GLI STRUMENTI DEFLATTIVI DEL PROCESSO DEL LAVORO ED IL NUOVO TENTATIVO DI CONCILIAZIONE EX ART. 410 CPC
1. Dal divieto di arbitrato all’obbligatorietà della conciliazione
2. Le ragioni dell’intervento legislativo
3. L’ambito di applicazione della norma
4. La procedura delle conciliazioni nei rapporti di pubblico impiego ed in quelli privati
5. L’effetto interruttivo e sospensivo della domanda di conciliazione
6. Le conseguenze del mancato esperimento del tentativo di conciliazione
7. Problemi di costituzionalità della nuova normativa
8. Considerazioni conclusive
1.
Dal divieto di arbitrato
all’obbligatorietà della conciliazione
Gli istituti dell’arbitrato e della conciliazione, oggetto della recente riforma legislativa del D. Lgs. 80/98 come modificato dal D. Lgs. 387/98, non rappresentano una novità per il nostro ordinamento, essendosi manifestati entrambi agli albori del diritto del lavoro.
L’origine dell’arbitrato è più antica di quella della conciliazione. In una prima fase le società di resistenza, eredi delle società di mutuo soccorso ed antesignane dei moderni sindacati, riuscirono ad imporre ai datori di lavoro un arbitrato (rectius arbitraggio, essendo per lo più volto a creare e non ad applicare determinate regole) del conflitto prima collettivo e poi individuale, determinando dapprima le regole da applicare e poi imponendo l’arbitrato come strumento di quelle regole. Può quindi dirsi che l’ordinamento intersindacale abbia manifestato fin dalle origini la tendenza a non limitarsi a dettare regole per il rapporto individuale di lavoro, ma a volerlo regolare e gestire anche nella fase attuativa[1].
Prima del coinvolgimento dello strumento arbitrale nell’ordinamento corporativo, il legislatore di inizio secolo ha il tempo di tradurre i decenni di elaborazione probivirale nella l. 9/2/1919 n°112, pubblicizzando al tempo stesso l’istituto con il successivo R.D. 31/7/21 e con la l. 20/3/21 n°303, modificativa della legge istitutiva dei probi viri n°295 del 15/6/1893, ed infine sopprimendo con l’art. 1 R.D. 26/2/28 n°471 i collegi probivirali e le commissioni per l’impiego privato istituite con il DL 1/5/16 n°490 e con il R.D. 2/12/23 n°2686[2].
Sebbene la pubblicizzazione dell’apparato probivirale costituisca certamente il motivo principale dell’inaridimento dell’istituto, essa lo preserverà a lungo durante il ventennio corporativo, permettendone la sopravvivenza, in un contesto sociale ormai radicalmente mutato, come residuo del precedente periodo liberale anche se di scarsa attuazione, fino all’emanazione del codice procedurale che bandirà definitivamente ogni forma di arbitrato (artt. 806 e 808 cpc), con le uniche eccezioni dell’arbitrato sui cottimi (art. 412 cpc), sulle qualifiche (art. 96 d.a.c.c) e quello dei consulenti tecnici (art. 455 cpc)[3].
In realtà le due norme del codice di rito avevano ratio profondamente diverse, riconducibili a scelte di natura politica quella sul divieto di arbitrati sindacali dell’art. 808 cpc e alla tutela del contraente debole quella dell’art. 806 cpc, tanto che parte della dottrina aveva tentato di ipotizzare un’implicita abrogazione della prima norma come conseguenza del mutato assetto costituzionale, tesi rigettata tuttavia dalla prevalente dottrina e giurisprudenza[4].
Nonostante il regime corporativo avesse emanato queste norme solo al suo crepuscolo, esse saranno destinate ad avere una vita ben più lunga fino alla riforma del processo del lavoro del 1973[5].
Anche l’istituto della conciliazione era stato disciplinato dal regime corporativo che ne prevedeva una forma obbligatoria solo per le controversie collettive, mentre per quelle individuali era sufficiente una denuncia della lite all’associazione sindacale che poteva eventualmente tentare una conciliazione; in ogni caso, era possibile esperire un tentativo di conciliazione facoltativo[6]. Soppresso l’ordinamento corporativo, non tutte le norme in tema di conciliazione ed arbitrato furono automaticamente ritenute caducate, ma restarono in vigore sia il tentativo di conciliazione giudiziale sia soprattutto il regime delle impugnazioni previsto dall’art. 2113 cc. Furono invece ritenute abrogate le norme che imponevano la comunicazione dell’insorgenza della lite alle associazioni sindacali ed il tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie collettive[7]. In seguito, la recezione delle procedure conciliative previste da accordi collettivi da parte di leggi delegate emanate sulla scorta della l.741/59 fu dichiarata incostituzionale nella parte in cui estendeva le procedure di conciliazione ai soggetti non affiliati[8]. Pertanto, prima della l.108/90, nel nostro ordinamento non esistevano conciliazioni obbligatorie.
Infatti, sia l’art. 7 L. 604/66 sia l’art. 7 sesto comma della L. 300/70 prevedono un tentativo di conciliazione facoltativo[9], mentre le clausole che imponevano conciliazioni obbligatorie previste da numerosi CCLN erano state considerate nulle dalla prevalente giurisprudenza[10].
La compressione della libertà sindacale che in tal modo veniva operata non era avvertita dal legislatore neppure per le conciliazioni e gli arbitrati di grande rilievo come quelli previsti dagli accordi interconfederali sui licenziamenti[11].
La riforma del 1973 incide profondamente sull’istituto della conciliazione, regolamentandolo compiutamente per la prima volta nel regime costituzionale[12]. Questa viene tuttavia indicata sempre come facoltativa e le norme processuali sono strettamente correlate al regime delle impugnazioni di cui al novellato art. 2113 cc, indicandosi analiticamente le varie possibilità offerte alle parti in limine litis per poter rendere certa ed inattaccabile la conciliazione raggiunta in sede sindacale o amministrativa[13].
La dottrina, a seguito di tale riforma, evidenzierà come la conciliazione possa essere intesa o come un negozio plurilaterale o come uno strumento per superare l’instabilità delle rinunzie e transazioni poste in essere dal lavoratore relativamente a diritti derivanti da norme inderogabili, qualora sia effettuata con la partecipazione di un terzo qualificato dalla legge. Intesa in questo senso, essa diverrebbe una sorta di involucro di rinunce e transazioni la cui unica peculiarità è quella di avvenire dinanzi ad un terzo[14].
Anche l’individuazione del ruolo del conciliatore non è di poco conto, giacchè l’inquadramento della conciliazione come negozio trilaterale o come uno strumento processuale e non negoziale comporta che il mancato coinvolgimento attivo del conciliatore (in specie quella sindacale), il quale si limiti ad una mera registrazione dell’accordo, possa invalidate l’intera conciliazione[15].
Parte della dottrina e giurisprudenza giungerà a ritenere che il conciliatore non possa interferire nella regolamentazione dell’assetto contrattuale raggiunto dalle parti, ma debba limitarsi a registrarlo, anche se non di comprende quale tutela il lavoratore riceverebbe in tal caso dalla mera presenza del terzo[16].
Restano invece certamente esperibili le normali azioni di nullità ed annullamento delle transazioni, argomento questo favorevole a chi ritiene che l’intervento del terzo non modifichi la natura negoziale della transazione[17].
2. Le ragioni dell’intervento legislativo.
L’esigenza
di introdurre strumenti deflattivi del contenzioso del lavoro è stata avvertita
già da tempo nel nostro ordinamento ed in particolare da quando, con la
privatizzazione delle FF.SS. prima e dell’Ente Poste poi, questo conobbe un
improvviso e notevole aumento. Conseguentemente, il legislatore comincerà a
individuare nell’autocomposizione della lite un utile strumento deflattivo e
ad individuare alcune ipotesi di procedure arbitrali e conciliative ex
lege[18].
La
disposizione più innovativa a
riguardo è senza dubbio quella dell’art.5 della l.108/90 che ha costituito il
banco di prova dell’attuale conciliazione obbligatoria e degli effetti
esecutivi dell’arbitrato[19].
Gli incoraggianti risultati ottenuti dal tentativo obbligatorio di conciliazione dell’art.5 della l.108/90 negli anni immediatamente successivi alla sua emanazione hanno indotto la dottrina ad interessarsi a questo strumento di contenimento del contenzioso giudiziario[20]. In particolare, il CNEL formula una proposta di legge che sarà sostanzialmente recepita quasi integralmente dal legislatore con il D. Lgs. 80/98[21].
Già le parti sociali, nell’ambito della trattativa per la stipula dell’accordo sul costo del lavoro, avevano individuato nel tentativo obbligatorio di conciliazione un utile strumento deflattivo del contenzioso, scartando altre soluzioni che pure miravano allo stesso obiettivo, come la creazione di giudici speciali per le controversie dei pubblici dipendenti, o la modifica del n° 3 dell’art. 409 cpc per escludere quei rapporti parasubordinati che non risultino caratterizzati da reale dipendenza socio economico[22].
Sotto la spinta dell’imminente spostamento della giurisdizione sul pubblico impiego dal giudice amministrativo a quello ordinario e del prevedibile consequenziale aumento del contenzioso del lavoro, il legislatore è stato finalmente indotto ad occuparsi del problema, con una precipitazione che ricorda quella con la quale fu emanata la l.108/90 in vista della vicina scadenza referendaria[23]; si comprende così la scelta della soluzione più semplice e veloce, cioè quella di inserire nella normativa sulla riforma del pubblico impiego lo schema di legge predisposto dal CNEL, senza praticamente apportare alcuna modifica[24].
Tuttavia, la dottrina aveva già prospettato l’inestensibilità del meccanismo previsto dall’art. 5 l.108/90 a tutti i giudizi[25] ed erano stati individuati alcuni settori nei quali il tentativo di conciliazione avrebbe potuto essere più fruttuoso ed in particolare i giudizi relativi alle differenze di qualifica e di mansioni, alle impugnative dei provvedimenti disciplinari, ove tuttavia già è previsto ed incentivato il ricorso all’arbitrato, ed in generale a tutti i licenziamenti[26].
Permangono, inoltre, gli stessi dubbi che portarono a respingere già nel 1973 la previsione di una conciliazione obbligatoria e cioè che “le procedure di conciliazione operino proficuamente se volontarie e che altrimenti si riducano a mere formalità”[27].
3. L’ambito di applicazione della norma
La generica formulazione del nuovo art. 410 cpc riferisce l’ambito di applicazione della norma a tutti i “rapporti previsti dall’art. 409 cpc”, per cui chiunque intenda proporre in giudizio una domanda relativa a questi ultimi ha l’onere di promuovere preventivamente il tentativo obbligatorio di conciliazione. D’altro canto, la puntuale previsione dell’art. 412 bis cpc ultimo comma delle eccezioni a tale regola sembra confermare tale assunto, escludendo espressamente dall’obbligo del tentativo di conciliazione solo la concessione dei provvedimenti di urgenza e di quelli cautelari (Capo III, Titolo I del Libro IV del codice di procedura civile).
Con riferimento a questi ultimi, dottrina e giurisprudenza erano giunte alla stessa conclusione già con riferimento all’art. 5 della l.108/90, pur in assenza di una specifica previsione[28], in quanto le modalità di proposizione della domanda non possono essere tali da svuotare di contenuto la garanzia costituzionale di accesso alla giustizia[29]. L’incompatibilità era stata individuata da un lato nell’esigenza di evitare il periculum in mora, dall’altro di non preannunziare la misura cautelare quando questa, per sua natura, deve invece giungere inaspettata[30]. Tuttavia, una volta che il procedimento cautelare si sia concluso, prima della fase di merito sarà necessario esperire il tentativo di conciliazione[31].
Proprio l’individuazione dell’ambito di applicazione del nuovo istituto sembra destinato a suscitare, almeno in sede di prima applicazione della normativa, le maggiori perplessità.
In primo luogo, è dubbio se il tentativo di conciliazione sia necessario per la richiesta di decreti ingiuntivi in materia di lavoro. Alla soluzione positiva condurrebbero da un lato la genericità della previsione dell’art. 410 cpc, il quale fa riferimento alle domande relative ai rapporti di cui all’art. 409 cpc senza distinguere tra le varie modalità di proposizione della domanda; dall’altro la mancata previsione dei procedimenti monitori tra le eccezioni previste dall’art. 412 bis ultimo comma[32].
Una tale soluzione non sembra tuttavia appagante se si considerano le numerose perplessità che sorgono relativamente al momento in cui la domanda deve essere sospesa e alle modalità della riassunzione. Infatti, ritenendo che il decreto ingiuntivo non possa essere proposto se non è stato preceduto dalla conciliazione obbligatoria, si trasforma la condizione di procedibilità della domanda in condizione di proponibilità della stessa[33]. Si dovrebbe allora ritenere che il giudice debba sospendere l’emissione del decreto ingiuntivo, comunicando l’avvenuta sospensione all’intimante ed assegnando alle parti (in questo caso al solo ricorrente) un termine di 60 giorni ex art. 412 bis terzo comma entro cui promuovere il tentativo di conciliazione, ma rimarrebbe egualmente incerto il meccanismo con il quale il ricorrente dovrebbe successivamente riassumere il decreto ingiuntivo sospeso. Altrimenti, potrebbe ritenersi che il giudice debba concedere, sussistendone naturalmente i presupposti, il decreto ingiuntivo ed eventualmente sospenderlo in caso di opposizione, unitamente a tale giudizio[34]. Tuttavia, in questa ipotesi, in caso di mancata riassunzione del processo, si estinguerebbe il solo giudizio di opposizione e non potrebbe essere revocato il decreto ingiuntivo emesso.
In realtà, a ben vedere, il meccanismo delineato dall’art. 412 bis di sospensione e successiva riassunzione appare costruito evidentemente sul modello del processo di cognizione ed è difficilmente estensibile al procedimento monitorio per le notevoli differenze esistenti, tanto da far ritenere quest’ultimo implicitamente escluso dall’applicazione della norma in esame. Milita a sostegno di questa interpretazione anche la natura delle domande proposte ex art. 633 cpc che sono basate su prove documentate e dunque più difficilmente contestabili e conciliabili. La stessa ratio della riforma, quella di ridurre il contenzioso risulterebbe stravolta richiedendo il tentativo di conciliazione nell’ipotesi del procedimento monitorio, per sua natura atto a snellire il contenzioso giudiziario. E' stato pertanto proposto che i procedimenti monitori basati sul periculum in mora, cioè quelli per i quali il giudice deve concedere la provvisoria esecuzione, possano farsi rientrare nel concetto di "urgenza" previsto dall'art. 412 bis cpc[35].
Altri dubbi sorgono con riferimento all’art. 28 della l.300/70 che non rientra espressamente nel novero dei procedimenti esclusi dall’applicazione della normativa in esame[36]. Tuttavia, la formulazione dell’art. 412 bis ultimo comma, che fa riferimento ai provvedimenti speciali di urgenza, è stata modificata in tal senso dal D. Lgs 80/98 rispetto all’originaria proposta del CNEL che faceva riferimento ai soli provvedimenti cautelari, apparentemente proprio per farvi rientrare quei procedimenti speciali come l’art. 28 St., caratterizzati dall’urgenza oltre che dalla specialità del procedimento. Trattandosi di rapporti sindacali e non di lavoro, l’ipotesi esulerebbe comunque dai rapporti di cui all’art. 409 cpc.
Vi rientrerebbero, invece, i provvedimenti emessi ex art. 15 L. 9/12/77 n°903 e quelli dell’art. 18 comma settimo L. 300/70, quelli di cui alla L.125/91, nonché le misure cautelari previste dal codice della navigazione[37].
Ancora, mentre nel caso di litisconsorzio necessario il tentativo di conciliazione deve essere esperito nei confronti di tutte le parti, in caso di litisconsorzio facoltativo iniziale, l’esclusione di uno dei litisconsorti dal tentativo di conciliazione dovrebbe condurre alla sospensione parziale del processo[38], come pure nel caso di una domanda soggetta al tentativo di conciliazione proposta in via subordinata[39]. Le ipotesi che possono prospettarsi sono, ad esempio, quelle del litisconsorzio in caso di impugnativa di licenziamento collettivo per presunta violazione dei criteri di scelta, della mancata promozione nell’ambito di un concorso o della domanda di accertamento di interposizione[40]. In tali fattispecie, ci si chiede se il tentativo di conciliazione andrà proposto anche nei confronti di altri lavoratori interessati e se in caso di intervento da parte di questi soggetti nel processo instaurato, essi dovranno o meno proporre il tentativo di conciliazione.
Analoghi dubbi sorgono nell’ipotesi di chiamata in garanzia, ad esempio in caso di cessione di azienda. Se la ratio della norma fosse quella di evitare il contenzioso prima del suo instaurarsi, la soluzione negativa dovrebbe essere preferita.
Nel caso di domanda riconvenzionale, poiché il tentativo di conciliazione svolto ha avuto riferimento alla sola domanda principale, sembrerebbe necessario esperire nuovamente il tentativo di conciliazione, in mancanza del quale dovrebbe essere improcedibile la sola riconvenzionale. Tuttavia non si vede come potrebbe essere sospesa quest'ultima senza sospendere l'intero processo, fornendo così un'ulteriore possibilità al convenuto per diluire la durata del procedimento, in contrasto con la ratio della riforma. Inoltre, risulterebbe assai problematica la disciplina della riassunzione del procedimento, senza che sia chiaro chi ed in quali tempi dovrebbero operare la riassunzione ed in quali tempi, per cui si dovrebbe ritenere inapplicabile l'intera disciplina del tentativo obbligatorio di conciliazione alla domanda riconvenzionale sempre che la conciliazione sia stata tentata per la domanda principale[41].
Analoga soluzione dovrebbe essere prospettato in caso di intervento del terzo (volontario o a seguito di chiamata del giudice o di parte).
Altro aspetto problematico è quello delle domande dirette all’accertamento dello svolgimento di mansioni superiori o inferiori, in quanto deve ricordarsi che l’art. 2103 cc ultimo comma prevede la nullità dei patti contrari ai commi precedenti, senza fare salve le conciliazioni avvenute in sede conciliativa, amministrativa o sindacale.
Compresi nell’ambito di applicazione della nuova norma dovrebbero essere altresì le domande tese ad ottenere il rilascio dell’alloggio dal dipendente mentre certamente escluse sono le controversie del socio di cooperativa di produzione e lavoro sempre che non si richieda l’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato; analogamente per i soci di compagnie portuali[42]. Nessun dubbio, infine, dovrebbe sussistere per le controversie non di lavoro che seguono però il rito speciale, come ad esempio le cause di locazione. Il richiamo alla controversie di cui all’art. 409 cpc porta certamente ad escludere dall’ambito di applicazione della norma tali procedimenti.
4. La procedura delle conciliazioni nei rapporti di pubblico impiego ed in quelli privati
Esaminando più attentamente il procedimento di cui agli artt. 410ss cpc nella nuova formulazione, si può innanzitutto notare che il legislatore indica due diverse procedure: una sindacale ed una amministrativa. Si tratta certamente di una facoltà alternativa, sia pure limitata al caso in cui i contratti prevedano una procedura conciliativa, la cui scelta, che esclude la seconda opzione, spetta a chi per primo inoltra la richiesta di conciliazione (sia datore sia lavoratore), come si evince dalla prima parte dell’articolo; non può tuttavia escludersi che la procedura inizi con un’istanza congiunta delle parti o, comunque, di più parti[43].
E’ da chiedersi se la facoltà di avvalersi delle procedure di conciliazione previste da accordi e contratti collettivi possa espletarsi solo in presenza di procedure contrattuali espressamente volte a tal fine o anche in caso di procedure che solo indirettamente raggiungono tale scopo; in ogni caso queste ultime dovrebbero ritenersi inoppugnabili ai sensi dell’art. 2113 cc e dunque precludere l’azione giudiziaria[44].
Altri dubbi possono porsi con riferimento a quei contratti collettivi che prevedono forme non strettamente conciliative, o per gli autoferrotranvieri per i quali l’art.10 del R. D.148/31 prevede l’obbligo di un preventivo reclamo gerarchico che costituisce condizione di procedibilità della domanda. Sebbene tale reclamo non costituisca una vera e propria procedura conciliativa, in quanto esso viene vagliato unilateralmente da un’apposita commissione senza l’audizione dei lavoratori e, soprattutto, senza l’intervento di un terzo conciliatore, pare difficile sostenere per gli autoferrotranvieri l’esistenza di un doppio ostacolo alla proponibilità dell’azione giudiziaria che non contrasti con l’art. 24 Cost.
Il soggetto che intende promuovere l’azione giudiziaria, oltre a poter optare per la via amministrativa o sindacale, può ulteriormente scegliere se farsi o meno rappresentare da un associazione sindacale cui aderisca o conferisca mandato. E’ da immaginare che, qualora il soggetto si faccia rappresentare da un’associazione e questa sia firmataria di un contratto collettivo che preveda una procedura conciliativa, la scelta del sindacato ricada poi su quest’ultima.
La domanda volta a ottenere la convocazione da parte dell’organo conciliatore (amministrativo o sindacale) dovrà evidentemente contenere un’indicazione almeno sommaria della richiesta del soggetto promotore, oltre alle generalità del richiedente e della controparte. Tale contenuto può essere scisso in petitum, cioè la richiesta dell’istante che dovrà poi corrispondere almeno sommariamente al provvedimento richiesto in sede giudiziaria, e causa petendi, cioè la motivazione delle richiesta formulate. Quest’ultima deve però essere intesa in maniera molto generica, in quanto non si può imporre alla parte un’esatta conoscenza del fondamento giuridico della propria richiesta, soprattutto qualora questi abbia agito personalmente senza conferire mandato ad alcuno[45]. In ogni caso, occorre che la conciliazione tentata corrisponda al successivo giudizio instaurato, sia pure per sommi capi.
Non sembra invece necessaria un’analitica esposizione dei fatti posti a fondamento della domanda nè delle relative richieste economiche o tanto meno la predisposizione di conteggi.
La forma della domanda può essere anche orale, anche se evidenti ragioni di opportunità consiglierebbero la forma scritta; nessun termine di decadenza è previsto per la proposizione della domanda di conciliazione, che può quindi essere proposta nei limiti della prescrizione dei diritti cui si fa riferimento, ferme restando le eventuali decadenze già intervenute[46].
Con riguardo alla sola conciliazione amministrativa, è prevista una specifica competenza territoriale, senza tuttavia indicare uno specifico regime in caso di incompetenza[47]. Il testo originario del decreto non dettava regole particolari per i rapporti di cui all’art. 409 n° 3 cpc, a differenza dell’art. 413 cpc quarto comma come modificato dall’art. 1 della l. 11/2/92 n°128. Tale lacuna è stata colmata dalla nuova previsione del D. Lgs. 387 del 29/10/98 che ha modificato l’art. 410 aggiungendovi l’espresso richiamo all’art. 413 cpc. Pertanto, se la controversia attiene a rapporti di lavoro subordinato, la competenza sarà o del luogo dove è sorto il rapporto o quello nel quale trova la dipendenza dell’azienda alla quale era o è addetto il lavoratore; se invece il rapporto rientra tra quelli dell’art. 409 n°3 cpc, è prevista la competenza della sola conciliazione ove ha il domicilio il lavoratore parasubordinato[48].
Nessuna competenza per valore è stabilita per questa conciliazione come pure per le altre previste dalla legge[49].
Viene confermata la natura ordinatoria del termine di dieci giorni per la convocazione delle parti, essendo indicato un termine massimo dopo del quale la conciliazione non costituisce più ostacolo alla proposizione della domanda[50].
Sebbene né la procedura amministrativa né tanto meno quella sindacale siano ben delineate dal legislatore, possono essere individuate alcune regole generali rispondenti a criteri generali dell’ordinamento giuridico.
L’esistenza di una controversia tra le parti, non necessariamente giuridica, è certamente un presupposto indispensabile per una valida conciliazione: in mancanza, viene meno uno degli elementi essenziali della conciliazione[51].
Ancora, appare indispensabile il rispetto del principio del contraddittorio almeno in linea generale; a seguito della proposizione dell’istanza, la commissione deve convocare innanzi a sé le parti; in questa sede, qualora queste compaiano, è possibile che la vicenda venga sommariamente istruita con l'ausilio e l'accordo delle parti. La commissione dovrebbe altresì analizzare che le parti, e specialmente il lavoratore, siano consapevoli dei propri diritti[52].
Qualunque sia l'esito della comparizione, dell'udienza dovrà essere redatto processo verbale che può essere richiesto dalle parti anche in caso di mancata comparizione.
Il tentativo di conciliazione può naturalmente riuscire o meno. Già in passato, in questa seconda ipotesi, l’art. 412 cpc prevedeva che le parti potessero richiedere copia del processo verbale, ma oggi questa facoltà acquista maggior rilievo in considerazione dell’ultimo comma dell’articolo che prevede che delle risultanze del verbale si tenga conto in occasione della decisione sulle spese del successivo giudizio. Coerentemente, è stato introdotto l’obbligo per il conciliatore di indicare le ragioni dell’insuccesso, ivi compresa la mancata comparizione.
La previsione in ordine alle spese, più ampia rispetto a quella già prevista dall’art. 5 settimo comma della l.108/90, comporta che il giudice debba aggiungere un nuovo elemento di valutazione a quelli degli art. 91 segg. cpc. Sebbene il regime della soccombenza non sia stato espressamente modificato, la relativa quantificazione può certamente subire delle variazioni anche rilevanti. Inoltre, il limite inderogabile delle tariffe professionali, che in passato costituiva comunque un limite minimo invalicabile per il magistrato, è in procinto di essere abrogato[53].
Anche il regime della compensazione delle spese potrebbe subire dei cambiamenti in quanto pure la parte integralmente vittoriosa potrebbe vedersi compensare le spese in ragione del comportamento tenuto in sede di conciliazione stragiudiziale. Sempre ai fini delle spese, la commissione dovrebbe esprimere delle proprie valutazioni non solo circa la posizione delle parti ma anche sul loro comportamento[54].
Diversamente, nell’ipotesi di esito totalmente o parzialmente favorevole del tentativo di conciliazione, ex art. 412 cpc primo comma, il relativo verbale può acquistare efficacia di titolo esecutivo, seguendo le disposizioni dell’art. 411 cpc[55]. In ogni caso, il verbale è valido ed inoppugnabile ex art. 2113 cc già con la firma delle parti e del conciliatore ed il controllo del giudice dovrebbe investire la sola competenza, la provenienza dalla Commissione Provinciale e la regolarità delle sottoscrizioni e la loro autenticità[56].
La procedura delle conciliazioni dei rapporti di pubblico impiego, sebbene improntata essenzialmente a quella prevista per i rapporti privati, presenta tuttavia differenze rilevanti. Va in primo luogo sottolineato come le norme relative alle controversie nel pubblico impiego non siano state inserite nel corpo del codice di rito, come quelle sulle conciliazioni dei rapporti di lavoro privati, ma abbiano mantenuto una loro formale autonomia. Inoltre, sotto il profilo procedurale, le diversità appaiono ancora più evidenti in relazione alla maggiore snellezza e flessibilità delle norme che regolano le conciliazioni private rispetto a quelle più rigide del settore pubblico e alla diversa composizione della commissione (rectius collegio di conciliazione) che nelle controversie relative alla pubblica amministrazione svolge un ruolo molto più attivo, giungendo fino a formulare una proposta di conciliazione alle parti la cui accettazione da parte del funzionario pubblico comporta l’esonero da ogni responsabilità patrimoniale legata al suo comportamento.
Ancora, va ricordato l’obbligo del pubblico dipendente di inviare direttamente una copia della richiesta di conciliazione all’amministrazione di appartenenza e la previsione che impone a quest’ultima di depositare scritte difensivi e nominare un proprio rappresentante in seno al collegio[57].
Un’altra anomalia è quella relativa al meccanismo di esecutività del verbale di conciliazione che è automatica nel settore pubblico ex art. 68 bis quinto comma D.Lgs. 29/93 mentre nel settore privato continua ad essere regolato dall’art. 411 cpc che impone alla parte che voglia fornire di esecutività il verbale di conciliazione amministrativa o sindacale un’articolata procedura.
Va segnalata altresì la particolarità dell’art. 69 terzo comma del D. Lgs. 29/93, come modificato dall’art. 31 del D. Lgs. 80/98, in virtù del quale con l’atto di riassunzione o con la memoria difensiva in convenuto, cioè la Pubblica Amministrazione, può modificare ed integrare le proprie difese.
5. L’effetto interruttivo e sospensivo della domanda di conciliazione
Ricalcando ancora una volta l’esperienza della legge 108/90, che all’art. 5 quinto comma aveva statuito una sorta di interruzione della decadenza nel caso di proposizione della domanda di conciliazione, la nuova disposizione dell’art. 410 cpc secondo comma ha individuato delle cause di sospensione ed interruzione della prescrizione e decadenza legate all’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione.
Le analogie
tra le due norme finiscono tuttavia qui, in quanto la legge del 1990 si era
limitata a stabilire che la decadenza di cui all’art. 6 della legge 604/66,
l’unica che poteva investire l’ambito di applicazione del tentativo di
conciliazione della legge 108/90, veniva impedita dalla comunicazione al datore
di lavoro della richiesta di conciliazione.
Il novellato art.410, invece, stabilisce che la comunicazione della richiesta di conciliazione ha sia un effetto interruttivo della prescrizione sia un effetto sospensivo per tutte le (sole) decadenze[58].
La norma è evidentemente destinata a salvaguardare l’interesse del richiedente la conciliazione la cui durata, nelle intenzioni del legislatore, non dovrebbe pregiudicare in alcun modo i suoi diritti. In mancanza di una tale norma, infatti, la dottrina aveva escluso un effetto interruttivo alla richiesta di conciliazione ancorché comunicata alla controparte; l’unico valore dell’atto era quello di una messa in mora, qualora ve ne fossero i presupposti[59].
La formulazione dell’articolo fa però sorgere non pochi dubbi in ordine alla sua applicazione.
In primo luogo, può chiedersi se il lavoratore che voglia fare discendere dalla domanda di conciliazione l’effetto interruttivo - sospensivo debba formulare la richiesta in forma scritta o meno. In effetti, sebbene nessuna norma imponga un requisito formale alla parte, l’impedimento della decadenza e della prescrizione sono legate alla comunicazione della richiesta di conciliazione, che logicamente dovrebbe essere fatta per iscritto. D'altra parte lo stesso articolo 6 della l. 604/66 e l’art.2113 cc, che prevedono le decadenze più rilevanti in materia di lavoro, stabiliscono che l’impugnativa debba essere fatta con un atto, anche stragiudiziale, scritto. Si può però replicare che, anche se la richiesta di conciliazione sia stata fatta oralmente, la Commissione ricevente deve redigere apposito verbale la cui comunicazione, o quella della convocazione da parte dell’organo conciliativo alla controparte fungerà da atto interruttivo e sospensivo.
Analoga soluzione deve essere data all’individuazione dell’atto che impedisce il verificarsi della prescrizione e decadenza, che la legge indica genericamente nella comunicazione della richiesta. La tesi secondo la quale basterebbe la semplice proposizione della domanda ad impedire la decadenza ed ad interrompere la prescrizione non può essere accolta sia per il tenore letterale della norma sia per la natura recettizia degli atti interruttivi, nei casi non previsti dalla legge. Diversamente, nel caso di specie, la norma indica chiaramente nella comunicazione l’atto che produce tali effetti (atto certamente recettizio) e non nella mera presentazione della richiesta di conciliazione[60].
Va anche evidenziato che la comunicazione produce l’effetto sospensivo per la sola decadenza e non anche per la prescrizione, che dunque ricomincia a decorrere subito dopo l’atto interruttivo senza alcuna sospensione, come avviene invece nel caso di proposizione di domanda giudiziale (art.2945 c.c. secondo comma).
Altro punto non ben delineato è quello della durata esatta della sospensione della decadenza che la legge individua nei 20 giorni successivi alla conclusione della procedura conciliativa[61]. Raccordando tale norma con il successivo art.410 bis, che prevede che la conciliazione si intende espletata decorsi 60 giorni dalla domanda, si potrebbe intendere che la durata della sospensione sia al massimo di 80 giorni, cioè 20 più 60. Tale soluzione, sebbene ispirata all’esigenza di garantire la certezza del decorso del termine di decadenza e dei relativi diritti, non è tuttavia appagante per due ordini di motivi: da un lato, è vero che l’art.410 bis secondo comma prevede che decorsi 60 giorni la conciliazione si intende espletata, ma solo ai limitati fini dell’art.412 bis, cioè della procedibilità della domanda; dall’altro tale interpretazione farebbe riprendere il decorso del termine di decadenza anche nell’ipotesi in cui il tentativo di conciliazione sia ancora in corso dopo 60 giorni.
In effetti, le situazioni che possono verificarsi decorsi i sessanta giorni dalla presentazione della domanda sono tre: o la conciliazione non è in corso in quanto le parti non sono ancora state convocate, ed in tal caso si può ritenere che la conciliazione debba intendersi conclusa e dopo ulteriori 20 giorni la decadenza ricomincerà a decorrere. Oppure la conciliazione è stata tentata nei 60 giorni ma non ha dato i suoi frutti in quanto le parti o non sono entrambe comparse o comunque non si sono accordate; in tal caso il termine di decadenza decorrerà dopo 20 giorni dalla data della mancata conciliazione. Infine, è possibile che la conciliazione sia stata tentata nei termini ma le parti, decorsi 60 giorni, non hanno ancora trovato una soluzione conciliativa che tuttavia stanno ancora ricercando. In tale ipotesi, fino a quando la commissione non dichiarerà concluso il tentativo di conciliazione, ad esempio per mancata comparizione di una o entrambe le parti, i termini dovrebbero restare sospesi.
Va ancora ricordato che l’art.5 quinto comma l.108/90 non prevedeva una causa di sospensione della decadenza di cui all’art.6 della l.604/66, ma una diversa modalità di realizzazione dell’impugnativa. Pertanto, mentre ex art.5 quinto comma, una volta avvenuta la comunicazione al datore di lavoro della richiesta di conciliazione, il lavoratore non aveva più la necessità di impugnare il licenziamento, l’art.410 si limita a sospendere la decadenza ma non integra l’atto impeditivo della stessa che andrà posto in essere una volta cessata la causa di sospensione, o anche prima, naturalmente. Per tale motivo, occorre chiedersi se l’art.5 della l08/90 debba intendersi caducato o meno dalle nuove disposizioni in tema di conciliazione.
Sebbene l’art.43 del D.Lgs. 80/98 non indichi espressamente tale norma tra quelle abrogate esplicitamente, lo stesso articolo abroga tutte le disposizioni incompatibili con quelle del decreto 80/98, tra cui dovrebbe farsi rientrare la norma in questione e le altre ipotesi di conciliazioni facoltative come l’art. 7 l.604/66[62].
6. Le conseguenze del mancato esperimento del tentativo di conciliazione
Il legislatore, seguendo ancora l’esperienza della l.108/90, ha individuato il tentativo obbligatorio di conciliazione come condizione di procedibilità della domanda, cercando in tal modo di superare i problemi di costituzionalità che la norma avrebbe potuto comportare[63].
La natura di condizione di procedibilità risulta in primo luogo dalla lettera della legge, anche se sarebbe stato possibile ricavarla considerando che la conseguenza della mancata proposizione della richiesta di conciliazione è solo la sospensione del processo (art.412 ter terzo comma)[64].
Occorre tuttavia individuare esattamente qual è l’elemento che integra la condizione di procedibilità della domanda, onde evitare che questa divenga una condizione di proponibilità della stessa.
La dottrina, con riferimento all’art.5 della l.108/90, aveva identificato tale elemento nella domanda di conciliazione e non nell’espletamento della stessa, nell’evidente tentativo di non far ricadere sul lavoratore le conseguenze dell’inefficienza dell’apparato amministrativo preposto a tale compito[65]. Tale soluzione era successivamente stata accolta anche dalla Corte Costituzionale che aveva indicato nella mera presentazione della richiesta di conciliazione l’elemento integrante la condizione di procedibilità, sebbene parte della dottrina avesse evidenziato come in tal modo l’istituto veniva svuotato di ogni significato e ruolo, riducendosi ad un inutile appesantimento burocratico[66]. Si era pertanto proposto di imporre un termine dilatorio tra la proposizione della domanda di conciliazione e quella giudiziale[67].
Altri autori ritenevano invece che l'art.5 dovesse essere interpretato individuando l'elemento integrante la condizione di procedibilità non nella domanda ma nella conclusione della procedura conciliativa, indicando il termine entro il quale la procedura avrebbe dovuto svolgersi nei 10 giorni nei quali la commissione avrebbe dovuto convocare le parti[68].
Tale soluzione è stata accolta dal legislatore nel nuovo art.410 bis, come modificato dal D. Lgs. 29/10/98 n°387, che stabilisce un termine di 60 giorni dopo del quale la domanda giudiziale diviene procedibile. Pertanto la necessità di individuare esattamente qual è l’evento che nella nuova normativa integra la condizione di procedibilità viene superata dalla nuova formulazione dell’articolo, che la individua espressamente nel decorso di 60 giorni.
L’opzione accolta dal legislatore dopo l’ultima modifica presenta tuttavia il difetto di obbligare il soggetto che ha proposto la domanda ad attendere comunque il decorso di 60 giorni anche nell’ipotesi in cui la procedura conciliativa si sia conclusa prima dei 60 giorni. Per questo motivo sarebbe apparso più logico identificare la condizione di procedibilità con l’espletamento del tentativo di conciliazione, che normalmente dovrebbe coincidere con la sua conclusione e comunque non avrebbe potuto oltrepassare il termine di 60 giorni dopo del quale il tentativo si deve intendere concluso[69].
Dunque, il soggetto che voglia proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti di cui all’art.409 cpc dovrà presentare preventivamente una richiesta di conciliazione e attendere il decorso dei 60 giorni; solo successivamente, potrà presentare la domanda giudiziale allegando o la richiesta di conciliazione o il verbale negativo[70].
Sempre riecheggiando l’art.5 della l.108/90, il nuovo art.412 bis secondo comma prevede che l’improcedibilità vada eccepita dal contenuto nella prima difesa o rilevata di ufficio alla prima udienza. Dubbia è la possibilità che il giudice non rilevi l’improcedibilità alla prima udienza quando il convenuto, pur non avendola eccepita tempestivamente, la formuli tardivamente all’udienza[71].
Ciò si spiega considerando che la ratio fondamentale della norma è quella di diminuire il contenzioso. Una volta che il giudizio si sia già instaurato, le possibilità di conciliare la lite extragiudizialmente divengono esigue, mentre il tentativo di conciliazione può essere svolto più efficacemente dal giudice ex art. 420 c.p.c..
Rilevata l’improcedibilità, di ufficio o su istanza di parte, il giudice sospende il giudizio concedendo alle parti un termine di 60 giorni per promuovere il tentativo di conciliazione. Successivamente, decorsi 60 giorni dalla presentazione della richiesta di conciliazione di cui all’art.410 bis o esaurita la procedura conciliativa, il processo deve essere riassunto entro il termine perentorio di 180 giorni (art. 412 bis quarto comma come modificato dall’art. 19 D. Lgs. 387/98)[72].
La mancata proposizione del tentativo di conciliazione nel termine perentorio fissato dal giudice non comporta l’estinzione del processo ma la dichiarazione di improcedibilità che, quindi, dovrà essere pronunciata con sentenza; il lavoratore, tuttavia, potrà promuovere un altro giudizio.
Diversamente, la mancata riassunzione nel termine di 180 giorni previsto dalla legge dalla cessazione della causa di sospensione comporta l’estinzione del processo ai sensi dell’art. 307 terzo comma.
7. Problemi di costituzionalità della nuova disciplina
L’introduzione di elementi di condizionamento della domanda giudiziale ha da sempre posto problemi di costituzionalità in relazione al diritto di agire garantito dall’art.24 Cost.. In generale, perché la condizione possa essere legittima occorre che il diritto ad agire non venga leso in maniera definitiva e quindi che l’esercizio dell’azione non sia vanificato o reso eccessivamente difficile, oltre che la condizione sia posta per un’apprezzabile motivo anch’esso costituzionalmente garantito. Inoltre, una volta venuto meno l’ostacolo alla proposizione della domanda, non devono essersi verificate preclusioni che la rendano irrealizzabile (prescrizioni, decadenze, etc.)[73].
Queste garanzie possono non sussistere nelle ipotesi di inammissibilità dell’azione che provoca un definitivo ostacolo alla pronuncia di merito chiudendo il processo con una sentenza di rito, anche se con riferimento alla normativa sulle controversie agrarie (l.3/5/82 n°203 art.46) e sulla determinazione dell’equo canone (art.43-44 l.392/78) la Corte Costituzionale ha dichiarato la questione nel primo caso manifestamente infondata, nel secondo inammissibile[74]. Ugualmente la Consulta ebbe a dichiarare la costituzionalità dell’abrogato art.460 cpc che prevedeva una condizione di proponibilità della domanda previdenziale[75].
A maggior ragione, l’ipotesi di improcedibilità dell’azione con conseguente sospensione del processo che, una volta riassunto, impedisce il verificarsi di ogni preclusione, non dovrebbe comportare alcun problema di costituzionalità[76].
La ratio della norma dell’art.410 cpc appare altresì rispondente ai dettami costituzionali: da un lato l’esigenza di snellire il contenzioso comporta un’indiscutibile miglioramento del diritto di cui all’art.24 Cost.; dall’altro, la necessità di favorire la mediazione sindacale per valorizzare il contratto collettivo ha pur essa un rilievo costituzionale (art.39 Cost.)[77].
La formulazione della nuova norma sembra destinata a superare anche i problemi di costituzionalità che si erano posti in relazione all’art.5 della l.108/90. Con riferimento a quest’articolo, peraltro, la Corte Costituzionale aveva già avuto modo di affermare che l’art.24 Cost. non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento e che le condizioni di procedibilità sono perfettamente compatibili con tale norma[78].
Pertanto, eventuali profili di incostituzionalità che investano la disciplina della conciliazione obbligatoria nella sua interezza non sembrano proponibili, tanto più che l’unico aspetto criticato dalla dottrina e dalla stessa Consulta relativamente all’art.5 l.108/90, quello della mancata previsione di un termine finale per il tentativo obbligatorio di conciliazione, è stato espressamente risolto dalla nuova normativa.
Pure superato appare il dubbio di costituzionalità prospettato dalla dottrina in ordine alla l.108/90 relativamente al termine di 180 giorni per la riassunzione che la legge fa decorrere dalla data di cessazione della causa di sospensione invece che dalla sua conoscenza (o comunicazione). L’esplicita previsione espressa di una durata massima del tentativo di conciliazione supera evidentemente tale ostacolo (art.412 bis quarto comma). Anche la disparità tra i soggetti sottoposti alla condizione o meno a seconda del grado di stabilità del rapporto viene eliminata nella nuova formulazione del tentativo obbligatorio di conciliazione[79].
Dopo la modifica operata dal d. lgs. 387/98, peraltro, alcuni dubbi possono porsi in relazione all’obbligo di dover attendere il decorso dei 60 giorni prima di poter presentare la domanda giudiziale. Non può non rilevarsi, al di là di fondati dubbi sull’effettività di una simile imposizione, l’illogicità della norma laddove le parti abbiano già esperito il tentativo di conciliazione con esito negativo ed abbiano presentato la domanda giudiziale prima del decorso dei 60 giorni: anche in tale paradossale ipotesi il giudice dovrebbe sospendere il giudizio concedendo un termine per esperire nuovamente il tentativo di conciliazione. In effetti, solo un’interpretazione della norma che escluda la necessità di sospendere il giudizio quando le parti dimostrino di avere già esperito il tentativo di conciliazione, ad esempio esibendo il verbale negativo, potrebbe salvare la norma da una censura di incostituzionalità[80].
Altri aspetti problematici possono insorgere relativamente a specifici aspetti della legge, in particolare all’ambito di applicazione della legge e, in particolare, relativamente agli autoferrotranvieri per i quali già vige l’obbligo del preventivo reclamo gerarchico del quale il tentativo di conciliazione costituirebbe un inutile doppione, a meno di non considerare il primo come una forma di conciliazione sindacale che integri il tentativo di conciliazione.
L’intera normativa deve poi fare i conti con l’art.6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che stabilisce “Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta”. La celerità con la quale il tentativo obbligatorio di conciliazione deve essere espletato e la previsione della procedibilità dell’azione superato il termine di sessanta giorni dovrebbero altresì essere sufficienti a garantire il rispetto del trattato[81].
Va infine ricordato come la norma in esame è inserita in un contesto particolare, quello della riforma del pubblico impiego emanata sulla scorta della delega contenuta nell’art.11 quarto comma della l.59 del 15/3/97. Poiché la legge delega contiene un richiamo, sia pure generico, alla possibilità che il Governo emanasse norme in materia di razionalizzazione del processo del lavoro, nessun eccesso di delega sembra poter essere prospettato nella normativa in esame[82].
8. Considerazioni conclusive
In conclusione il legislatore con gli artt.30-31-32-36ss del D. Lgs. 80/98 ha recepito le numerose istanze provenienti da più parti di fornire al processo del lavoro nuovi strumenti atti a contenere il contenzioso, già oggi giunto a livelli di guardia e destinato ad accrescersi con la devoluzione al giudice ordinario della giurisdizione sul pubblico impiego.
La soluzione adottata è stata principalmente quella di rendere obbligatorio il tentativo di conciliazione sia pure con delle significative differenze tra il settore pubblico e quello privato, non ultimo quello della diversa data di entrata in vigore[83].
Accanto a questo strumento deflattivo, auspicato da gran parte della dottrina[84], la parziale modifica dell’istituto arbitrale dovrebbe, nelle intenzioni del legislatore, completare il meccanismo di risoluzione extragiudiziale delle controversie di lavoro, anche se i principali ostacoli alla diffusione del nostro ordinamento dell’arbitrato, e cioè la precarietà del lodo e l’impossibilità di deliberare secondo equità, non sono stati scalfiti dalla riforma operata.
Secondo parte della dottrina, il tentativo obbligatorio di conciliazione potrebbe risultare la chiave vincente del tentativo di ridurre il contenzioso; fondamentale sarebbe l’esperienza dell’art.5 della l. 108/90 che, prima della sentenza 82/92 della Consulta, aveva fornito risultati incoraggianti[85].
Queste conclusioni non possono essere condivise.
Infatti, si è già visto da un lato che tali risultati positivi sono probabilmente frutto di una lettura parziale delle conciliazioni effettuate, dall’altro che l’oggetto della l.108/90, il licenziamento nell’area di tutela obbligatoria, era particolarmente suscettibile di monetizzazione e quindi più facilmente transigibile[86].
Né possono dirsi risolutivi quei correttivi proposti da parte della dottrina di trasformare il tentativo obbligatorio di conciliazione da condizione di procedibilità a condizione di ammissibilità della domanda, che suscitano seri dubbi di costituzionalità[87].
Per trovare adeguate soluzioni all’aumento del contenzioso, che già prima della devoluzione al giudice ordinario delle controversie del pubblico impiego aveva raggiunto livelli di guardia, occorre in primo luogo analizzare la natura delle controversie di lavoro.
La maggior parte dei giudizi sono costituiti da cause seriali, aventi cioè ad oggetto questioni identiche ed è a questo tipo di contenzioso che occorre mirare se si vuole risolvere il problema[88].
Le controversie seriali costituiscono un notevole momento di conflitto tra sindacati ed aziende e spesso anche tra lavoratori e sindacato. Con tali liti i lavoratori sostengono o l’applicazione della legge interpretata più favorevolmente rispetto alla contrattazione collettiva o la prevalenza di accordi più favorevoli su altri meno vantaggiosi o, infine, un’interpretazione del contratto diversa da quella praticata fino a quel momento. Il risultato è quello di modificare sostanzialmente la previsione di costi fatta dall’azienda nonché di incidere sugli equilibri contrattuali raggiunti, soprattutto nell’ipotesi che le controversie non siano state promosse tramite sindacato ma da gruppi autonomi di lavoratori o di sindacati minori.
La risoluzione di queste controversie permetterebbe dunque sia di superare il problema dell’aumento spropositato del contenzioso sia quello dell’incrinatura delle relazioni industriali[89].
Varie soluzioni sono state prospettate da parte della dottrina ma nessuna di queste sembra realmente in grado di risolvere il problema in esame. La soluzione di consentire un arbitrato più stabile e soprattutto di permetterlo secondo equità potrebbe risolvere le controversie individuali ma certo non quelle collettive. Anche un’eventuale adesione del sindacato a tale soluzione non potrebbe giustificare un’imposizione ai soggetti dissenzienti delle decisioni, anche perché spesso le controversie seriali, come detto, sono promosse da gruppi in contrapposizione proprio ai sindacati tradizionali: in questo caso, l’art.24 Cost. costituisce un insormontabile ostacolo per tali soluzioni.
Una possibile soluzione per le controversie future, dopo però la scadenza contrattuale, è stata individuata negli accordi interpretativi dei precedenti contratti; tali accordi incidono tuttavia solo per le posizioni future e non per i diritti acquisiti dai singoli. Un interessante sviluppo, che ha dato risultati validi in talune occasioni, è costituito dai cd. accordi processuali. Si tratta di un intervento delle parti sociali su clausole contrastate ed oggetto di contenzioso, che operano per il futuro un’interpretazione autentica e predispongono per il pregresso accordi transattivi per i singoli lavoratori, su uno schema “ad adesione”[90].
Oltre questo strumento, che non riguarda il piano legislativo ma le singole parti, possono essere individuate altre possibilità come ad esempio l’introduzione nel nostro ordinamento delle cd. ”class actions” previste nell’ordinamento statunitense[91], giudizi promossi dai singoli appartenenti ad una categoria che agiscono per tutelare interessi collettivi. Il giudizio fa stato per tutti gli appartenenti alla categoria che possono intervenire in giudizio o dissociarsi entro un termine prestabilito. Si tratta, tuttavia, di uno strumento lontano dalla nostra mentalità giuridica e difficilmente esportabile nel nostro ordinamento, tanto più che non ha dato risultati positivi negli USA.
Altra ipotesi è quella in cui le parti, delineate le reciproche posizioni, affidino la soluzione ad alcuni giudizi pilota cui si impegnino a sottostare. Tale soluzione presuppone ovviamente che i soggetti contrapposti siano d’accordo per una soluzione ragionevole della questione ed è dunque difficilmente ipotizzabile laddove le controversie non abbiano origine sindacale[92].
Più consono alla nostra cultura giuridica è invece l’accertamento pregiudiziale dei contratti collettivi, previsto dall’art.30 del d.lgs.80/98 per le sole controversie relative al pubblico impiego. Se il meccanismo dovesse funzionare, non è improbabile una sua generalizzazione a tutte le controversie dell’art.409 cpc, anche se allo stato appare estremamente difficile prevedere gli sviluppi dell’istituto. In ogni caso, resterebbero fuori dal campo di applicazione dell’istituto le cause seriali non fondate su interpretazioni del contratto ma su contrasti tra questo e la legge.
Potrebbe invece risultare decisiva l’introduzione nell’ordinamento lavoristico di una distinzione per valore delle controversie, distinguendo almeno due fasce economiche per le rivendicazioni avanzate ed eventualmente escludendo l’impugnativa in appello per quelle di minore valore; tali giudizi potrebbero inoltre essere decisi secondo equità, riprendendo in sostanza l’esperienza del giudice di pace in materia civile. Le controversie di minor valore, ad esempio sotto i 5 milioni, sarebbero dunque risolte con una procedura più snella, senza appesantire i giudizi di maggior peso, neppure in grado di appello, e consentendo ai giudicanti di decidere secondo equità[93].
Questa soluzione, pur non risolutiva del problema che si limita a trasferire in altra sede, ha tuttavia il pregio di snellire il ruolo dei giudici e consentire una rapida trattazione delle questioni più rilevanti, come ad esempio i licenziamenti.
Inoltre, esso potrebbe essere affiancata da altre soluzioni prospettate, quali il rinvio pregiudiziale e lo stesso tentativo di conciliazione, che ne risulterebbero rivalutati.
In conclusione, pur avendo coscienza del problema del contenzioso del lavoro, il legislatore ha individuato delle soluzioni non sufficienti da sole a consentire di risolverlo, perdendo in qualche misura l’occasione offerta dalla delega al Governo di cui la normativa è frutto. Tra le soluzioni innanzi prospettate, il legislatore ha scelto quella forse più semplice e già sperimentata, ma meno efficace a risolvere il problema, che con l’avvento delle cause del pubblico impiego non potrà che aggravarsi. La maggiore celerità delle controversie di lavoro rispetto quelle civili, che costituiva lo spirito della riforma del 1973 rischia di essere definitivamente compromesso, e questo proprio nel momento in cui il processo civile è stato largamente rimaneggiato sui principi ispiratori del processo del lavoro.
Non resta dunque che sperare che l’unico strumento veramente innovativo predisposto per le controversie del pubblico impiego, il rinvio pregiudiziale, dia i frutti sperati e che possa pertanto essere esteso agli altri settori o che il legislatore, nel caso di scarsa effettività del rimedio adottato, ponga nuovamente mano alla riforma del processo del lavoro.
Marco Mocella
11 Cass. 6/3/84 n81552 in Foro It.,
Mass., 1984, 303; Cass. 3/12/91 n°12929 in Rep. Utet, 1991, 2515. In dottrina Mocella,
Sull’impugnativa della conciliazione
giudiziale, amministrativa e sindacale nel processo del lavoro in Dir.
Giur., 1994, 447.
Anche
la conciliazione giudiziale resta frutto della volontà delle parti e
mantiene dunque intatta la propria natura negoziale (Flammia,
op. cit., 7; Assanti, Conciliazione
in materia di lavoro cit., 271, nota 1; Cass. 25/10/80 n85735 in Mass.
Giur. Lav., 1981, 77; Ciccotti,
Contributo all’autonoma
qualificazione della conciliazione giudiziale dal negozio transattivo in
Riv. Giur. Lav., 1990, II, 416. Contra
Montesano, Mazziotti, Le
controversie di lavoro e della sicurezza sociale, Napoli 1974, 54-55.
La
distinzione con la transazione e la rinuncia risiede nell’assenza in
queste della figura e del ruolo del terzo. La rinunzia, infatti, costituisce
un atto unilaterale recettizio (irrevocabile quando accettata o giunta a
conoscenza del destinatario), mentre la transazione Ë un negozio
bilaterale, definito dall’art.1965 primo comma “il contratto col quale
le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già
incominciata o prevengono una lite che può
sorgere tra loro”; si discute se quest’ultima presupponga sempre
l’esistenza di una lite in atto o meno (Carresi,
Transazione (diritto vigente) in Noviss.
Digesto Italiano, XIX, 1973, 482 note 3-4), mentre Ë pacifico che su
una questione non controversa non possa esservi transazione, nonostante il
disposto dell’art. 1974 cc. Per i giureconsulti romani chi transige una
questione non controversa non transige ma dona: cfr. Ulp. Framm. 1, D, 2,
15; Ps. Paolo, Sent., 1, I, 5.
[60]Contra
Sarchettini, La
nuova competenza cambia il look al rito del lavoro in Guida
al Diritto, 1998, 16, 113. Per il settore del pubblico impiego la legge
elimina ogni dubbio prevedendo espressamente che il lavoratore debba inviare
una copia della comunicazione all’amministrazione (art.32 secondo comma D.
Lgs. 80/98). Questa interpretazione trova riscontro nella giurisprudenza che
nega valore interruttivo o
sospensivo alla presentazione della domanda giudiziale non notificata alla
controparte, come il deposito del ricorso in materia di lavoro: Cass.
17/1/92 n8543 in Arch. Civ., 1992,
673; Cass. 4/3/87 n82290 in Mass. Utet,
1987, 9, 2290; Cass. 2/4/81 n81876 in Foro
It., 1981, I, 1274. La
comunicazione del tentativo di conciliazione è stata ritenuta obbligatorio
anche nel settore privato per la validità delle conciliazioni: Pret.
Catania, 16/1/99, decr., in Guida al
Lavoro, 1999, 11, 33 con nota critica di Mascheroni.
[83]Di
Vittorio, Le
controversie legali di lavoro pubblico e privato introdotte dal D.Lgs. 80/98
in Lav. Giur., 1998, 463. Vedi
anche la Circolare del Ministero del Lavoro del 3/6/98 n876 in Guida al Lavoro, 1998, 27, 21;
Massi, op. cit., 1726.
[93]
Analoga sorte potrebbero subire le
controversie previdenziali, che pure richiedono giudici specializzati ma che
spesso vertono sempre su questioni simili, con l’esclusione del giudizio
secondo equità in tale ipotesi.