1987, 1097; Cass. 18/12/86 n°7709 cit.;
Cass. 29/6/85 n°3909 Giur. It.
1987, I, 1, 729.
[34]Contra,
Cass. 2/9/86 n°5384 in Riv.
It. Dir. Lav., 1987, II, 593.
[35]Cass.
23/12/75 n°4734 in Mass. Giur. Lav., 1975, 408 con nota di Franceschini; Cass. 2/2/83 n°885 in Giust. Civ., 1983, I, 3372.
[36]Più
in dettaglio, la procedura degli accordi prevedeva che il datore di lavoro
che volesse procedere ad un licenziamento collettivo dovesse darne
preventiva comunicazione, per tramite della propria associazione sindacale
di categoria, alle organizzazioni sindacali provinciali dei lavoratori
fornendo una serie di informazioni sui motivi, sul numero dei licenziandi e
sulla data dei licenziamenti; le rappresentanze dei lavoratori avrebbero
potuto, a loro volta, richiedere un incontro dando il via ad una procedura
conciliativa che avrebbe sospeso i licenziamenti fino al suo termine o,
comunque, non oltre il termine previsto per l’esperimento della procedura.
L’accordo del 1950 aveva fissato tale termine a 15 giorni ridotti a 10
negli stabilimenti al di sotto dei 100 dipendenti; l’accordo del 1965 lo
aveva invece aumentato a 25 giorni, ridotti a 15 negli stabilimenti con meno
di 100 dipendenti ed aumentati di 15 se il licenziamento fosse pacificamente
conseguenza di una ristrutturazione e non riduzione di attività. Oltre tale
termine il datore di lavoro poteva dar luogo ai previsti licenziamenti,
sempre naturalmente conformandosi a determinati criteri di scelta.
Sull’individuazione
delle rappresentanze dei lavoratori legittimate nell’ipotesi in cui
l’impresa avesse più unita produttive, cfr.
Trib.Torino 8/6/66 in Not. Giur. Lav.,
1966, 1203.
[37]
Sull’obbligo di qualificare collettivo il licenziamento ex art.4
dell’Accordo Interconfederale vedi Garofalo,
op. ult.
cit., 24; Ventura, op.
cit., 307.
[38]
Quest’ultima norma era considerata più favorevole di quella dell’art.15
L.264/49 in quanto costitutiva di un vero e proprio diritto soggettivo in
capo ai lavoratori: Trib.Milano, 2/10/58 in Or. Giur. Lav., 1959, 540; App.Perugia, 20/5/64, ibidem,
1965, 331; Cass. 23/2/52 n°493 in Foro
It., 1953, I, 526.
[39]Sebbene
tenuto al rispetto dei criteri, il datore poteva dare la preferenza alle
esigenze tecniche e produttive. Da ultimo Cass. 10/1/96 n°132 in Or.
Giur. Lav., 1996, 675.
[40]
Lavoro, I
licenziamenti collettivi per riduzione di personale e la settima direttiva
CEE sul riavvicinamento degli stati membri in materia di licenziamenti
collettivi in, Previdenza sociale,
1981,1072, con un’ampia rassegna delle legislazioni degli altri paesi
comunitari. Sulla derogabilità in
melius dei criteri fissati dall’accordo interconfederale del 20/12/50
validi erga omnes cfr.
Cass. 1/2/89 n°618 in Mass. Giur.
Lav., 1989, 203.
[41]
In tale ipotesi, la lavoratrice madre non avrebbe diritto alla conservazione
del posto in caso di licenziamento collettivo ex art.2 terzo comma lettera
b) L.1204/71. Tuttavia, tale limitazione viene ritenuta operante solo
nell’ipotesi di soppressione materiale di un nucleo aziendale e non in
quella di riduzione della sola forza lavoro. Cass. 11/12/82 n°6806 in Giust.
Civ. 1983, I, 2029.
[42]
In tal caso invece non si avrà un impedimento definitivo ma una sospensione
del licenziamento fino al termine della malattia. Tra le tante Cass. 15/3/84
n°1781 in Giust. Civ. 1984, I,
3078.
[43]
Su tale ipotesi Ventura, op.
cit., 332; Foglia, Riduzioni cit., 12ss. Sebbene l’art.9 ultimo comma del DL 29/1/83
n°17 conv. L.25/3/83 n°79 stabilisce che la percentuale degli invalidi
licenziati non può superare quella riservata
per le assunzioni, la giurisprudenza interpreta tale norma nel senso che
essa riguardi solo le aziende impegnate in processi di ristrutturazione e
riconversione. Sul punto Cass. 10/11/89 n°4731 in Riv.
Giur. Lav., 1990, II, 39 con nota di Chiacchieroni;
in Or. Giur. Lav., 1990, 160;
Cass. 23/7/86 n°4718 in Giust. Civ.,
1987, I, 122 con nota di Del Punta;
in Giur. It., 1987, I, 1, 1006;
Cass. 12/1/84 n°255 in Mass. Giur.
Lav., 1984, 154; in Riv. It. Dir.
Lav., 1984, II, 694.
[44]Su
cui Foglia, op.
loc. ult. cit. Sulle modalità applicative dei criteri di scelta Ventura,
op. cit., 328.
[45]Cass.
21/7/72 n°2496 in Mass. Giur. Lav. 1974, 63; Cass. 12/11/74 n°3852 in Riv.
Giur. Lav., 75, II, 83; Cass. 17/7/75 n°2838 in Mass.
Giur. Lav., 75, 562.
[46]Cass.
30/3/74 n°907 in Foro It., 74, I, 1350 con nota di Pera;
Cass. 30/3/74 n°905 in Mass. Giur.
Lav., 74, 328 con nota di Tamburrino;
Cass. S.U. 1270/79, cit.; Cass.
13/2/82 n°922 in Riv. Giur. Lav.,
1982, II, 64; in Riv. It. Dir. Lav.,
1982, II, 773..
[47]Cass.
19/7/85 n°4286 in Giust. Civ. Rep. 1985, voce Lavoro
(rapporto), 555; Cass. 20/3/85 n°2056 in Giust. Civ., 1985, I, 1606; Cass. 16/12/85 n°6401 in Mass.
Giur. Lav., 1986, 241: Cass. 2/10/86 n°5832 in Mass. Giur. Lav., 1987,
33 con nota di Papaleoni; Cass.
1/2/89 n°618 in Mass. Giur. Lav.,
1989, 203; Cass. 9/3/89 n°1244 in Mass.
Giur. Lav., 1989, 200; in dottrina Magrini,
op. cit., 356.
[48]Per
l’irrilevanza dello straordinario effettuato prima e dopo del
licenziamento quale indice presuntivo della mancanza dei presupposti Cfr.
Cass. 29/9/88 n°5301 in Not. Giur.
Lav. 1988, 730.
[49]
Cass. 3/6/97 n°4935 in Guida al Diritto, 1997, 29, 74; Cass. 6/7/90 n°7105 in Mass.
Giur. Lav., 1990, 440; in Riv.
Giur. Lav., 1990, II, 440 con nota di Chiacchieroni.
[50]Magrini,
op. cit., 361; in giurisprudenza
Cass. 9/3/89 n°1244 in Mass. Giur. Lav, 1989, 200; Cass. 6/2/87 n°1230 in Giust.
Civ. Rep., voce Lavoro
(rapporto), 1987, 569; Cass. 14/12/82 n°6887 in Not.
Giur. Lav., 1983, 101. Sulle sanzioni per i licenziamenti collettivi
illegittimi in generale Ventura,
op. cit., 310ss.
[51]
Appello Milano 9/3/62 in Riv. Giur. Lav., 1962, II, 172; in Or. Giur. Lav., 1962, 305; Cass. 16/5/62 n°1049 in Foro
It. 1962, I, 1701; in Not. Giur.
Lav. 1962, 273; in Riv. Giur. Lav.,
1962, II, 171; App.Milano 11/2/64 in Or.
Giur. Lav 1964, 390; in Riv. Dir.
Lav., 1964, II, 290. Napoletano, Il
Licenziamento dei lavoratori, Torino 1966, 58ss.
[52]
Cass. 30/3/74 n°910 in Riv. Giur. Lav., 1974, II, 62; Cass. S.U. 27/2/79 n°1270 cit.
[53]Magrini,
op. cit., 361; Dall’Olio,
Licenziamenti illegittimi e
provvedimenti giudiziari in Licenziamenti
illegittimi e provvedimenti giudiziari, Atti Giornate di studio
dell’AIDLASS 16-17/5/87, Milano 1988, 36. In giurisprudenza Cass. 2/3/88 n°2215
in Foro It., 1988, I, 1517 con
nota di Ferro; in Giust. Civ. Rep., 1988, voce Lavoro
(rapporto), 377; Cass. 2/9/86 n°5384 in Not.
Giur. Lav., 1986, 783; in Riv. It.
Dir. Lav., 1987, II, 593 con nota di Del
Punta; Cass. 4/3/80 n°1459 ivi,
1980, 463; Cass. 9/7/80 n°4359 in Mass.
Giur. Lav., 1980, 754; Cass. 25/9/78 n°4307 in Riv. Giur. Lav., 1979, II, 29; Cass. 16/5/62 n°1049 in Mass.
Giur. Lav., 1962, 23; Trib. Teramo 18/5/56 in Riv.
Giur. Lav., 1957, II, 61; App.Milano 12/12/58 ibidem,
1059, II, 137; App.Milano 6/7/62 in Or.
Giur. Lav., 1962, 592; App.Torino 12/1/63 ibidem,
1963, 323; App.Milano 11/2/64 in Riv.
Dir. Lav., 1964, II, 290. Contra:
Trib.Milano 7/7/60 in Mass. Giur. Lav.,
1960, 289.
[54]Per
l’inefficacia Magrini, op.
cit., 363; Ventura, op. cit., 321. In giurisprudenza Cass. S.U. 1270/79, cit.;
Cass. 28/11/84 n°6212 in Foro
It., Rep., voce Lavoro
(rapporto), 1984, 2279; Cass 14/12/82 n° 6897, in Foro It. Mass., 1982;
Cass. 3/9/86 n°5384 in Riv. It. Dir.
Lav., 1987, II, 593; Cass. S.U. 18/10/82 n°5396, ivi,
1983, II, 483 con nota di Fabris;
in Foro It., 1983, 1337; Cass.
11/1/87 n°87 in Dir. Prat. Lav.
1988, 1439. Per la tesi risarcitoria, Cass. 19/8/82 n°4679 in Giust. Civ. Rep., voce Lavoro
(rapporto), 1982, 601; Cass. S.U. 18/10/82 n°5396 in Giur. It. 1983, I, 1, 1015; in Foro
It. 1983, I, 1337 con nota Mazzotta;
in Giust. Civ. 1983, I, 137
con nota Del Punta; in Riv. It. Dir. Lav. 1983, II, 482 con nota Fabris; Cass. 14/12/82 n° 6887 in Not. Giur. Lav. 1983, 101. In precedenza App.Torino, 27/1/61 in Or.
Giur. Lav., 1961, 332; App.Milano, 9/3/62 in Mass.
Giur. Lav., 1962, 273; App.Bologna, 21/1/63 in Riv. Giur. Lav.,
1963, II 381; App.Milano, 11/2/64, in Riv.
Dir. Lav., 1964, II, 290; Trib.Milano, 29/3/65 in Monit. Trib., 1965, 331; Trib. Venezia, 8/2/65 in Riv.
Giur. Lav., 1965, II, 209. Per la tesi del risarcimento del danno anche
in tale ipotesi Riva Sanseverino, op.
cit., 597, note 5 e 6..
[55]
Cass.S.U. 18/10/82 n°5396 cit.; in dottrina Garofalo,
op. cit., 52; Magrini, op. cit.,
148; Vergari, Licenziamenti per riduzione di personale e licenziamento per
giustificato motivo oggettivo: due nozioni da riunificare in Riv.
Crit. Dir. Lav., 1991, 1,71.
[56]Cass.
S.U. 2/3/88 n° 2215, in Foro It., 1988, I, 1517, con nota di Ferro; Cass. 9/4/87 n°3528 in Giust. Civ., 1988, I, 1285 con nota di Pascucci; Cass. 21/7/83 n°5042 in Riv. It. Dir. Lav., 1984, 512; Cass. 1/6/83 n°3750 in Or.
Giur. Lav., 1983, 974; in Giust.
Civ., 1984, 1257; Cass. 9/12/82 n°6748 in Giust.
Civ., 1983, I, 1786; Cass. 1270/79, cit..
Contra
Cass. 13/2/82 n°922 in Riv.
Giur. Lav., 1982, II, 64; in Riv.
It. Dir. Lav., 1982, II, 773. In dottrina Napoli,
La stabilità reale del rapporto di
lavoro, Milano 1980, 321; Pera,
Diritto del Lavoro, cit., 555; Cass. 1/6/83 n°3750 in Or. Giur. Lav. 1983, 974; Cass. 21/7/83 n°5042 in Riv.
It. Dir. Lav., 84, II, 512; Cass. 27/2/79 n°1270 in Foro
It., 1979, I, 605; in Dir. Lav., 1979, II, 194 con nota di Branca.
[57]
Cass. 12/4/89 n°1741 in Mass. Giur. Lav., 1989, 197; Cass. 11/2/89 n°853 in Or.
Giur. Lav., 1989; 763; in Lav.
Prev. Oggi, 1990, 330; Cass. 18/1/86 n°324 in Foro
It. Rep., voce Lavoro (rapporto),
1986, 2457-8; Pret.Milano 24/4/96 in Riv.
Crit. Dir. Lav., 1997, 91. Mazziotti,
Licenziamenti illegittimi e
provvedimenti giudiziari in Licenziamenti
illegittimi e provvedimenti giudiziari, cit.,
110; Basenghi, Intervento
in Licenziamenti collettivi e mobilità, cit., 271; Centofanti,
op. cit., 391.
[58]Nei
licenziamenti collettivi l’onere della prova dei presupposti del
licenziamento e del nesso causale con i recessi dei singoli lavoratori grava
sul datore. Cfr. Cass. 6/12/85 n°
615, in Foro It. Rep.,
voce lavoro (rapporto), 1985,
2367, c.1815. Anche l’onere della prova del rispetto dei criteri degli
accordi, quello di allegare i fatti che legittimano il ricorso al
licenziamento collettivo e la prova che la riduzione sia stata concretamente
operata, come pure il nesso di causalità tra riduzione e singolo recesso
gravano tutti sul datore di lavoro. Cfr.
rispettivamente Cass. 3/6/97 n°4935 cit.;
Cass. 8/6/83 n°3923 in Giust. Civ.,
1984, I, 463; Cass. 27/2/79 n°1270 cit.;
Cass. 12/8/82 n°4589 in Riv. It. Dir.
Lav., 1983, II, 477 e Cass. 12/2/82 n°922 in Riv.
Giur. Lav., 1982, II, 64.
[59]
Prima della L.604/66, l’unica conseguenza era pertanto l’applicazione
dell’accordo interconfederale sui licenziamenti individuali. In dottrina, Napoletano,
Il Licenziamento dei lavoratori,
Torino 1966, 58ss. Per la fase successiva vedi per tutte Cass. 9/12/82 n°6748
in Giust. Civ., 1983, I, 1786.
[60]Per
tutti Galantino, op.
loc. cit.; Ballestrero, I licenziamenti, Milano 1975, 243; Smuraglia,
Crisi economica e tutela del lavoro:
interventi delle regioni e azione sindacale, in Riv. Giur. Lav., 1976, 197ss .
[61]Cass.
S.U. 27/2/79 n° 1270 cit. e Cass. S.U. 18/10/82 n°5396, cit.
[62]
Cass. 27/3/86 n°2196 in Foro It. Rep., voce Lavoro (rapporto), 1986, 1695 e 2414.
[63]Magrini,
op. cit., 335. Sulla definizione
ontologica del licenziamento collettivo già Appello Aquila, 10/12/57 in Or.
Giur. Lav., 1958, 270.
[64]Cass.
8/7/87 n°4253 in Dir. Prat. Lav. 1987, 2829; Cass. 21/1/87 n°558 in Giust.
Civ. (Rep) 1987, voce Lavoro
(Rapporto), 574.
[65]
Cass. 28/11/88 n° 6420 in Giust. Civ. (Rep.), voce cit.,
1988, 378; Cass. 27/4/91 n° 4688, in Giur.
It., 1991, I, 877 con nota Lunardon;
Cass. 18/12/84 n°6618 in Riv.
It. Dir. Lav., 1985, II, 327; Cass. 4/1/79 n°18 in Foro
It., 1979, I, 606. In dottrina Magrini,
op. cit., 338.
[66]Trib.
La Spezia, 12/5/56 in Or. Giur. Lav., 1957, 3, 91; Trib.Ancona 21/10/58 in Riv.
Giur. Lav., 2, 137; Trib.Milano 8/10/53 in Mass.
Giur. Lav., 1954, 121; Trib.Milano 28/1/65 ivi,
1965, 83. Contra App.Ancona
30/4/62 in Or. Giur. Lav., 1963,
138.
[67]Cass.
27/4/91 n°4688 cit.; in dottrina De Marchis,
op. cit., 44. In ogni caso la
scelta non sarebbe completamente libera, ma limitata dai criteri degli
accordi laddove applicabili e, comunque, dal divieto di atti discriminatori
e delle regole di correttezza e buona fede.
[68]Magrini,
op. loc. ult. cit.; Garofalo,
op. loc. ult. cit.; Del Punta, Licenziamenti
collettivi, riduzione di attività, innovazione tecnologica, in Riv.
It. Dir. Lav., 1985, II, 327; Ventura,
op. cit., 276.
[69]Cass.
6/7/77 n°2999 in Riv. Giur. Lav., 1979, II, 34; Cass. 27/5/78 n° 2671, in Riv.
Dir. Lav., 1980, II, 167; Cass. S.U. 27/2/79 n° 1270 cit.;
Cass. 17/3/81 n°1571, in Foro It.
Rep., voce Lavoro (rapporto),
1981, 1905, c. 1790; Cass. 13/2/82 n° 922,
cit.; Cass. 19/10/82 n° 5443, in Lavoro
80, 1983, 969; Cass. 29/3/83 n° 2235, in Foro
It. Rep., voce lavoro (rapporto),
1983, 1030-31, c. 1786; Cass. 28/10/83 n°6406 in Giust.
Civ. Rep., voce Lavoro
(rapporto), 856; Cass. 28/10/83 n°6399 ibidem,
855; Cass. 8/5/87 n° 4256, in Riv.
Giur. Lav., 1987, II, 39; Cass. 21/1/88 n° 619, in Giur.
Civ. Mass., 1988; Cass. 8/9/88
n° 5090, in Lav. 80, 1989,
222;Cass. 8/9/88 n° 5080 in Dir.
Prat. Lav. 1988, 2087; Cass. 1/2/89 n°618 in Giust.
Civ. Rep., voce Lavoro
(rapporto), 297; Cass. 8/8/89 n°3647 in Mass.
Giur. Lav., 1989, 477; Cass.
1/2/89 n° 618, in Mass. Giur. Lav.,
1989, 2590.
[70]
Cass. 4/1/79 n°18 in Riv. Giur. Lav., 1980, II, 42; Cass. 13/2/82 n° 92, in Riv.
Giur. Lav., 1982, II, 64; Cass. 19/10/82 n°5443 in Giust.
Civ., 1983, I, 466 con nota di Del
Punta; in Riv. It. Dir. Lav.,
1983, II, 665; Cass. 1/6/83 n°3750 in Giust.
Civ., 1984, I, 1257; in Or. Giur.
Lav., 1983, 974; Cass. 20/1/84 n° 501 in Or.
Giur. Lav., 1985, 592; Cass. 18/12/84 n° 6618 in Riv. It. Dir. Lav., 1985, II, 327; in Or. Giur. Lav., 1985, II, 327;
Cass. 20/3/85 n°2056 in Giust.
Civ., 1985, 1606; Cass. 19/7/85 n° 4267, in Foro
It. Rep., 1985, voce lavoro
(rapporto), 2369, 181; Cass.6/12/85 n°6158 in Giur. It., 1987, I, 1, 110 con nota di Colecchia; in Or. Giur.
Lav., 1987, 201; in Riv. Giur. Lav.,
1987, II, 80; Cass. 10/3/86 n° 1635, in Foro It. Rep. , voce Lavoro
(rapporto), 1986, 2415, c.1904; Cass. 14/11/86 n° 6736 in Foro
It., 1988, 1517; Cass. 26/11/86 n°6983 in Mass.
Foro It., voce Lavoro
(rapporto), 1198; Cass. 19/6/87 n° 5384 in Giust.
Civ. (Rep.) 1987, voce Lavoro (rapporto), 505;
Cass. 16/12/88 n° 6882, in Or. Giur.
Lav., 1990, 205; Cass. 22/3/89 n° 1432 in Dir.
Prat. Lav., 1989, 1217; Cass. 26/5/89 n° 2533, in Dir. Lav., 1989, II, 255; in Or.
Giur. Lav., 1990, 191; Cass. 9/6/89 n° 2814, in Not. Giur. Lav., 1989, 485; in Or.
Giur. Lav., 1989, 1051; in Riv.
Giur. Lav., 1989, II, 231 con nota di Colacurto;
in Lav. 80, 1989, II, 131; Cass.
7/5/91 n° 3027, in Riv. Giur. Lav.,
1991, IV, 335; Cass. 27/4/92 n° 5010 ivi,
1993, 112; in Mass. Giur. Lav.,
1992, 385. In dottrina, Scognamiglio,
op. cit., 500; Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu, Diritto del lavoro, 2. Il
rapporto di lavoro subordinato, Torino, 1985, 318; Vergari,
op. cit., 65.
[71]
Sul punto Veneziani, Innovazioni
tecnologiche e licenziamenti collettivi in Riv.
Giur. Lav., 1989, I, 423; Del
Punta, Licenziamenti
collettivi, riduzione di attività, innovazioni tecnologiche cit.,
331; Carinci, Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro: il rapporto individuale
in Dir. Lav. Rel. Ind., 1985,
203ss; Perone, Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro: i rapporti collettivi,
ivi, 243; Zanelli, Impresa,
lavoro e innovazione tecnologica, Milano 1985.I licenziamenti
tecnologici, d’altra parte, erano contemplati dallo stesso accordo
interconfederale del 1965 che testualmente recita: “Nel caso in cui
l’azienda motivi il provvedimento (di riduzione di personale) come
conseguenza di trasformazione o riorganizzazione tecnologica...”. Cfr.
Galantino, op. cit., 103. Per Napoletano
“La trasformazione comporta, invece,
un cambiamento o dell’attività esercitata dall’impresa o dei metodi di
lavoro, in relazione a nuove esigenze dell’impresa o a nuovi procedimenti
tecnici”. Cfr. Napoletano
D., Il licenziamento dei
lavoratori, Torino 1966, 49.
[72]Garofalo,
Licenziamenti collettivi e mobilità,
in Licenziamenti collettivi e mobilità,
cit., 44; in giurisprudenza Cass.
2/9/86 n° 5384, in Riv. It. Dir. Lav.,
1987, II, 593.
[73]Pera,
I licenziamenti nell’interesse
dell’impresa, cit., 26; Id.
I licenziamenti collettivi, in Giust.
Civ., 1992, II, 2107; Giugni,
Intervento, in I licenziamenti nell’interesse dell’impresa, cit., 105.
[74]De
Marchis, op.
cit., 45.
[75]Cass.
16/1/75 n°172 in Riv. Giur. Lav., 1975, II, 62; Cass. 30/1/75 n°374, ibidem,
354; Cass. 12/11/80 n°6066, ivi,
1981, II, 923; Cass. 19/10/82 n°5443 in Riv.
It. Dir. Lav., 1983, II, 665; Cass. 30/3/83 n° 2335, ivi,
1984, II, 173; Cass. 6/2/87 n°1230 in Dir.
Prat. Lav. 1987, 1870.
[76]Cfr.
Galantino, op.
cit., 106.
[77]Galantino,
op. cit., 134; in giurisprudenza
Cass. 6/8/87 in 6761 in Or. Giur. Lav., 1987, 1088.
[78]De
Marchis, op.
cit., 45.
[79]
Cfr. infra
sub. §2.1.
[80]Cass.
6/12/85 n°6157 in Giust. Civ. Rep., voce Lavoro
(rapporto), 1985, 528; Cass. 17/5/80 n° 3252, ivi,
1980, 481. In dottrina: Vergari, op. cit.,
76; Zoli, La tutela delle posizioni strumentali del lavoratore, Milano 1988,
279; Centofanti, op.
cit.,401.
[81]Galantino,
op. cit., 151ss.
[82]Centofanti,
op.
cit., 389, sul punto 394ss; Galantino,
op. cit., 94; Magnani, Provvedimenti
per il coordinamento della politica industriale, la ristrutturazione, la
riconversione e lo sviluppo del settore industriale in Leggi Civili Commentate, 1978, 772.
[83]Galantino,
op. cit., 140 ss.; Centofanti,
op. cit., 398; contra Lavoro, op.
cit., 1077.
[84]
Cass. 15/5/84 n°2966 in Not. Giur. Lav., 1984, 597; Cass. 26/9/86 n°5781 in Lav.
Prev. Oggi, 1986, 2227.
[85]
Ferraro,
Integrazioni salariali cit., 41.
[86]Spagnuolo
Vigorita, I
licenziamenti per riduzione del personale nella recente legge 223/91: la
fattispecie in Dir. Rel. Ind.,
1992, 2, 201.
[87]Sulle
abrogazioni operate dalla L. 223/91 Cfr.
Ferraro, Mazziotti, Santoni, Integrazioni
salariali cit..; Papaleoni,
L’indennità di mobilità in Papaleoni
Del Punta Mariani, La nuova
Cassa Integrazione Guadagni e la Mobilità, cit.,
520.
[88]Mora,
op. cit., 178; Montuschi,
Mobilità e licenziamenti: primi
appunti ricostruttivi ed esegetici in margine alla L. n°223 del 23/7/91
in Riv. It. Dir. Lav., 1991, I,
413; Alessi, Il licenziamento collettivo per riduzione di personale: fattispecie e
disciplina in Riv. Giur. Lav.,
1995, I, 225; Carabelli, I
licenziamenti per riduzione di personale in Dir.
Lav. Rel. Ind., 1994, 213; Paternò,
Sulla nozione di licenziamento per riduzione di personale in Arg.
Dir. Lav., 1995, 2, 77; Spagnuolo
Vigorita, Guaglione, Scarpelli,
Commento all’art.24 della L.223/91
in Nuove Leggi Civ. Comm., 1994,
1091. Sulla procedura Zoli, La
procedura in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1997, 73ss. Sull’obbligo
dell’imprenditore di trattare secondo correttezza e buona fede Del
Punta, La L.223/91 e i licenziamenti collettivi: un primo bilancio in
Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1997,n°18, 18.
[89]In
dottrina Del Punta, La
L.223/91 e i licenziamenti collettivi: un primo bilancio, cit., 15; Scarpelli, La
nozione e il controllo del giudice, ivi,
29ss; Pivetti M., Licenziamenti
collettivi e mobilità nella legge 223 del 1991, in Lav. Inf., 5, 1993, 26; Mora,
op. cit., 180; D’antona,
Riduzione di personale e licenziamenti: la rivoluzione copernicana della
L.223/91 in Foro It., 1993, I,
2028; D’Antona, I
licenziamenti per riduzione di personale nella L.223/91 in Riv.
Crit. Dir. Priv., 1992, 2, 317; Galantino,
Diritto del Lavoro, III ediz.,
Torino 1992, 436. Già nella previgente normativa cfr.
in dottrinaMazziotti, Il
licenziamento illegittimo, Napoli 1982, 169; Pera,
La cessazione del rapporto di lavoro,
Padova, 1980, 99; Ballestrero, I
licenziamenti, cit., 243; Napoli, La
stabilità reale del rapporto di lavoro, Milano 1980. In giurisprudenza
Cass. 26/4/96 n°3896 in Lav. Giur., 1996, 865; Cass. 218/86 n° 538, in Riv. It. Dir. Lav., 1987, II, 593; in Dir. Prat. Lav., 1989, 1217. Contra,
Per la tesi della distinzione ontologica Cass. 26/4/96 n°3896 in Lav.
Giur., 1996, 865; Cass. 16/12/88 n°6882 in Dir.
Prat. Lav., 1989, 1079; Cass. 6/12/85 n° 6158 in Or.
Giur. Lav. 1987, 201; Cass. 4/5/91 n°4891 in Dir.
Prat. Lav., 1991, 1895; Cass. 14/11/86 n°6736 in Foro It., 1988, 1517; Cass. S.U. 18/10/82 n° 5396 ivi,
1983, I, 1337; Cass. S.U. 1270/79 cit..
In dottrina Paterno’, op. cit., 109
[90]De
Marchis, op.
cit., 45.
[91]Pret.
Milano 18/2/93, Salerno c/ Soc. Centro allevamento cavalli da corsa in Or.
Giur. Lav., 1993, 444; in Riv.
Crit. Dir. Lav., 1993, 480, secondo la quale l’unico caso di
licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo plurimo
ipotizzabile é quello determinato dall’impossibilità del prestatore di
lavoro.
[92].
[93]In
breve, riduzione stabile di organico, riduzione o trasformazione
dell’attività o del lavoro e, ovviamente, nesso di causalità. Cfr.
Pivetti, op.
cit., 28.
[94]Sulla
possibilità di frodi alla legge Vallebona,
op. cit., 431.
[95]Del
Punta, I
licenziamenti collettivi in Papaleoni,
Del Punta, Mariani, La nuova
Cassa integrazione guadagni e la mobilità, cit.,
379.
[96]Ne
discende che trattasi non di un atto di recesso collettivo ma di un atto a
causale collettiva. Cass.17/6/97 n°5419 in Dir.
Prat. Lav., 1997, 2702; Trib.
Milano, 16/3/94, Galloppo c. Centro Allevamenti cavalli da corsa Srl in Or.
Giur. Lav., 1994, 98.
[97]In
senso contrario, per la qualificazione del licenziamento come collettivo
solo se almeno 5 recessi sono collegati causalmente con un’unica riduzione
di personale: Napoletano, I
licenziamenti collettivi: la fattispecie, in Riv. Crit. Dir. Lav., 1994, 252; Pret. Milano, 22/2/93, in Or.
Giur. Lav., 1993, 442. Il numero di cinque dipendenti deve sussistere al
momento dell’inizio della procedura, potendo poi ridursi all’esito delle
consultazioni sindacali: Soma, Licenziamenti collettivi e licenziamenti individuali: ancora incertezze
dopo la L.223/91? in Or. Giur. Lav.,
1994, 633; Pret.Milano 16/1/96 Rondenac/Vé Gé Italia S.c.r.l. in Riv.
It. Dir. Lav., 1997, II, 197.
[98]Spagnuolo
Vigorita, op.
cit., 206; per le eccezioni Del
Punta, op. ult. cit., 293; Soma,
op. cit., 635; Scarpelli,
op. cit., 55. In giurisprudenza
Pret.Verona 26/1/95 in Riv. Crit. Dir.
Lav., 1995, 879; Pret.Milano, 28/6/94 (decr.) ivi, 1994, 836; Trib.Milano 10/2/95 e Trib.Milano 31/3/95 in Riv.
Crit. Dir. Lav., 1995, 883 con nota di Niccolai;
Trib.Milano 28/9/96 ivi , 1997, 81
con nota di Borali.
[99]
Del Punta, La
legge 223/91 cit., 16, sul punto 23-25. Contra,
per la diversità di motivazione del licenziamento collettivo, Topo,
I poteri dell’imprenditore nelle
riduzioni di personale, Padova 1996, 75, che individua tre diverse
fattispecie negli artt.3, 4 e 24 della L.223/91.
[100]In
tal senso Trib. Latina 3/12/91 in Nuovo
Dir., 1992, 676 con nota di Ciampi;
in dottrina Mora, op. cit., 186; Scarpelli,
op. cit., 43; per un esame delle
sanzioni Vallebona, op.
cit., 532-5. Parte della dottrina ritiene, invece, che la disciplina dei
licenziamenti individuali possa fungere da normativa residuale: Mazziotti,
op. loc. ult. cit..
[101]Napoletano,
op. cit., 253; Veneziani,
Innovazioni tecnologiche e
licenziamenti collettivi cit.,
423; Carinci - De Luca Tamajo - Tosi -
Treu, Diritto del lavoro 2.
Il rapporto di lavoro subordinato,
cit., 348; Galantino, Diritto del
lavoro, cit., 451; Ventura,
Licenziamenti collettivi (voce per un enciclopedia), cit.,
275; Mora, op. cit.,
186. In giurisprudenza, già prima della L.223/91, Pret. Forlì. 23/11/84 in
Riv. It. Dir. Lav. 1985, II, 101.
[102]Del
Punta, op.
cit., 289.
[103]Per
la precedente esclusione De Marchis, op. cit.,
43; in giurisprudenza Cass. 27/5/78 n° 2761 in Riv. Dir. Lav., 1980, II, 167; Cass. 1270/79 cit.; Cass. 1/2/89 n°618 in Mass.
Giur. Lav., 1989, 2590.
[104]In
G.U.C.E. 26/8/92. In dottrina Roccella,
Licenziamenti collettivi e normativa comunitaria in Dir.
Prat. Lav. 1992, 2972; Biagi,
Dalla C.E.E. nuove regole in tema di licenziamenti collettivi in Dir.
Prat. Lav. n°25, 92, 1664; Trevissoi,
Licenziamenti collettivi: più tutela in Sole 24 ore, inserto Europa, 11/5/92 p. 28; Granata, op. loc. ult.
cit. .
[105]Biagi,
Vecchie e nuove regole in tema di
licenziamenti collettivi: spunti comunitari e comparati, in Dir.
Rel. Ind., 1992, 2, 151.
[106]Nel
senso della inclusione dei lavoratori dimessisi dall’impresa vedi Pret.
Verona 26/1/95 in Riv. Crit. Dir. Lav.,
1995, 879; Pret. Milano 28/6/94 ivi, 1995, 320; Santoni,
Il dialogo tra ordinamento comunitario
e ordinamento nazionale del lavoro: la legislazione in Atti Giornate di
Studio AIDLASS 1991, Milano 1992, 7. Per una valutazione opposta Granata,
op. cit., 165; Roccella,
Licenziamenti collettivi e normativa
comunitaria cit., 2972.
[107]La
norma risponde evidentemente anche a ragioni di praticità. Per una
valutazione esattamente opposta Cfr. Biagi, op.
ult. cit., 154.
[108]Vedi
però la previsione per le imprese artigiane di cui all’art. 12 L. 223/91.
Sui gruppi di impresa vedi ex pluris Cass.7/7/94 n°6420 in Riv.
Crit. Dir. Lav., 1995, 688 con nota di Muggia.
[109]La
proposta recitava “ Ai fini dell’attuazione della presente direttiva, gli Stati membri
possono astenersi dal prescrivere la rappresentanza dei lavoratori nelle
imprese in cui siano occupati di norma meno di 50 dipendenti. In tal caso
gli Stati membri fanno sì che i datori di lavoro siano obbligati a fornire
in tempo utile ai lavoratori interessati dai progetti di licenziamento
collettivo le stesse informazioni previste dall’art. 2, 3° comma, per i
rappresentanti dei lavoratori”. Biagi,
op. ult. cit., 154.
[110]
Sulla legge delega comunitaria Granata, La direttiva
comunitaria in materia di licenziamenti collettivi e l’ordinamento
italiano, cit., 159.
[111]
Carabelli, I
licenziamenti per riduzione di personale in Dir.
Lav. Rel. Ind., 1994, 240; Granata,
op. cit., 165; contra Santoni, op.
cit., 7; Foglia, Santoro Passarelli, Profili di diritto comunitario del lavoro, Torino 1996, 136. Per
quest’ultimo autore, nel numero di licenziamenti necessari per
l’applicazione della L.223/91 vanno invece computate tutte le forme di
risoluzione consensuale del rapporto di lavoro: Foglia,
Riduzioni di personale cit., 6.
[112]Contra
Biagi, op.
loc. ult. cit.
[113]Mazziotti,
Riduzione di personale e messa in
mobilità in Integrazioni
salariali, eccedenza di personale e mercato del lavoro, Commento sistematico
alla L. 223/91 a cura di Ferraro,
Mazziotti e Santoni, cit.,
p. 99.
[114]Cass.
25/11/83 n°7100 in Foro It., 1984, I, 743; Cass. 11/12/84 n° 6514, in Foro
It. Rep., voce lavoro (rapporto), 1984,
959, c.1650; Cass. 17/5/85 n°3043 in Foro
It., 1985, I, 2928; contra
Cass. 5/5/84 n° 2738 in Foro It.,
Rep., voce Lavoro (rapporto), 1984, 1902. In dottrina Ventura,
Licenziamenti collettivi (voce per
un’enciclopedia), cit., 302;
De Marchis, op. cit., 47; Napoletano,
I Licenziamenti collettivi: la
fattispecie, in Riv. Crit. Dir.
Lav., 1990, 250; Miscione, I
licenziamenti per riduzione del personale e la mobilità in La
disciplina dei licenziamenti dopo le leggi 108/90 e 223/91 a cura di Carinci,
Napoli, 1991, 306; Paternò, op. cit., 98; Scarpelli,
op. cit., 53.
[115]Particolari
procedure sono previste per l’inabilità del prestatore di lavoro e per i
prepensionamenti dalla L.270/88.
[116]La
speciale normativa per i dipendenti esattoriali é stata modificata con i
d.p.r. n°43 e 44 del 28/1/88 che hanno accentrato il servizio esattoriale.
E’ stata prevista una particolare disciplina per i casi di riduzione del
carico di riscossione sottoposto all’obbligo del non riscosso come
riscosso per almeno un biennio consecutivo superiore al 25 per cento
rispetto al carico del biennio di gestioni precedenti (art. 121 secondo
comma d.p.r. 43 e successive modifiche) con delle speciali procedure che
richiedono la partecipazione di rappresentanti di categoria che culminano
con delle proposte al servizio centrale di riscossione presso il Ministero
delle Finanze, ente competente per la riduzione di organico.
[117]In
senso contrario, Mazziotti, Riduzione
cit., 100; Napoletano, I licenziamenti collettivi: la fattispecie, cit. 250; Mora,
op. cit., 190.
[118]Cfr.
art. 1 lettera c).
[119]Corte
Cost. 3/4/87 n° 86 in Riv. Giur. Lav. 1988, II, 205; Corte Cost. 31/1/91 n° 41 in Riv.
It. Dir. Lav. 1991, II, 258 con nota di Mariani;
Corte Cost. 23/7/91 n°364 in Foro
It., 1991, I, 2609. In dottrina
Mazziotti, op. cit., 100; Mora, op. cit.,
191; Santoni, La risoluzione del contratto di arruolamento in Dir.
Giur., 1993, 388.
[120]Cass.
8/8/89 n° 3647, in Foro It. Rep. , voce lavoro
(rapporto), 1989, 1954, c. 1780. I
lavoratori edili esclusi sono tuttavia quelli assunti per una determinata
commessa o cantiere e non quelli inseriti nel normale organico aziendale:
Pret. Milano 6/4/95 in Riv. Crit. Dir.
Lav., 1995, 4, 884; in dottrina Scarpelli,
op. cit., 57.
[121]Miscione,
I licenziamenti per riduzione di
personale e la mobilità, cit., 321; Mazziotti,
op. ult. cit., 104; Mora,
op. cit., 193.
[122]Per
una puntuale analisi della fattispecie, Cfr.
Ferraro, Mazziotti,
Santoni, Integrazioni
salariali, cit., 86.
[123]In
tal senso anche la circolare ministeriale 155/91, in Dir.
Prat. Lav., 1991, n°50, 3321; in dottrina Vallebona,
op. cit, 429; Magrini, Il
licenziamento collettivo nella giurisprudenza sulla L.223/91 in Lav.
Inf., 1997, 2, 9; Foglia, Riduzioni di personale, cit., 5. In giurisprudenza: Pret. Pisa, Sez.
distaccata S. Miniato, Ord. 15/7/92, Storti ed altri c/ Calzaturificio Il
Capitano S.r.l. in Riv. It. Dir. Lav.
1993, II, 340, relativo ad un art. 700 c.p.c. poi confermato con sentenza
1/12/92 in Riv. Crit. Dir. Lav. ,
1993, 844; Pret. Pisa, Sez. distaccata S. Miniato, 2/3/93, Arzilli ed altri
c/ Calzaturificio Bellofatto Aimone S.r.l. in Riv.
Crit. Dir. Lav. , 1993, 845; Pret.Milano 14/1/95 in Riv. Crit. Dir. Lav., 1995, 3, 585 con nota di Scarpelli.
[124]Criterio
elaborato in tema di licenziamenti individuali ed esplicitamente richiamato
da Pret. Parma 1/2/93 cit. In giurisprudenza: Cass. 3/11/89 n° 4579, in Giust.
Civ. 1990, I, 2940; Cass. 16/5/83 n° 3379 in Giust.
Civ., 1984, I, 477; Cass. 20/11/83 n° 6165, in Foro
It., 1984, I, 139 con nota redazionale; Pret. Parma, Ord. 1/2/93
Balocchi c/ Vinilene ed INPS in Dir.
Prat. Lav. 1993, 1178 ed in Riv.
Crit. Dir. Lav., 1993, 655, che in conseguenza esclude i lavoratori dal
godimento del trattamento di mobilità; Pret. Frosinone, 8/10/92, in Foro It., 1993, I, 1309. In dottrina: Mazziotti, Riduzioni,
cit., 101; Miscione, I
licenziamenti per riduzione di personale e la mobilità, cit.,
307; Spagnuolo Vigorita, op. cit., 204; Alleva, L’ambito
di applicazione della tutela reale contro il licenziamento, in Carinci
(a cura di) La disciplina dei
licenziamenti dopo le leggi 108/90 e 223/91, cit., 25; Pera, La
cessazione del rapporto di lavoro, in Pol.
Dir., 1980, 30; Gramiccia, Dimensioni dell’impresa e "personale normalmente occupato",
in Mass. Giur. Lav., 1975, 503; Vaccaro,
Sul criterio per il calcolo di dipendenti nell’azienda, in Mass.
Giur. Lav., 1973, 167.
[125]Scarpelli,
op. cit., 54.
[126]Occorrerà
infatti valutare l’intero complesso aziendale: Gragnoli,
Licenziamenti collettivi e criteri di
scelta in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind.,
1997, 18, 103.
[127]In
tal senso Pret. Milano 6/5/94, Porrari c. Merlo e Benvenuti SpA, in Dir.
Prat. Lav., 1994, 9, 953; in Or.
Giur. Lav., 1994, 318 nonché Trib. Milano 16/3/94 Galloppo c. Centro
Allevamento Cavalli da corsa Srl, cit.;
in dottrina, Napoletano, Licenziamenti collettivi: la fattispecie cit., 251; Chiusolo,
Il licenziamento, Milano, 1994, 123; Mariani, Sul numero dei
dipendenti dell’azienda necessario perché possa parlarsi di licenziamento
collettivo, in Riv. It. Dir. Lav.,
1993, 655; Mazziotti, op.
cit., 106. Contra Mora, op.
loc. ult. cit.; Gragnoli, op. cit., 103. In giurisprudenza Pret. Milano 10/2/93 in Riv.
It. Dir. Lav. 1993, II, 597 con nota di Del
Punta.
[128]De
Marchis, op.
cit., 47. Per un esame di tutte le problematiche interpretative ed una
rassegna della prima giurisprudenza sulla L.223/91 Cfr.
Franceschini, Lo stato della giurisprudenza sulla L.223 in Riv. Crit. Dir. Lav., 1994, 20 ss; Magrini,
Il licenziamento collettivo nella
giurisprudenza sulla L.223/91 in Lav.
Inf., 2, 1997, 5 ss.; Mazziotti,
op. cit., 100; Mora,
op. cit., 193 ss.
[129]Il
mancato rispetto della procedura secondo la giurisprudenza non darebbe luogo
all’inefficacia in ogni caso. In particolare l’omessa comunicazione
dell’elenco dei lavoratori da licenziare all’Ufficio Regionale della
Lavoro e alla Commissione Regionale per l’Impiego, come pure l’omessa
comunicazione di cui all’art.4 terzo comma L.223/91 non comportano
l’inefficacia dell’intera procedura: Cass. 20/11/96 n°10187 in Dir.
Prat. Lav., 1997, 801 ed in Dir.
Lav., 1997, II, 171 con nota di Marrazza;
contra Pret.Milano 6/4/96 (ord.) in Riv. Crit. Dir. Lav., 1997, 93; Pret.Milano sez. Rho 14/11/95 in Riv.
Crit. Dir. Lav., 1996, 403; Pret.Perugia 21/4/95 in Rass.
Giur. Umbra, 1995, 520 con nota di Nicolini;
Trib.Milano 16/12/94 in Or. Giur. Lav.,
1994, 906; Pret.Cassino 23/7/93 in Foro
It., 1994, I, 2929; Pret.Venezia 1/9/93 in Riv. Giur. Lav., 1993, II, 124; Pret.Busto Arsizio 18/10/93 in Mass.
Giur. Lav., 1994, 493. Sulle conseguenze dell’omessa comunicazione dei
criteri di scelta e delle modalità applicative vedi Cass. 11/3/97 n°2165 ibidem
e Cass. 26/7/96 °6759 ibidem;
Pret.Milano 6/8/96 in Riv. Crit. Dir.
Lav., 1997, 88.
[130]D’Antona,
I licenziamenti per riduzione di
personale nella L.223/91 cit., 319; Ferraro, op.
cit., 43; Papaleoni, Introduzione
in Papaleoni, Del Punta, Mariani,
La nuova Cassa integrazione guadagni e
la mobilità, cit., 21; Miscione,
op. cit., 325.
[131]Miscione,
I licenziamenti, cit., 307.
[132]Miscione,
Il sostegno al reddito degli Enti
Bilaterali in Dir. Prat. Lav.,
1997, 2581; Pret.Ravenna, 13/3/96 in Lav. Giur., 1997, 317 con nota di Sgarbi.
[133]In
particolare la L.3/2/63 n°77 che istituisce una gestione speciale della CIG
per edilizia, estesa poi dall’art.1 L.2/2/70 n°14 alle imprese artigiane
edili e dall’art.1 L.6/12/71 n°1058 a quelle industriali ed artigiane
lapideee e di escavazione.
[134]Cfr.l’art.14
secondo comma della L.223/91 che estende il trattamento ai quadri ed agli
impiegati.
[135]L’art.7
sesto comma della L.236/93 aveva temporaneamente prorogato a 24 mesi la
durata massima del trattamento fino al 31/12/95 per le imprese da 5 a 50
dipendenti.
[136]Il
beneficio della non applicazione del massimale per i primi sei mesi del
trattamento, previsto dall’art.7 sesto comma della L.236/93, é stato
abrogato tranne che per il settore agricolo dall’art.2 comma 16 della
L.549/9.
[137]Il
settore “forte” comprende oltre la media e grande impresa industriale,
le grandi imprese non industriali nonché, a seguito dell’estensione
operata dall’art.12 della L.223/91, anche le imprese artigiane di medie
dimensioni, ancorché in determinate fattispecie. Vedi infra
sub §3.4.
[138]L’analogia
con la disciplina dei licenziamenti collettivi é evidente: al primo settore
si applica interamente la L.223/91, al secondo si applicheranno comunque gli
accordi interconfederali (vedi infra
sub §4), al terzo solo l’apparato giurisprudenziale.
[139]
Su cui vedi primi i decreti “Amato” poi decaduti e successivamente il
patto per il lavoro del 24/9/96 e la legge 196/97 (pacchetto “Treu” per
l’occupazione).
[140]Sulla
produzione normativa successiva alla L.223/91 Liso,
La galassia normativa dopo la legge 223/1991 in Giorn.
Dir. Lav. Rel. Ind., 1997, 1.
[141]Santoni,
Crisi
dell’impresa eccedenze di personale e misure alternative ai licenziamenti
collettivi in Riv. It. Dir. Lav., 1996, 63
ss.
[142]Su
cui Papaleoni, Del
Punta, Mariani, La nuova Casa
Integrazioni Guadagni e la mobilità, cit.,
575.
[143]Miscione,
Cassa integrazione guadagni e mobilità
in Crisi aziendali e legge n° 236/93,
cit., IX.
[144]Per
chi li considera esclusi dalla L.223/91. Vedi supra
sub §2.3; contra Mazziotti, Riduzioni
di personale e messa in mobilità in Ferraro,
Mazziotti, Santoni, Integrazioni
salariali, eccedenza di personale e mercato del lavoro. Commento
sistematico alla L.223/91 cit.,
99.
[145]Miscione,
Cassa integrazione guadagni e mobilità
in Crisi aziendali e legge 236/93,
inserto al n°44 di Dir. Prat. Lav. 1993, pag.IX e, anche per l’elencazione dei
benefici fiscali compresi e di quelli esclusi, XI.
[146]Miscione,
op. ult. cit., XI.
[147]Sugli
Enti Bilaterali nell’artigianato Perulli
P., Sabel, Gli enti bilaterali dopo l’inizio: tre approcci ad una interpretazione
operativa in Dir. Rel. Ind.,
1996, 2, 27.
[148]Zoli,
Licenziamenti collettivi e strumenti
alternativi, in Dir. Prat. Lav.,
1993, 44, inserto, XVII; Liso, op.
cit., 27, nota 69. La norma originaria della L.236/93 richiedeva che i
lavoratori percepissero dagli enti bilaterali una “prestazione
di entità non superiore a quella corrispondente alla metà del contributo
pubblico destinato ai lavoratori”; l’art.4
comma secondo del D.L. 16/5/94 n°299 conv. L.19/7/94 n°451 ha
invece modificato la norma nel senso di richiedere “una
prestazione di entità non inferiore alla metà del contributo pubblico
destinato ai lavoratori”, tenendo probabilmente conto delle critiche
avanzate dalla dottrina. Vedi tuttavia infra.
[149]Cfr.
i dati dell’osservatorio sulle imprese artigiane dell’Emilia Romagna in
Ente Bilaterale Emilia Romagna, Imprese e dipendenti nell’artigianato
1995-96, Bologna 1997.
[150]Art.
7 Decreto Legge 148/93 conv. con modifiche nella legge 236/93. La proroga
dell’estensione non è stata, com’era stato auspicato, resa definitiva,
ma il Decreto Legge 185/94, la ha estesa alle imprese da cinque a cinquanta
dipendenti. Sulle successive modifiche alla L.236/93 vedi Ferraro,
Il D.L. 185/94: un ponte verso l’ignoto in Riv. Giur. Lav., 1994, I, 169.
[151]Art.
2 della legge 1/93.
[152]Il
limite massimo é stato elevato da 15 a 50 dal D.L. 299/94 conv. 451/94.
[153]Come
definito dallo stesso art. 12 L. 223/91.In dottrina Papaleoni,
Del Punta, Mariani, op. cit.,
234; Saturno, Trattamento straordinario di CIG nel settore dell’artigianato e del
commercio in Ferraro Mazziotti
Santoni, op. cit., 85 ss.. In precedenza cfr.
l’iniziativa di legge di Ghezzi
ed altri, Norme a tutela dei
lavoratori delle piccole imprese, sulla CIGS e sui licenziamenti,
presentata alla Camera l’11/2/88, sul punto all’art. 12.
[154]Si
tratta, infatti, per lo più di imprese appartenenti
all’indotto di qualche impresa di grandi dimensioni, per la quale
costruiscono semilavorati poi assemblati da quest’ultima Sulla legge
quadro sull’artigianato del 1985 vedi Biagi,
La nuova legge quadro sull’artigianato: appunti ricostruttivi e
profili di diritto del lavoro in Riv.
It. Dir. Lav., 1986, 493; Vitaletti
Bianchini, L’impresa
artigiana dopo la legge quadro, Rimini, 1990, 5ss.
[155]Poi
abrogato, tranne che per il settore agricolo; vedi nota. Su tali modifiche Papaleoni,
La Cassa Integrazione in Papaleoni,
Del Punta, Mariani, op. cit.,
57ss.
[156]Sulle
Casse Edili Bellardi, Istituzioni
bilaterali e contrattazione collettiva. Il settore edile (1945-1988),
Milano, 1989, 161; Id., L’edilizia,
in Relazioni industriali e
contrattazione collettiva in Italia, Bari 1995; Miscione,
Il riconoscimento reciproco
delle casse Edili dopo la legge Merloni
in Dir.
Rel. Ind., 1997, 239..
[157]Sul
punto l’accordo interconfederale 21/7/88, art. 7 e in dottrina Biagi,
L’impresa minore nel diritto del
lavoro verso il 1992 in Quad. Dir.
Lav. Rel. Ind., n°8, 1991, 38; Bellardi,
Istituzioni bilaterali e
contrattazione collettiva. Il settore edile (45-88), Milano, Angeli,
1989, 216; Id., Istituzioni
bilaterali e contrattazione collettiva in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 997, 263; Lago, Contrattazione
collettiva nel settore artigiano in Cesos,
Le relazioni sindacali in Italia. Rapporto 1987 - 88, Roma 1989, Il
Lavoro; Vitaletti Bianchini,
L’impresa artigiana dopo la legge quadro, Rimini, 1990, 5ss; Perulli,
Sabel, Gli Enti Bilaterali dopo
l’inizio: tre approcci ad una interpretazione operativa in Dir. Rel. Ind., 1996, 27ss.
[158]Cfr.
i contratti di solidarietà visti prima, la previsione dell’obbligatorietà
dell’iscrizione e del conseguente versamento dei contributi all’ente per
ottenere sgravi e benefici (Stolfa,
La vicenda degli enti bilaterali
artigiani in Dir. Prat. Lav.,
1994, 2517), nonché la previsione dell’art.18 primo comma lettera a)
della L.24/6/97 n°196 in tema di tirocini informativi e di orientamento.
Sulla legge 196/97 Galantino (a
cura di), Il lavoro temporaneo e i
nuovi strumenti di promozione dell’occupazione, Milano 1997. Di
rilievo anche la posizione assunta dall’INPS che, considerando che sulle
quote da versare all’Ente Bilaterale occorre pagare i contributi,
considera come omissione contributiva il mancato versamento dei contributi
sulle somme dovute all’ente bilaterale, anche se non materialmente
versate, configurandosi così un vero e proprio obbligo di iscrizione.
[159]Perulli,
Sabel, op.
cit., 27.
[160]Previsto
dall’Accordo Interconfederale sempre a livello regionale. Su questo
aspetto degli Enti bilaterali, Miscione, Il sostegno
al reddito degli Enti Bilaterali in Dir.
Prat. Lav., 1997, 2577.
[161]Particolarmente innovativo il regolamento del Fondo di Sostegno al reddito dell’Ente Bilaterale Emilia Romagna che prevede un incentivo all’assunzione di lavoratori iscritti alle liste di mobilità ma privi del sussidio, pari a £ 100;000 settimanali per sedici settimane, elevato del 50% nell’ipotesi di imprese operanti in circoscrizioni con un rapporto tra iscritti alla prima classe delle liste di collocamento e popolazione in età da lavoro superiore alla media nazionale. Analogo incentivo, per la stessa durata, é previsto per i lavoratori licenziati iscritti nelle liste di mobilità sempre senza diritto alla relativa indennità a partire dalla quinta settimana successiva al licenziamento.
[162]Sul
punto Miscione, op.
ult. cit., 1580.
[163]
Mazziotti, op..cit.,
98ss.
[164]Napoli,
op. cit., 189 e già in precedenza
Napoli, voce Licenziamenti,
in Digesto delle discipline
privatistiche, Sez. comm., vol. IX, Torino, Utet 93 e in La
stabilità reale del rapporto di lavoro, Milano Angeli, 1980; Pera,
I licenziamenti collettivi, 208.
[165]Napoli,
op. cit., 189.
[166]Vedi
Circolare 155/91 del Ministero del Lavoro in Dir.
Prat. Lav., 1991, 3321; Soma,
Licenziamento collettivo e licenziamento individuale: ancora incertezze
dopo la legge n.223/91? in Or.
Giur. Lav., 1994, 632. Contra Mora,
op. cit., 182 con ampia rassegna. Sul tema delle sanzioni per i
licenziamenti ingiustificato vedi Scarpelli,
op. cit., 45
[167]Per
l’attuale applicabilità degli accordi interconfederali cfr.
Mazziotti, op. cit., 105; Spagnuolo
Vigorita, op. cit., 205; contra
Miscione, op.
ult. cit., 338-9.
[168]Miscione,
op. loc. ult. cit., 338; Del
Punta, Problemi vecchi e nuovi
in tema di criteri di scelta dei “cassaintegrati”. Il criterio di
rotazione in Giust. Civ. 1984,
I, 3424; Del Punta, I licenziamenti collettivi in Papaleoni,
Del Punta, Mariani, La nuova
Cassa Integrazione Guadagni e la mobilità, cit.,
382. Per una recente revisione della applicabilità generale dei principi di
correttezza e buona fede al nostro ordinamento Cfr. Cass. S.U. 17/5/96 n°4570 in Riv. Giur. Lav., 1996, II, 161; in Not. Giur. Lav., 1996, 188.
[169]Miscione,
op. cit., 339; Galantino,
Diritto del Lavoro, cit., 437.
[170]In
dottrina Mora, op.
cit., 171; Montuschi, op. loc. ult. cit.; Spagnuolo
Vigorita, op. cit., 205 con
ampia rassegna della dottrina; D’Antona,
I licenziamenti per riduzione di
personale nella L.223/91, cit., 322 che anzi ritiene che gli accordi di
cui all’art.5 L.223/91 debbano dettare criteri di scelta conformi a quelli
dell’accordo del 1965.
[171]
Così invece D’Antona, I
licenziamenti per riduzione di personale nella L.223/91, cit., 322.
[172]Contra,
Galantino, op.
ult. cit., 89. Si consideri che se una norma legale non può abrogare un
accordo, tanto meno un accordo può abrogare una norma legale.
[173]Vedi
supra; Del
Punta, op. ult. cit., 384.
[174]Contra
Soma, op.
cit., 636.
[175]La
L.223/91 al primo comma dell’art. 4 lo estende alla sola messa in mobilità
e non anche ai licenziamenti per riduzione di personale. Cfr.
Miscione, op.
cit., 339; Santoni, Crisi dell’impresa, eccedenze di personale cit., 89 ss.
[176]
Pera, I
licenziamenti collettivi, cit., 208.
[177]Pera,
I licenziamenti collettivi, in Giust.
Civ., 1992, 207; D’Antona,
Riduzione di personale e
licenziamenti: la rivoluzione copernicana della L.223/91, cit.,
2023; Lunardon, Il
licenziamento per riduzione di personale: presupposti e criteri di scelta
dei lavoratori in Giur. Piemontese, 1994, 75.
[178]
Sull’opportunità di estendere ai lavoratori delle piccole imprese la
procedura sindacale, con opportuni adattamenti nel senso di prevedere una
rappresentanza territoriale, Pera,
op. loc. ult. cit.
[179]Corte
Cost. 4/3/92 n° 82, cit..
[180]Cass.
14/1/87 n° 222 in Riv. Giur. Lav., 1987, 79; Cass. 6/12/85 n° 6158, ibidem.
[181]Vedi
però le recenti sentenze in materia di licenziamenti disciplinari e per
omessa comunicazione dei motivi: Corte Cost. 23/11/94 n°398 in Dir.
Lav., 1994, II, 507 con nota di Mocella;
Cass. 23/12/96 n°11497 in Foro
It., Rep., voce Lavoro
(rapporto), 1996, 1380; in Mass. Giur.
Lav., 1997, con nota di Pelaggi.
[182]Contra,
Soma, op.
cit., 636.
[183]Per
l’esclusione nel previgente regime Cass. 18/8/82 n°4637 in Giust.
Civ., 1983, I, 467 con nota di Del
Punta; in Mass. Giur. Lav.,
1982, 811; Cass. 26/8/83 n°5498 in Giust.
Civ., 1984, I, 1881 con nota di Del
Punta.
[184]E
per la giurisprudenza richiamata nella nota precedente lo sarebbero anche
quelle di settori non industriali, iscritti o meno.
[185]Galantino,
op. loc. ult. cit..Centofanti,
op.loc.ult.cit.
[186]Pret.
Ciriè, 1/4/87, D’Angelo c/ Soc. Revelli Metalli, in Giur.
Piemontese, 1988, 600.
[187]Vallebona,
op. cit., 432.
[188]In
G.U.C.E. 26/8/92.
[189]Al
di sotto dei 50 dipendenti, comunque.
Biagi, op. ult. cit., 154.
[190]Vedi
le definizioni in G.U.C.E. n°C213 del 23/7/96 e il Documento di lavoro
sugli aiuti alle PMI del 20/9/91 prima e la disciplina comunitaria degli
aiuti alle PMI del 23/7/96 che modifica la disciplina della Commissione
Europea del 20/5/92, approvata con la nota della Commissione del 29/8/97.
Un’ampia rassegna può essere letta in Guida all’Europa, a cura della Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per il coordinamento delle
politiche comunitarie, Roma 1992, 1. La norma di recepimento fa salve le
norme che prevedano limiti diversi, come ad esempio la piccola impresa di
servizi che, in base alla precedente normativa, può occupare non più di 20
dipendenti ed avere un fatturato massimo di 1,9 milioni di ECU; tali limiti
andranno rideterminati tenendo conto del rapporto tra i limiti previgenti e
quelli nuovi previsti dal decreto (In G.U.1/10/97 n°229. Il decreto
sostituisce quello del 12/10/93 in G.U. 6/12/93 n°26 in Dir.
Prat. Lav. 1994, 119).
[191]Vedi
la Raccomandazione della Commissione del 3/4/96, cit.,
pag. 6.
[192]Come
invece fa la direttiva comunitaria, per quest’aspetto non testualmente
recepita dalla legge; contra Trib.
Torino 11/4/85 Soc. Delfer c/Faia in Or.
Giur. Lav., 1985, 865; in Giur.
Piem., 1985, 504.
[193]D’Antona,
Riduzioni di personale, cit.,
2033.
[194]Per
l’esclusione del settore edile Cfr. Pret. Lamezia Terme 18/1/89 Bevilacqua c/ Soc. Bonifati
Costruzioni Generali in Riv. Trim.
Appalti , 1990, 536, con nota di Bertoni.
Per le conseguenze della violazione delle procedure Cass. 20/11/96 n°10187
in Dir. Prat. Lav., 1997, 80.
[195]Vedi
supra §1.3.
[196]Cfr.
l’accordo Buozzi - Mazzini del 2/9/43; vedi anche l’accordo
interconfederale del 1950, art.4, sul punto valido erga
omnes. Cfr. Galantino, op.
cit., 88.
[197]Sulla
inapplicabilità del termine di cui all’art.6 della L.604/66 ai
licenziamenti collettivi nel previgente regime Cass.S.U. 18/12/82 n°5396 in
Dir. Lav., 1984, II, 36; in Giust.
Civ., 1983, I, 137 con nota di Del
Punta; in Foro It., 1983,
I, 1337 con nota di Mazzotta;
in Giur. It., 1983, I, 1, 1515; in Mass.
Giur. Lav., 1983, 256; in Riv. It.
Dir. Lav., 1983, II, 482 con nota di Fabris.
Sulla forma scritta Bollani, Forma
scritta e licenziamento, in Riv.
It. Dir. Lav., 1996, 623.
[198]Pivetti,
op. cit., 27; Spagnuolo
Vigorita, op. cit., 208; D’antona, Riduzioni
di personale, cit., 2029.
[199]Contra,
la Circolare Ministeriale n°151/91 cit..
[200]Cessari,
Dai licenziamenti ai trasferimenti
collettivi, in Cessari - De Luca Tamajo, Dal garantismo al controllo, cit.,
173.
[201]Queste
infatti sono più esposte sia per la maggiore debolezza economica sia per la
minore possibilità di aggiornarsi sulla normativa vigente. Sulla legittimità
dell’attuale sistema sanzionatorio del licenziamento orale vedi Corte
Cost. 398/94, cit..