La forma degli atti connessi al licenziamento individuale
La sentenza in epigrafe
La sentenza in epigrafe oltre a segnalarsi per la particolarità degli argomenti trattati, permette altresì di fare il punto su alcuni aspetti da essa affrontati.
La vicenda è relativa alla realizzazione della Linea Tranviaria Rapida (L.T.R.), una linea di trasporto leggera che avrebbe dovuto collegare la città di Napoli da Est ad Ovest ma che è rimasta invece incompiuta per problemi tecnici, provocando il fallimento dell'omonima società realizzatrice. I lavoratori, tra cui quelli in epigrafe, erano stati licenziati prima della dichiarazione di fallimento ma i recessi, mai revocati né impugnati, erano stati sospesi dall'azienda ai soli fini dell'ottenimento della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (C.I.G.S.) e successivamente erano stati definitivamente licenziati. I lavoratori avevano richiesto l'inserimento nello stato passivo del fallimento per le retribuzioni ed il trattamento di fine rapporto maturati nel periodo di sospensione.
Il tribunale, nell'ammettere i lavoratori per il solo T.F.R., con un'articolata sentenza ha odo di affrontare diverse interessanti questioni tra cui la legittimità e del differimento dei licenziamenti, della rilevanza del recesso per fatti concludenti e della revoca del licenziamento, esaminando altresì i concetti di inefficacia e nullità dello stesso licenziamento.
Fulcro della sentenza è certamente l’elaborazione del concetto di forma degli atti, anche nel ruolo garantistico di valori costituzionali che la moderna dottrina e giurisprudenza tende ad attribuirgli, superando la tradizionale visione della forma come mero limite all'autonomia negoziale, di natura eccezionale e pertanto non suscettibile di alcuna interpretazione espansiva[1].
Il nuovo ruolo assunto dalla forma nel diritto del lavoro trova conferma anche nelle recenti normative in materia di obbligo di informativa delle condizioni di lavoro che il datore è tenuto a comunicare per iscritto al lavoratore e nelle varie norme che impongono tale onere per tutti i contratti e le clausole che derogano il normale tipo di rapporto di lavoro a scapito del lavoratore, quali l’apposizione di termine, il patto di prova, il contratto di formazione e lavoro e quello contratto di somministrazione e così via [2].
La forma del licenziamento e le sue conseguenze: inefficacia e nullità.
QUI VI è UN DUPLICE PROBLEMA DA PORRE IN RILIEVO: LE CONSEGUENZE DELL’ATTO ORALE E LA SANZIONE DA APPLICARE. EVIDENZIARE, ANCHE NELLE CONCLUSIONI.
Tra i temi affrontati dalla sentenza in oggetto vi è quello del significato del termine inefficacia che il legislatore utilizza per definire le conseguenze del licenziamento privo del requisito formale; analoga sanzione è prevista per i licenziamenti collettivi privi della forma scritta o effettuati senza l'inosservanza della procedura.
La differenza tra nullità ed inefficacia del licenziamento risiederebbe nel fatto che l’atto orale esiste ma non produce effetti mancando della forma richiesta mentre quello nullo è solo apparente ma non esiste affatto, tanto da essere definito anche del tutto inesistente o nullo[3]. Un’attenta dottrina ritiene che l’inefficacia in senso stretto si avrebbe solo quando difetti un elemento esterno all’atto stesso, come la forma; mancando invece il contenuto l’atto sarebbe nullo[4]. Tuttavia, negli atti unilaterali recettizi la forma ed il contenuto, cioè la dichiarazione espressione dell’atto, coincidono, per cui la distinzione tra nullità ed inefficacia perde ogni significato[5]; conseguentemente nel licenziamento orale dovrebbe parlarsi su nullità piuttosto che di inefficacia.
La vera inefficacia conseguirebbe all’omessa comunicazione dei motivi[6]. In questo caso, infatti, il difetto di forma riguarda un elemento esterno, vale a dire la giusta causa o il giustificato motivo, che non è costitutivo del negozio ma soltanto un requisito per la sua validità.
Occorrerebbe dunque distinguere la forma come aspetto in cui l'atto si esteriorizza per acquistare rilievo giuridico, dalla forma procedimento, cioè la sequenza di atti necessari al compimento dell'atto finale[7].
Nonostante questo, l’opinione diffusa fino ad oggi aveva considerato l’inefficacia dell’art. 2 in senso lato, cioè di inidoneità dell’atto a produrre qualunque effetto a causa della mancanza di un requisito essenziale[8].
Criticando tale impostazione, ritenuta contrastante con la lettera dell'art. 2 l.604/66, la sentenza in oggetto ritiene di poter inquadrare il licenziamento privo della forma scritta nell'ambito della nullità relativa, rilevabile quindi solo dalla parte nel cui interesse essa è posta dalla legge e quindi sanabile se questa non solleva la relativa eccezione. L'atto privo della forma non sarebbe pertanto assolutamente nullo o inefficace non essendo tale sanzione estrema ricavabile dal tenore della norma, ma dovrebbe piuttosto essere accostata ad altre situazione nelle quali la legge, pur imponendo il requisito formale, consente che la prova dell'esistenza o del contenuto dell'atto possano desumersi da comportamenti concludenti o da atti che conservano comunque un valore giuridicamente recuperabile.
Poiché agli atti unilaterali si applicano le norme sui contratti (art. 1324 cc) e tra i requisiti richiesti a pena di nullità vi è la forma quando richiesta dalla legge(art. 1325 cc quarto comma), dovrebbe intendersi che nei licenziamenti la mancanza della forma scritta richiesta provochi la nullità dell'atto stesso[9]. Deve tuttavia precisarsi che non tutte le norme che impongono una determinata forma lo fanno ad substantiam, dovendo ciò risultare espressamente dalla norma[10]. Va tuttavia chiarito che ciò non vuol dire che la norma debba contenere espressamente la sanzione della nullità, poiché altrimenti la previsione dell'art. 1350 n°13, che dispone la nullità per difetto di forma degli atti indicati dalla legge, non avrebbe alcuna ragione di esistere[11].
Ciò che realmente occorre è che la sanzione della nullità sia ricavabile senza possibilità di equivoci dalla norma[12]. Va anche detto che la forma deve essere intesa nel suo significato di formalismo o procedimento che deve essere reso secondo una determinata modalità, nella quasi totalità dei casi forma scritta.
Nel caso dei licenziamenti, la sanzione prevista dall'ordinamento nell’ipotesi di mancanza di forma è quella dell'inefficacia e non quella della nullità. Certamente questa rientra nell'ampia categoria dell'invalidità, unitamente alla nullità e all'annullabilità. Essa può tuttavia assumere due diversi significati: o quello per cui l'atto non produce effetti ma è comunque valido[13]; oppure quello per cui esso è invalido e quindi non produce effetti[14]. In tale ultima ipotesi non vi sarebbe alcuna differenza pratica con la nullità[15].
Va ricordato che gli atti unilaterali recettizi, come il licenziamento, producono effetti nel momento in cui giungono a conoscenza del destinatario. Occorre dunque per la validità dell'atto che questo sia dichiarato ed indirizzato correttamente. Se la legge imponesse una determinata modalità di comunicazione, non rileverebbe la conoscenza comunque avuta dell'atto da parte del destinatario[16]. Inoltre, se la modalità di comunicazione è imposta dalla legge, essa diviene un elemento della fattispecie la cui mancanza provoca l'invalidità dell'atto[17].
Secondo altra dottrina, il recesso sarebbe composto da una manifestazione di volontà del datore, dalla forma per estrinsecarlo e dalla comunicazione della volontà, per cui non sarebbe valido un licenziamento che difettasse di uno di tali requisiti[18]. Per altra parte della dottrina, il licenziamento non sarebbe un atto tipico a forma scritta ma, purché la sua comunicazione risulti certa, potrebbe risultare anche in forme atipiche, ancorché univoche[19].
L’inquadramento del licenziamento orale nell’ambito degli atti nulli, radicalmente o relativamente, oppure di quelli inefficaci, si riverbera evidentemente anche sulla sanzione da applicare, come dimostra la sentenza in esame.
Le conseguenze che deriverebbero dalla mancanza di forma scritta dell'atto di licenziamento non sono controverse nell'ipotesi in cui il datore è soggetto al regime di stabilità reale, applicandosi certamente quest'ultimo. Nel caso in cui invece manchino i presupposti per l'applicazione dell'art. 18 della L.300/70, la prevalente dottrina e giurisprudenza ritengono applicarsi la cosiddetta tutela reale di diritto comune, mentre una autorevole ma minoritaria corrente di pensiero propende per l'applicazione dell'art. 8 dellal.604/66[20]. Una terza soluzione, oggi ancora minoritaria, è quella dell'applicazione in ogni caso della tutela reale dell'art. 18 St.[21].
3. La forma degli atti connessi al licenziamento: revoca, sospensione,
rinnovazione e convalida.
La dottrina e la giurisprudenza prevalente nega che l’atto nullo possa essere convertito in uno valido e che quindi, qualora si abbia un licenziamento nullo nell’area di libera recedibilità o di tutela obbligatoria, questo possa essere convertito in licenziamento ad nutum, mentre sarebbe possibile rinnovarlo o convertirlo con un nuovo atto valido[22], purché ciò avvenga nel rispetto del principio di immediatezza . e con effetti dal momento della convalida[23]. Può tuttavia dubitarsi dell'esattezza di tale ragionamento in quanto la necessità che il nuovo atto abbia i requisiti formali e sostanziali richiesti dalla legge ed il fatto che gli effetti siano ex nunc e non ex tunc portano piuttosto a ritenere che in tali casi si abbia un nuovo licenziamento.
Con riferimento, invece, alla revoca, essa può avvenire prima che l'atto sia portato a conoscenza del destinatario, impedendo così che questo abbia effetto senza che debba essere accettato da quest'ultimo[24]. Dopo che questi ne abbia avuto legale conoscenza, affinché la revoca possa avere effetto dovrà essere accettata, anche tacitamente o per fatti concludenti, dal destinatario. In quest'ultima ipotesi, il licenziamento non sarà completamente privo di effetti ma costituirà comunque motivo di risarcimento del danno, forfettizzato nelle 5 mensilità[25].
Il problema si era già posto con riferimento alle forme e procedure dettate dalla legge o da CCNL, come ad esempio l'art. 14 dell'accordo Interconfederale sulle Commissioni Interne, ed era stato risolto nel senso che il datore non avrebbe mai potuto convalidare l'atto nullo o annullabile, ma solo rinnovarlo per intero[26].
Ci si chiede quale forma possano avere tali atti connessi al licenziamento. Mentre è evidente che per la rinnovazione e la convalida questa debba essere la stessa del licenziamento, parte della dottrina ha ritenuto che la revoca, a differenza della ratifica, possa anche essere priva della forma scritta, sempre che giunga a conoscenza del destinatario prima dell'atto o che sia da questi accettata, anche eventualmente per fatti concludenti[27]. Tale orientamento ha trovato conferma nella giurisprudenza della Suprema Corte, per cui la revoca è valida anche se effettuata in forma orale in quanto alcuna norma ne impone la forma scritta né tanto meno richiede che essa abbia la forma dell'atto revocato[28]. In ogni caso è indubbio che l'accettazione della revoca possa non avvenire per iscritto[29]. Più di recente la giurisprudenza ha chiarito i requisiti e le conseguenze della revoca del licenziamento illegittimo[30], evidenziando altresì che la forma della revoca possa non essere scritta senza che ciò comporti alcuna irregolarità dell'atto[31]. Analogamente, può ritenersi che anche la sospensione del licenziamento, qualora ammissibile, possa avvenire in qualunque forma, non essendovi alcuna norma ad imporla[32].
4. In particolare, la sospensione concordata dei licenziamenti.
La sentenza in epigrafe affronta il tema della liceità di una sospensione concordata dei licenziamenti già validamente intimati. La fattispecie, indubbiamente anomala, si inserisce nell'ambito di una procedura di riduzione di personale da parte di una curatela fallimentare, fattispecie prevista dall'art. 3 della l. 223/91. Già i primi commentatori della normativa si erano interrogati sull'obbligo o meno del curatore di richiedere preventivamente la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria, prima di un provvedimento di licenziamento collettivo, nonché sulla necessità di applicazione dei criteri di scelta e dell'intera procedura qualora su ravvisasse la necessità di cessare completamente l'attività dell'impresa fallita[33]. E ciò anche se tale cessazione non avvenisse contestualmente alla dichiarazione di fallimento, con la quale cessa l'impresa ma non l'azienda, nonché nell'ipotesi in cui i recessi vengano scaglionati nel tempo[34]. Può tuttavia dirsi che l'obbligo del rispetto della procedura sia da considerarsi comunque necessario come pure quello dei criteri di scelta, salvo che non si licenzino tutti i lavoratori contestualmente[35].
In ogni caso, in presenza di una procedura concorsuale o meno, si pone il problema di accertare se sia necessaria una determinata forma per la sospensione dei licenziamenti validamente intimati e se tale sospensione possa essere effettuata al solo fine della concessione della CIGS.
Per quanto riguarda il primo punto, conformemente a quanto ritenuto dal Tribunale nell'epigrafata sentenza, può dirsi che per la sospensione, come per la revoca del licenziamento, non è necessaria alcuna forma sacramentale[36].
La possibilità di concordare una sospensione al solo fine di ottenere un periodo di CIGS è invece più problematica. Nell'ipotesi di recessi operati nel corso di una procedura concorsuale, se si ritiene che il curatore abbia l'obbligo di richiedere preventivamente un periodo di CIGS, si potrebbe considerare legittima una sospensione dei licenziamenti finalizzata al rispetto di tale obbligo[37].
Ritenendo diversamente, o comunque in ipotesi di licenziamento di personale non ex art. 3 l.223/91, una sospensione dei recessi finalizzata al solo scopo di ottenere un periodo (ulteriore) di CIGS dovrebbe ritenersi illegittimo, anche alla luce del ribaltamento di prospettiva ideato dalla l 223/91 in materia di integrazione salariale[38]. La CIGS nel sistema della legge diviene infatti possibile nella sola ipotesi in cui si ritiene possibile il reinserimento del lavoratore nell'organico aziendale e non nell'ipotesi in cui questo è impossibile fin dal principio.
5. Il licenziamento per fatti concludenti.
Altra problematica è quella del licenziamento per fatti concludenti, cioè quando il licenziamento non è affatto comunicato ma la volontà del datore di lavoro di licenziare è inequivocabile[39].
Poiché la forma scritta rappresenta oggi, come visto, un requisito di validità del licenziamento ad substantiam, dovrebbero in generale ritenersi inidonee forme diverse da quella scritta, per cui il licenziamento per fatti concludenti è stato ritenuto legittimo solo nei pochi residui casi di recesso ad nutum[40]. L'atto di recesso concreterebbe l'estrinsecazione formale della volontà del datore di risolvere il contratto e non potrebbe essere surrogato da altri atti che presupporrebbero, per la loro validità, l'esistenza dell'atto a forma vincolata[41].
Altra parte della dottrina e giurisprudenza ha invece ritenuto che il licenziamento possa manifestarsi anche in forme atipiche, purché risultino certe la conoscenza da parte dell'altro soggetto ed il contenuto risolutorio sia contenuto in un qualsiasi scritto, privilegiandosi la volontà negoziale qualora l'atto, pur privo della prescritta forma, abbia raggiunto lo scopo prefissato[42].
Deve tuttavia notarsi come la forma scritta in materia di lavoro assume una finalità del tutto particolare, non solo di certezza dell'atto ma anche di tutela del contraente debole[43].
Nonostante qualche recente spunto della giurisprudenza di legittimità, infatti, l'onere della prova del licenziamento o se non dell'esistenza del rapporto di lavoro, spetta al lavoratore e solo se questi riesca a provare l'esistenza del rapporto e l'avvenuto licenziamento il datore avrà l'onere di provare le dimissioni[44]. Tuttavia, nel caso in cui nessuno dei soggetti provi come è avvenuta la cessazione del rapporto di lavoro, parte della dottrina ritiene che il rapporto dovrebbe considerarsi ancora in essere[45].
In linea di principio nulla impedisce che una dichiarazione recettizia come il licenziamento possa avvenire con un comportamento concludente qualora questo assuma, nel contesto sociale in cui viene posto in essere, valore inequivocabile di dichiarazione[46], purché il valore di tale dichiarazione appaia indubbio, non potendosi addossare l'onere dell'interpretazione dell'atto al lavoratore[47]. Anzi, dopo che tale comportamento sia giunto a conoscenza del destinatario il quale lo abbia correttamente interpretato, esso non potrà essere più revocato senza l'accettazione della controparte[48].
In effetti, la più attenta dottrina distingue tra forma scritta e forma espressa, prevista dal legislatore solo in casi eccezionali, evidenziando come la manifestazione di volontà possa essere anche tacita, purché scritta[49].
Assodato che nell'ambito lavoristico la forma costituisce parte integrante del negozio giuridico e non solo strumento probatorio, è indubbio che nella gran part e dei casi la forma del recesso costituisca dichiarazione in senso stretto e non solo comportamento concludente[50]. L'inequivocabile manifestazione di volontà che soddisfi il requisito della forma scritta potrebbe quindi essere ritenuta legittima indipendentemente dalla volontà del datore di lavoro[51].
In talune ipotesi, infine, è la legge o la contrattazione collettiva a tipizzare il significato di alcuni atti, come la mancata ripresa in servizio dopo il termine del servizio di lega o l'assenza ingiustificato superiore ad un certo numero di giorni[52].
Altro aspetto è quello del comportamento del lavoratore che, licenziato (anche per fati concludenti), riprenda dietro invito del datore di lavoro la propria prestazione lavorativa, ponendo in essere un comportamento concludente volto alla ricostituzione del contratto. Nell'ipotesi in cui il lavoratore riprenda il lavoro ma dopo la proposizione di un ricorso per accertare l'illegittimità del licenziamento, dovrebbe configurarsi un'accettazione della revoca del licenziamento o della modifica delle condizioni contrattuali sotto la condizione della dichiarazione giudiziale di legittimità del recesso[53].
Sul comportamento concludente di recedere da parte del lavoratore Trib. Perugia 20/2/96 in Rass. Giur. Umbra, 1996, 409
Sulla ratifica per fatti concludenti Cass. 8/2/86 n°814 in Mass. Utet, 1986; Cass. 20/1/84 n°501 in Giur. It., 1985, I, 1, 202 con nota di Galli; ed in Giust. Civ., 1984, I, 2842 con nota di Fornaciari.
[39]Per una panoramica del licenziamento per fatti concludenti vedi Fidanza, Considerazioni in tema di licenziamento per fatti concludenti, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ. 1974, 230; D’Allura, Note in tema di cessazione del rapporto di lavoro per comportamento concludente, in Dir. Lav. 1992, I, 165; Smuraglia, Il comportamento concludente nel rapporto di lavoro, Milano 1963; Natoli, Licenziamento implicito?, in Riv. Giur. Lav. 1955, II, 106. Ad esempio, non é stato considerato sufficiente l’inizio della procedura conciliativa: Cass. 28/3/97 n°2835 in Guida al Diritto, 1997, 20, 43; Viceversa é stato ritenuto sufficiente la consegna al lavoratore dell’atto scritto di liquidazione delle spettanze di fine rapporto, peraltro di fatto già interrotto: Cass. 17/6/96 n°6900 in Lav. Giur., 1996, 336.
Sul comportamento concludente in generale Giampiccolo, Note sul comportamento concludente in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1961, 782; Ferrero, Dichiarazione espressa, dichiarazione tacita e autonomia privata, Torino 1974,; Scalisi, Minifestazione ins enso stretto in Enc. Dir., XXV, 1975, 476ss. Sul comportamneto concludente nel rapporto di lavoro Patti, Il rilievo della tolleranza nel rapporto di lavoro in Dir. Lav., 1977, 405; Giustiniani, Gli effetti dell'acquiescenza del lavoratore durante il rapporto di lavoro in Mass. Giur. Lav., 1936, 600ss; D'eufemia, In tema di acquiescenza del prestatore di lavoro in Giur. Compl. Cass. Civ., 1942, 1002; Smuraglia, Indisponibilità ed inderogabilità dei diritti del lavoratore in Nuovo Tratt. Dir. Lavl. Diretto da Sanseverino - Mazzoni, Padova 1971, 803ss; Aranguren, La tutela dei diritti dei lavoratori, Padova 1081, 348; ferraro, Acquiescenza (acquiescenza del lavoratore) in Enc. Giur. Treccani, Roma 1988, I.
Per la necessità che il comportamento concludente sia inequivocabile Cass.29/1/95 n°519 in Mass. Giur.Lav., 1985, 351; in Giust. Civ., 1985, I, 2788; Marino, La comunicazione scritta del licenziamento nell'interpretazione della Corte di Cassazione in Riv. It. Dir. Lav., 1998, II, 332ss.
[53]Fidanza, op. cit., 244; per la liceità del recesso modificativo peggiorativo delle mansioni per fatti concludenti Id., op. cit., 250ss.