Dioniso all'italiana

Il laboratorio di scenografia del Teatro La Fenice

in L'immagine e la scena, Marsilio editore, Venezia 1992

Il luogo e il lavoro
La storia
Otello
Falstaff

Bisogna ritrovare una attesa, una ricerca, creare la notte, il nero, spegnere tutto ciò che non é sensazione
Louis Jouvet, Note sull'edificio drammatico

Proviamo a trasformare le quattro mura di casa nostra in un laboratorio storico-scientifico-culturale -o se volete in un teatro del Settecento- effettuando l' esperimento di spegnere le luci elettriche e restare una sera al lume di candela: spente con l'elettricità anche radio, TV, telefono, fax, modem e tutte le altre diavolerie che ripetono ogni momento nelle nostre case, con pretesa chiarezza, il fracasso del mondo esterno. Gli occhi si abituano rapidamente, e l'ombra si rivela presto più ricca di sorprese di quella, densa e scura, caratteristica della luce elettrica alla quale siamo ormai completamente abituati. Osserviamo a distanza una figura su un libro, un quadro sulla parete, illuminati da un certo numero di fiamme vive. Capiremo come, alla luce incerta e sempre insufficiente dei teatri di un tempo, bastavano quattro tele dipinte per dare via libera ai sogni. Gli spettatori di allora erano certo più liberi, in quello spazio separato, di prendere per vere fantasie come la "rigorosa esattezza storica" vantata dalle scene dell'Aida, di quanto non lo siamo noi, oggi, di mettere in dubbio che quello che vediamo in TV o al cinema sia realtà che ci riguarda. Alla conclusione dell' esperimento, consideriamo -un attimo prima di premere l'interruttore- che non sarebbe bastata la semioscurità a misurare la distanza che ci separa da un tempo privo di luce elettrica, se non fossimo stati aiutati dalla facoltà che è la più gentile dell'anima; ma anche la più inquietante: la fantasia. Il sollievo al riaccendersi delle solite lampadine, che interrompono il suo rigogliare nella penombra, ne rivela la fondamentale ambiguità.

Una volta la scenografia si imparava dipingendo. Ancora oggi, fra gli addetti ai lavori di un grande teatro lirico, per "scenografia" non s'intende, come fra i profani, il complesso delle "opere morte" dello spettacolo. Questa parola indica invece solo una attività, la pittura delle tele, insieme al luogo dove si svolge. L'antico laboratorio è una delle caratteristiche originali del teatro La Fenice. Tutti i grandi teatri d'opera ne avevano uno. Ma pochissimi lo hanno conservato intatto nel corso delle stagioni.

Il luogo e il lavoro

Nel progettare il La Fenice " ... l'abile inventore ... penserà a tutte quelle adiacenze delle quali sono provveduti i più celebri teatri d'Italia, cercando di migliorarle ed accrescerle singolarmente negli usi e comodi della scena, degli attori di ogni classe, e degli operai che molto contribuiscono al buon ordine dello spettacolo ..." recita il bando di concorso del 1789. Situato sopra il foyer, l'attuale laboratorio venne progettato da Giovanbattista Meduna, architetto della rapida ricostruzione seguita all'incendio del 1836, di concerto con Francesco Bagnara, allora riconosciuto scenografo veneziano. Vi si può accedere solo attraverso una stretta scala a chiocciola e certi altri disagevoli passaggi nelle soffitte. In un ambiente vicino, simile ma più piccolo, irregolare e inadatto al lavoro, situato sopra la volta della sala, si trova la vecchia macchina di sollevamento del lampadario, che ha qualche cosa di leonardesco. Da quassù, da una specie di gabbia da uccelli che contiene alcuni riflettori, si può sbirciare in sala il pubblico ignaro. Più avanti, camminando con attenzione alla luce polverosa delle lampadine di servizio fra le scalette e le passerelle che scavalcano le grandi travi del tetto c'è il meccanismo dell'orologio, ancora perfettamente funzionante. Più avanti ancora, dopo due modernissime porte antincendio, verniciate di un bel giallo, si sbocca nei grandi ballatoi di manovra della torre scenica. Con questa breve passeggiata la curiosità sia per il momento soddisfatta.

Torniamo ad osservare meglio il laboratorio. E' costituito da uno stanzone grande come tutti gli ambienti che copre, che misura circa m. 20 per 17, ben illuminato da finestroni semicircolari e tutto pavimentato di legno di abete. Vicino all'ingresso una stanza dotata di grandi lavandini, fornelli e un frigorifero: una cucina sui generis per la cottura delle colle (foto). In alto corrono le enormi travi reticolari di legno che sorreggono il tetto, capolavori di carpenteria, tanto che nell'ufficio di uno dei dirigenti fa bella mostra di sé la riproduzione in scala di una di esse (foto). L'atmosfera è quella tipica di un laboratorio artigiano.

Dalla guizzante bacchetta del direttore al raffinato martello usato dai macchinisti, tutto in teatro è artigianato, cioè attività che mantiene dall'inizio alla fine il controllo sui propri risultati. "Opera" è il plurale latino di "opus": lavoro. L'edificio del La Fenice è risultato di una splendida simbiosi di artigianati diversi. Lavori di musicisti, cantanti, librettisti, scenografi, strumentisti, impresari, sarti, calzolai, parrucchieri, pittori, attrezzisti, illuminatori, maschere, ballerine, comparse; all'interno di queste categorie differenze ulteriori: la varietà degli strumenti distingue i musicisti; fra i macchinisti vi sono: costruttori, gente di soffitta e di sottopalco, fabbri, armatori, falegnami; fra gli scenografi, gli artigiani che qui particolarmente ci interessano: bozzettisti, realizzatori, disegnatori liberi e di prospettive, coloristi, stuccatori, ecc.. Né vanno dimenticate le inclinazioni di ognuno. Tutta questa gente, abile ad afferrare e trasporre in scena frammenti significativi del mondo esterno, è incline a portare in teatro anche le sue più minute esigenze quotidiane: la sarta che cuce un costume sa anche aggiustare un vestito vero, richiesta alla quale è quotidianamente esposta; lo stesso vale per falegnami, elettricisti, calzolai.... Rovesciando Shakespeare, e aiutati dalla sua caratteristica tendenza all'isolamento, si può finir così vedere nel palcoscenico l'immenso mondo.

Da esso il teatro si separa con molti margini, concreti o solamente pensati, spesso sovrapposti e incrociati: massicci come mura di pietra o virtuali come il luogo dove si finge l'azione. Al loro interno giocano altri margini, più o meno sottili, più o meno attraversabili: porte aperte e porte chiuse a chiave, o aperte ma più o meno proibite; tende, tele, veli, sipari, parapetti, finestre che danno in vani oscuri, botole, archi, corridoi, cavedii, canali in cui passano corde, fili, tubi, condutture, cordoni, per limitarsi alla metafora architettonica, nella quale si materializza, come un fiamma viva, il genio di questi luoghi: la curiosità. Non si può aggirarsi in un teatro senza provare il desiderio di avventurarsi in uno dei tanti varchi proibiti, chiedendosi continuamente: "Cosa c'è qui dietro, un uomo o una meraviglia?" Se si hanno la fortuna e il coraggio di guardare si scopre sempre un uomo, anche se spesso diverso da come ce lo aspettavamo.

La vera funzione di questi margini, a prima vista tabù, inattraversabili, è solo quella di tenere lontani gli sciocchi e i profani. Via via che si guadagna terreno, attirati dal palcoscenico, essi si fanno sempre più evanescenti e sfumano mostrando smagliature, pertugi, passaggi liberi.

L'"Opera" funziona proprio così. La proficua collaborazione fra le varie discipline artigiane che si danno convegno dall'altra parte del sipario si manifesta in una continua ricerca di inedite forme di rapporto fra loro. I buoni tecnici sono quelli capaci si saper fare molte cose diverse e aiutare la creazione teatrale con la loro esperienza delle possibilità di passaggio e di scambio da una disciplina all'altra. Un bravo pittore scenografo può dare suggerimenti al datore luci circa gli effetti necessari allo spettacolo. Quest'ultimo, se è il caso, chiederà al sarto particolari accorgimenti. E chissà cos'avrà da dire il sarto, più bravo ancora... Si potrebbero fare mille altri esempi. Artista è, chi, artigiano fra gli altri, intuisce le potenzialità creative di ognuno di questi incontri di discipline diverse e crea le condizioni -la prima delle quali è la sua sensibilità, ma non meno importanti sono l' esperienza e il ruolo che ricopre- per coglierle al volo e valorizzarle. Proprio come dalla botola del lampadario, i punti di vista inconsueti, spesso trovati per caso, sono i più interessanti. La parola in uso per segnalare il buon risultato di questi tentativi è "giusto". La pratica offrirà poi l'occasione di scoprire perché quel determinato effetto era "giusto" in quel luogo e in quello spettacolo. "Giusto" vuol dire: coerente con le intenzioni espressive del testo, misurato con gli altri effetti, non fuorviante rispetto a quello che si vuole dire, adatto al teatro e al pubblico, insomma tante cose, che vengono sintetizzate per comodità con questo aggettivo.

"Ci devi venire..." Non c'è segnale migliore del valore di uno spettacolo della impossibilità di riferirne: paradosso della critica ed esperienza comune a tutti. Quanto meno contenuto del teatro è descrivibile, ma solo approssimabile con metafore diverse, tanto più vigorosa è l'attrazione verso di esso. Esso è l'anima di questi luoghi e ne assimila la storia e l'evoluzione a quella di un organismo vivente. L'avvicinamento fra Meduna e Bagnara è solo un esempio.

Nasce così il teatro "all'italiana". Adattando l'edificio alle loro meno sospettabili esigenze gli abili collaboratori delle messe in scena lo hanno trasformato nel corso degli anni. Qualità principale di questa tipologia, della quale il La Fenice è uno degli esempi più fulgidi, è la capacità di tenere assieme e far convivere ogni possibile diversità, secondarne gli amplessi, covare i concetti nuovi, aiutarli a rompere il guscio, proteggerli nei loro primi voli e presentare infine al suo pubblico, con la più ricca pompa, le novità così generate.

Dobbiamo a uno studioso acuto come Ferdinando Taviani la migliore definizione degli artigiani teatrali: essi sono "specializzati a non essere specializzati". Lo "specialismo" di questo mestiere, la sua tradizione, è quella di una mimesi secondaria, trasversale. Può sembrare paradossale che per conseguire l'obbiettivo finale dell'originalità assoluta, teatri e teatranti si imitino continuamente l'un l'altro. La lirica imita la prosa, Vienna imita Parigi, Roma New York, e gli esperti si fanno sospettosi quando incontrano chi si vanta di non imitare nessuno.

Anche la disposizione interna e le attrezzature spesso si rassomigliano, come può ben vedere chiunque sfogli un trattato di architettura teatrale, che solitamente contiene tavole comparative di teatri diversi (illustrazione di una tavola comparativa di teatri diversi da trattati primo ottocento). Il laboratorio di scenografia, obbedendo a questa regola, aveva, nel teatro "all'italiana" la sua situazione canonica: fra il soffitto degli ambienti riservati al pubblico (allo stesso livello, in palcoscenico, c'è la torre scenica) e le capriate del tetto, dove potevano venire distesi i fondali perché i solai dovevano portare il minor numero di appoggi. Ecco la ragione funzionale, documentata, delle grandi travi della scenografia: lasciare libero il piano di legno per potervi inchiodare, tagliare e dipingere le tele distese. Poiché erano poche le persone che vi lavoravano, non ostacolava questa destinazione d'uso la difficoltà di accesso. C'erano invece spazio, luce, aria, collegamento con la graticcia, quella sorta di gigantesco ascensore sopra il palcoscenico, al quale vengono sospese le tele più grandi. Nei teatri di oggi questi laboratori sono quasi del tutto scomparsi.

La storia

Nell'architettura dei teatri la storia, le guerre e le mode si riverberano in mille modi, come in un lampadario di cristallo. Nella seconda metà dell'Ottocento i teatri crescono, si moltiplicano e si diffondono dovunque, con la conseguenza di una generalizzato degrado della tecnica esecutiva. I più importanti fra loro, i modelli più imitati, i grandi teatri d'opera di Parigi e di Vienna, vantano le migliaia di metri cubi di costruito e celebrano lo spirito dell'epoca accozzando insieme artisti e stili architettonici diversi in uno storicismo eclettico privo d'incanto. L'architetto di Napoleone III, Charles Garnier, autore dell' Opéra, consiglia per primo l'allontanamento del laboratorio di scenografia dalla sede fisica del teatro, dichiarando ottimali per esso superfici spropositate: cinquemila metri quadrati per l'atelier di pittura, duemilacinquecento per quello di costruzione. Piazze d'armi più che laboratori artigiani. Verdi inchioda fra le note dell'Aida lo spirito nazionalista, tronfio e guerrafondaio della seconda rivoluzione industriale che dilaga in Europa.

Il teatro italiano più imitato era senz'altro La Scala, e ogni innovazione da esso adottata, come quella, gravida di conseguenze, del taglio della ribalta e della creazione del golfo mistico, veniva presto replicata in tutti gli altri teatri che aspiravano ad essere "all'altezza dei tempi". Alla Scala, nel restauro seguito alle distruzioni della II Guerra Mondiale, lo spazio dei vecchi laboratori di scenografia viene occupato da ambienti riservati al pubblico popolare accolto ormai ovunque nei capaci loggioni che sostituiscono i palchi di infimo ordine.

Il La Fenice seguiva le mode, e talvolta ne era stato l'artefice. Le trasformazioni in corso interessano anche lui. La luce a gas viene sperimentata qui prima che in tutto il resto della città nel 1834, poi abbandonata e ripresa soltanto nel '44, tre anni dopo l'entrata in funzione della rete cittadina di distribuzione. Il taglio della ribalta viene effettuato nel 1937. Sempre nel '37 sono installate le potenti macchine idrauliche del sottopalco, che poi si sarebbero rivelate di scarsa utilità. Ma il laboratorio di pittura, che non misura quattrocento metri quadri, restiste dov' è e continua a svolgere la sua attività, e anche il più recente progetto di manutenzione del teatro, che prevedeva il decentramento della scenografia in qualche capannone industriale in terraferma, sembra essere stato abbandonato. La scarsezza di spazi, la difficoltà dei trasporti fra le isole della laguna, l' assoluta originalità di una città che sdegna i paragoni, nella quale il La Fenice aveva del resto assunto fin dalla sua nascita il primato, il suo carattere forzatamente conservatore e la semplice pigrizia hanno congiurato a conservare il luogo e, con esso, l'attività che vi si svolge.

Dal Cinquecento all'avvento della luce elettrica il processo di lavoro scenografico, fondato sulla pittura in prospettiva, non subisce traformazioni radicali. Nel processo di lavoro tradizionale lo scenografo immagina l'ambientazione, a partire dal contatto con gli altri autori dello spettacolo e dal testo scritto, nella misura del bozzetto. In esso egli dispone sopratutto le indicazioni di chiaroscuro, sul quale principalmente si basa l'effetto del suo lavoro. Perciò molti bozzetti vengono realizzati in seppia e mancano di indicazioni di colore. Questo veniva applicato in seguito, a tinte vivaci per compensare la scarsità dell'illuminazione, dopo la trasposizione, secondo regole prospettiche complicate, del disegno sulle tele.

L'Italia ha conservato il primato di quest'arte. Nei vecchi laboratori -e nei migliori di quelli attuali- lavorano, fra gli aiuti, gli esperti delle mille varianti della colorazione, dai verdi della vegetazione agli azzurri dei cieli, alle coloriture dell' architettura. L'abilità sta nel riportare i delicati effetti della coloritura su campiture che possono superare i 100 metri quadrati. Entrano nel gioco anche le qualità personali, via via fino ad impalpabili affinità fra artisti di cui è difficile riferire, che compongono collaborazioni che durano nel tempo di bozzettisti e realizzatori. Una volta dipinte, le tele raggiungeranno il palcoscenico piegate, verranno dotate di una armatura di legno e messe in opera. Finito lo spettacolo, smontate e di nuovo piegate, esse potranno venire riposte nei magazzini, dove occuperanno poco spazio. Su questa loro flessibilità d'uso è fondata la pratica tradizionale del "repertorio scenografico", cioé la possibilità di riutilizzarle.

Le forme originali del rapporto fra il bozzettista e lo scenografo realizzatore sono private. Quando il laboratorio venne costruito la "Societas" stabiliva un contratto con lo scenografo, che si rendeva responsabile come impresa privata della realizzazione degli spettacoli, e poteva utilizzare per questo gli spazi che il teatro gli metteva a disposizione. Dal punto di vista contrattuale, Lanari, l'impresario di Verdi, e Bertoja, il suo scenografo, si trovavano su piani molto vicini.

Alla base delle regole precise e delle impercettibili trasformazioni di ogni momento di questo lavoro -disegno, spolvero, taglio, pittura, armatura, disarmatura, piegatura, ecc.- c'è sempre e solo qualche motivo pratico, l'arrivo sul mercato di una nuova colla, di nuove trame delle tele, ecc. Ogni ipotesi di rinnovamento, in un processo di lavoro la cui coerenza ed unitarietà sono il risultato di minuti aggiustamenti, è un delicato problema. Nella tempesta di novità che caratterizza il tramonto del secolo, anche la scena dipinta cerca di rinnovarsi. E assorbe così un veleno che le toglierà in qualche decennio la padronanza del palco.

Otello

Il nemico del fantastico, il naturalismo, compare all'orizzonte dei palcoscenici nella seconda metà dell'Ottocento. E' il punto d'arrivo della scenografia che dal secolo precedente andava rinnovandosi, inventando vedute sempre più vere, proclamando la "rigorosa esattezza" dei suoi prodotti, riducendo il fantastico numero delle quinte ereditato dall'età barocca, flirtando con la nuova forma di rappresentazione fedele della "natura": la fotografia; e riuscendo ancora con vari trucchi a suscitare l'emozione che segnala la sua vittoria: la meraviglia. Ma i prodigi della nuova illuminazione, che si presenta portatrice di valori positivi e priva di ambiguità, sono infinitamente più efficaci. Sotto la potenza e la fissità delle nuove luci elettriche le ombre dipinte non riescono più a confondersi con quelle vere dell'ambiente.

L'innaturale, in tempi in cui davano scandalo fantasie ben più blande di quelle del divino marchese, è motivo di condanna. Intellettuali e teatranti irridono i trucchi e gli insuccessi senili delle tele dipinte, che continuano a perdere terreno. Finché sul primato dell' opera cade negli anni '30 la sciabola del nuovo principe dello spettacolo, il figlio della luce elettrica e del naturalismo, il cinematografo. I giganteschi movimenti economici generati dalla vendita di spettacoli riprodotti travolgono rapidamente il microcosmo teatrale.

Sulla delicata vita artistica che i vecchi teatri accoglievano l'effetto è paralizzante. Della stretta parentela fra il naturalismo, punto di arrivo delle scene dipinte, e la realtà riprodotta dal film rimane traccia nell'identità del processo di lavoro che contraddistingue la scenografia dipinta ottocentesca e quella cinematografica: ambedue vengono progettate su due dimensioni, quadri ed inquadrature, rappresentati da bozzetti che si succedono ordinatamente l'uno dietro l'altro, secondo il tempo narrativo.

E' il tempo a senso unico della luce elettrica e del progresso, privo -ma solo apparentemente, come tutti i prodotti "di massa" di quest'epoca- di ambiguità e di dubbi. I colori, d'ora in poi applicati dal proiettore sulla tela, che rimane intera e bianca come un fazzoletto, racconteranno storie alle quali sarà difficile non credere. La pellicola impone una comunicazione a senso unico. Le masse, il nuovo pubblico del film, credono volentieri a quello che vedono. "Credere" é l'imperativo di moda. Nel magnetismo simbolico del teatro si sostituisce, come una diabolica forza separatrice, il bianco fantasma della "quarta parete". Gli stessi edifici ne vengono spezzati: tutti i palcoscenici, ora chiamati teatri di posa, sono rinchiusi fra le mura invalicabili di Cinecittà; si moltiplicano dovunque platee nelle quali non avranno più luogo l'attività e la curiosità tipica dei vecchi teatri. Nel buio spesso dei cinematografi ci si può aspettare di vedere, dietro qualche porta semichiusa, solo qualcosa di osceno.

In "Si gira" Pirandello esprime le sue perplessità nei confronti del nuovo mezzo. Ambiguità e dubbi, tempi narrativi serpentini, angoscie dirompenti affollano la vita e le opere degli intellettuali più avvertiti. La scenografia contemporanea partecipa a questo processo. Nel teatro, diventato un'arte di élite, essa rimane vivace, si fa plastica per generare ombre vere. Il progetto si esegue in tre dimensioni; talvolta, quando lo scenografo è di particolare valore, in quattro. L'arte alla quale questa disciplina proteiforme finisce per assomigliare è la scultura.

Questa radicale trasformazione ha reso necessario un diverso coordinamento delle varie componenti degli allestimenti. Il pittore non è più l' apprezzato protagonista della visualità degli spettacoli, ma gli viene richiesta la sola realizzazione di alcune sue parti "d' effetto". La nuova figura del "datore luci" gli contende ciò che resta del suo punto di vista privilegiato.

"Il problema pratico più serio è costituito dalla di una realtà di lavoro sottoposta a disciplina sindacale, orari da rispettare, turni. In seguito a questa situazione viene spesso limitato quel rapporto fra bozzettisti e realizzatori che è essenziale per entrambi. La scenografia rimane comunque una vertebra decisiva della spina dorsale tecnica del teatro. Per fare un paragone musicale, il laboratorio del teatro è il 'violino di spalla' degli allestimenti. Con i limiti della situazione odierna - Afferma Lauro Crisman, direttore degli allestimenti- possiamo fare fronte con nostre forze per un terzo agli oneri degli allestimenti, mentre siamo costretti a delegarne due terzi a laboratori privati".

Falstaff

Decisivo per la creazione è l'aiuto della tradizionale perizia di chi dirige il lavoro: lo "scenografo realizzatore", custode di tanti segreti, come le più riposte proprietà delle colle, le differenze d'effetto fra i vari pigmenti, la trama delle tele e le loro arcane relazioni reciproche. Convergono qui le più diverse esperienze artistiche, nelle persone degli "scenografi bozzettisti", o scenografi tout court, il padroni riconosciuti della scena, che siedono al tavolo di lavoro assieme al realizzatore, si aprono con lui sui più intimi problemi del loro spettacolo e spesso fanno alla sua esperienza le più strane richieste. Da ognuno di costoro egli può, con garbo e a tempo, trattenere qualcosa: il segreto di un effetto, la tecnica di una prospettiva, la conoscenza di questo o quel materiale e trasmetterla ad altri artisti con i quali si troverà in seguito a lavorare. Determinante è il suo continuo contatto con gli altri artigiani chiamati a collaborare alle messe in scena, che permette il confronto e la critica delle esperienze fatte.

Oggi si arriva a questo mestiere solo se dotati da una propria gagliarda spinta interna, che sola può aiutare a superare le difficoltà pratiche che si frappongono all' apprensistato. L'Accademia di Belle Arti, che pure rilascia diplomi in scenografia e insegna la prospettiva, non offre ai suoi allievi alcuna possibilità di esercizio pratico con i giganteschi attrezzi tipici degli scenografi, matite come bastoni da passeggio, pennelli che sembrano strane scope, tavolozze tanto grandi da aver bisogno di ruote, righe lunghe tre metri e squadre alte come una persona (foto). Manca un'aula di scenografia, cioè di misura adeguata e con il pavimento di legno, che potrebbe essere l'uovo di Colombo del rapporto fra la didattica e la pratica di lavoro, di cui tanti parlano ma che forse nessuno vuole davvero. Ai giovani volonterosi entusiasti -che pure ci sono- sarebbe così risparmiata l'umiliazione di presentarsi completamente digiuni del lato pratico dell'Arte -che pure é di gran lunga il più importante- agli esperti, e a questi ultimi la noia di insegnar loro l'abbiccì.

Sul mercato del lavoro i realizzatori sono una merce rara e preziosa. Buoni pittori si trovano oggi presso laboratori privati, dove guadagnano bene, ma hanno l'handicap di lavorare separati dal palcoscenico. In questo il La Fenice rappresenta una fortunata eccezione. La tradizione qui si é mantenuta in modo non dissimile dal luogo che la ospita. Il realizzatore attuale si chiama Daniele Paolin, ha cominciato quindici anni fa in un laboratorio privato di Treviso e preso il posto lasciato dall'ultimo appartenente alla vecchia scuola, Mario Ronchese.

Nella lunga conversazione che ho avuto con lui nel suo "studio", una stanzetta di legno in un angolo del soffittone, la vicenda storica tratteggiata nelle righe che precedono prende corpo: "Noi siamo pittori, e ci chiedono tante volte cose che farebbero meglio i fotografi...", dice con una punta di amarezza. La pratica lo mette in grado di indurre da un dettaglio di realizzazione tutta la visione estetica che supporta questa o quella richiesta dei bozzettisti:"Il teatro è finto, si svolge in un'ora, ma poi si replica. Il cinema non ha di questi problemi, lo scenografo dispone di grandi mezzi, può avere mesi a disposizione per montare una scena che, finite le riprese, viene distrutta. Cercare di rifare questo in teatro costa sforzi spropositati che non ripagano in termini di effetto; anzi a lungo andare si stempera la tradizione di pittura, che si conserva solo in virtù dell'esercizio". La messa in scena dell'ultimo spettacolo l' Eugenio Oneghin, offre le più evidenti conseguenze pratiche della storia della sua Arte: in palcoscenico c'è un perfetto esempio di scena naturalista, tanto che vi è cresciuto perfino del grano vero. Vengo accolto dai miei amici macchinisti che per l'occasione brandiscono lunghe falci. "Oggi siamo contadini e muratori -mi dicono ridendo e accennando alle grandi costruzioni di legno e ai campi di grano, che devono freneticamente demolire e ricostruire da capo a piedi fra un atto e l'altro. Vieni a vedere il cambio. Il cambio è da vedere, non lo spettacolo! Per il cambio vengono tutti a vedere..."

Eh si, il cambio... Nei teatri antichi era uno dei momenti culminanti degli spettacoli e faceva concorrenza agli intermezzi comici nel ravvivare l'attenzione degli spettatori, che l'opera seria metteva a dura prova. A sipario aperto, i leggeri spezzati di tela entravano ed uscivano di scena trasformando in men che non si dica un'ambientazione in un'altra. Sabbatini, un famoso scenografo-trattatista di epoca barocca, consiglia di mettere qualcuno a schiamazzare, giusto in quel punto, in fondo alla sala, in modo che il pubblico distratto torni dopo un attimo alla meraviglia della scena cambiata. A ricordare gli antichi (e travolgenti) effetti dei crolli, dei voli, dei cambi a vista sono rimasti solo gli studi e le mostre di scenografia curate dalla Fondazione Cini. Molti teatri italiani conservano tele che in certi casi sono notevoli esempi di pittura storica ottocentesca, come il sipario storico del La Fenice (1878), che rappresenta l'annuncio della vittoria di Lepanto. Ma è soprendente che nella patria della scena dipinta, il paese più ricco di teatri antichi e oggi di fantasiose iniziative culturali, non ci sia nulla di simile al teatro di Drottningholm, l'antica reggia svedese che, oggetto di un restauro fortunatamente non "geniale", ospita riproduzioni filologiche delle antiche rappresentazioni in tela dipinta. I cambi dell' Oneghin duravano 40 minuti. 40 minuti di sipario chiuso e di curiosità che è impossibile non provare sentendo il formidabile affaccendarsi delle squadre dietro di esso. Una curiosità che di fronte alla stessa scena, in un cinema o alla TV, nessuno proverà mai. In teatro c'è il sipario, che si potrebbe aprire per soddisfarla. Ma l'estetica naturalistica lo proibisce, concedendo lo spettacolo della concreta trasformazione di una cosa in un altra solo agli addetti ai lavori, dietro le quinte.

Penso per un attimo al contenuto fantastico e assurdo dei magazzini della Giudecca, dove mi sono recato tante volte: pieni dei resti degli spettacoli passati, costosi, ingombranti, molti dei quali, troppo legati alla estetica d'origine, sono assolutamente inutili e destinati prima o poi ad essere distrutti. "Io conserverei solo alcune opere di valore riconosciuto, quelle che superano i limiti dello stile di una determinata epoca, e anzi lo creano. E' assurdo conservare tutto, anche perché ci rimangono i bozzetti, dai quali gli spettacoli possono facilmente venire ricostuiti, come può essere conveniente, considerando il costo della loro conservazione. Del resto la ripresa di scene che hanno passato decenni ad ammuffirsi nei magazzini è spesso deludente e ci sono sempre parti che vanno rifatte. Senza considerare i cambiamenti della tecnica del palcoscenico e della cultura del pubblico, che reagisce in epoche diverse in modo diverso allo stesso effetto. Certo, è un problema delicato e la decisione va presa volta per volta. Ma ci sono spettacoli che nascono male, e che con certezza non verranno mai più ripresi. Almeno questi andrebbero subito distrutti. Sono certo che il lavoro del teatro ne acquisterebbe in agilità, spazi e manodopera. Un fiasco è un fiasco", conclude Crisman alzando le spalle.

Tutte le parole dette da un attore sono condannate all' ambiguità. Nell'attività umanistica per eccellenza brucia ogni tipo di convenzione linguistica, musicale, figurativa, morale. L'unica "convenzione" che resiste è quella di essere, appunto, "convenuti" in uno stesso luogo. All'opposto, "non bruciare" è la stessa ragion d'essere della sola legge che qui vige e rimanda anch'essa all'architettura. Per i Vigili del Fuoco, rappresentanti di questa legge e ospiti fissi del teatro, il maggior pericolo, dopo il fuoco, è il panico che esso genera. "Panico" è l'emozione di Pan, Dioniso, il dio venerato in questi luoghi. Solo ciò che ha a che vedere con lui può divenire testo di legge.

Il gioco delle parole è qui tutt'altro che casuale. Al riparo di queste mura esse possono scrollarsi di dosso la soma dei significati che sono costrette a portare nel mondo banale, adornarsi di virgolette e farsi leggere come farfalle, segni astratti di lettere, dotati proprio per questo di una concretezza inconsueta. La loro validità viene qui messa alla prova, come quella di teoremi generali in un laboratorio scientifico. Nel laboratorio di scenografia, come nel castello delle 120 giornate, forme e materiali della figurazione sono sottoposti alle prove più diverse, e spesso perverse. La prospettiva qui non è l'artificio usato dai pittori, ma una sua ulteriore trasformazione: la realtà da rappresentare viene prima riportata al boccascena -concepito come quadro-sezione dei raggi visivi- e poi ancora da questo agli spezzati di tela, nei quali l'artificio si trova quindi applicato -secondo una tecnica simile all'anamorfosi- due volte; se non di più, per ottenere particolari effetti. Il materiale diventa qui riconoscibile nei suoi meno sospettabili elementi: ancora si ricorda l'effetto alla luce delle scene di un applaudito spettacolo scaligero, ottenuto con granoturco incollato sulle tele. Sulle quali poi banchettarono orde di topi, quando, finito lo spettacolo, esse furono deposte nei magazzini.

Nessuno si può stupire se il primo arrivato qui si improvvisa stregone, intrecciando testi poetici ed esperienze pratiche in formule inusitate, cercando di attirare frammenti significativi del mondo nella danza delle metafore. Nessuno può dire in partenza se riuscirà ad asservire alla sua creazione la potenza cieca che qui risiede. Una gerarchia degli onori dell'artigianato teatrale, comprendendo in esso ogni lavoro che concorre alla realizzazione finale, in funzione della prossimità apparente del testo, è tanto diffusa fra i profani quanto discutibile fra gli iniziati. In teatro ognuno lavora "per" qualcun altro e nessuno -se non forse e per motivi di ordine concreto il direttore d'orchestra- può onestamente individuare un principio d'autorità. Il testo non ha nulla di sacro, ma è "solo" una traccia concreta lasciata dalla creazione, la più fedele mimesi del divino. Ripeterlo a memoria, come una preghiera, è una pratica quotidiana che porta ad affrontare ad ogni passo temi che farebbero venire i sudori freddi a uno studente di teologia: finzione e natura, realtà e verità. Chiunque ne avverta il magnetismo e l'ebrezza sente l'applicazione delle regole della routine come una sconfitta. E, mistico ma non troppo, preferisce tendere la mano al nume confusionario, il Dioniso "all'italiana" che governa questi luoghi in feconda e libertaria sovranità. Annuncia il suo nome con un migliaio di lingue e promette ai suoi fedeli l'imprevedibile.


©Francesco Sforza