Note sull'edificio drammatico

di Louis Jouvet

Appunti per una comunicazione orale alla prima sessione del Centre d'Etudes Philosophiques et Téchniques du Théatre, La Sorbona, 1948

traduzione di Francesco Sforza

In ogni tempo si è parlato e discusso di teatro.

Non c'è nessuno, autore, attore, spettatore, che non sia nello stesso tempo critico ed esteta.

Professore di letteratura o di dizione, moralista, decoratore o parrucchiere, ognuno ha le propie opinioni sul teatro, ognuno trae le proprie conclusioni.

Acustica, fonetica, ottica, pittura, scultura, musica, danza o mimica, legge dei generi, legge delle tre unità, ogni cosa del teatro viene quotidianamente giudicata, tutto serve ad edificare teorie o sistemi, per spiegare e classificare. Ognuno giudica dal proprio posto, ognuno voit midi à sa porte.

Ma non sono altro che variazioni di circostanze o studi di dettaglio. L'arte drammatica non è basata su una o molte scienze. Apologetica, esegesi, critica, psicologia o filosofia vi sono molto utili, ma sono solo giochi dello spirito, non vera conoscenza.

Ogni civiltà, ogni epoca ha il proprio teatro, con i suoi testi, la sua arte di esprimere, con la danza, il canto o la parola; ogni epoca ha i suoi pubblici, i suoi modi di rappresentare, i suoi riti, i suoi usi, le sue regole, le sue osservazioni, le sue ricerche. Ma il problema essenziale è al di là di tali questioni; è l'atto drammatico, effusione inanalizzabile, indissociabile fra tre partecipanti, che soddisfa un istinto indistruttibile, inseparabile dell'esistenza umana, la facoltà innata di drammatizzare e di essere drammatizzati. Solo a partire da essa il teatro può essere considerato. Secondo il mio modo di sentire solo l'edificio drammatico può dare una idea del teatro, può permettere di meditare, di imparare e di capire ciò che è il teatro a partire da questo gusto, da questa particolarità essenziale di ogni individuo, quale che sia l'epoca o la civiltà alla quale egli appartiene.

Che si trovino in Grecia, in Italia, a Parma, a Roma, ad Arles, a Orange o a Nîmes.

Arene, anfiteatri o teatri.

Siano essi antichi o moderni, è nell'edificio deserto, dove accade di ritrovarsi e di lasciarsi penetrare dallo strano vuoto e dal silenzio del luogo, che ci si può avvicinare ad una idea autentica di teatro, nelle condizioni create da una sensazione che pone di nuovo l'intero essere nella sua mentalità primitiva.

Alla sorgente di questa sensazione, di questa impressione tutta fisica vi sono il cuore e i polmoni, gli occhi e le orecchie.

C'è una corrispondenza perfetta ra le condizioni esterne in cui ci si trova repentinamente immersi: tutto ciò che vi circonda vi fa provare lo strano fenomeno di una rivelazione fisica, che è la base stessa e l' inizio di qualsiasi manifestazione drammatica.

Ci si sente soli e tuttavia non si saprebbe essere assenti, si è unici e attorniati da un disordine estraneo che ci riguarda e che chiede delle risposte.

E' certo difficile rimanere fedeli a questo grado della sensazione primitiva, di non deviare. E' facile invece lasciarsi prendere dal superficiale delle cose e degli oggetti, dall'apparenza falsa di cui le idee avvolgono improvvisamente ciò che vi circonda.

I ricordi si mettono in viaggio, le conoscenze intervengono e l'immaginazione ci distoglie da questa sensazione originaria e pura, si rimane curiosi, sapienti o nostalgici solo di questo passato che è presente là attorno. Non abbiano saputo conservare, di questa sensazione iniziale, cio che serviva a continuare a sentire o esperire l'edificio come è utile farlo. Questa evocazione è un' opera penosa, lunga e rigorosa.

E' necessario vuotare il proprio spirito fino a questa sensazione unica, questo stato in cui il vuoto e il drammatico si equilibrano per raggiungere uno stato di coscienza in cui il luogo non è più altro che un organo, del quale siamo tutti partecipi. Esso allora si trasfigura e appare nel suo significato.

Ma se il pensiero invade il corpo, siamo perduti per questa esperienza; è impossibile entrare nel teatro di Metz o di Versailles senza evocarvi prima i re e i principi che li hanno fatti costruire e senza sentire la storia di questi edifici come un romanzo.

Qui la vita si fa e si disfa senza posa.

Qui risiede una Forza superiore, nascosta ma intuibile.

Vi sono due luoghi, due superfici o due volumi differenti, fra i quali immediatamente si stabilisce un equilibrio.

Bisogna non essere nulla più che un corpo che si abbandona, una massa che vibra, non avere altro senso che quello di uno di questi luoghi.

Non sono simili, ma si completano, sono dipendenti l'uno dall'altro, l'uno non può esistere senza l'altro. Due spazi differenti. In realtà, non c'è che un centro per queste due superfici. Con lo spostamento di questo centro si può seguire tutta l'evoluzione degli edifici drammatici e disporne la classificazione.

Si viene circondati, inglobati, penetrati da una forma dell'ignoto che è il drammatico; bisogna guardare con precauzione, non interpretare, non lasciarsi conquistare dalle vestigia del passato. In questo luogo, ciò che esiste realmente non esiste. Bisogna lasciarlo penetrare in sè. Lo spazio prende un senso al quale il corpo si accorda; la sensazione interiore deve prevalere: bisogna sentire se stessi come uno spazio nello spazio.

E' una singolare geometria.


Questo vuoto con seggi, questa cavità, questa tramoggia di mulino ci chiama, ci attira; l'idea si sbozza da un gruppo, da un essere collettivo del quale noi non facciamo ancora parte, ma del quale potremmo essere uno degli elementi.

Uno momento dopo l'altra superficie laggiù, la scena, acquista il suo senso. C'è un mondo che può crearsi, un'altra promessa di presenza: una lotta fra l'immobilità e il movimento.

Non bisogna arrischiarsi a sognare, ma attenersi sempre alla sensazione.

A poco a poco essa cresce, a tentoni; bisogna badare a proteggerla da tutto quello che essa può portare allo spirito, da tutto ciò che lo spirito può elaborare al suo contatto o donarle. Si tratta di una coscienza soltanto fisica.

Cresce prospera, si gonfia qualcosa dove tutto di sé stessi è abolito; una sorta di spossessione, di oblio si scambia contro una possessione nuova. Si produce una alterazione, che fa deflagrare in fondo a sè la scoperta di un nuovo stato. Uno stato che abbiamo subìto tante volte, ma senza poterlo constatare o controllare come in questo istante. Esso si trova allo stato nascente, osservabile, commentabile, qui, in questa solitudine spopolata, deserta, resa percepibile dall' l'assenza di quelli che normalmente la riempiono.

Si prova un vago disagio, un desidero di dissolversi, di essere assorbiti dal luogo.

Stiamo diventando sorgente.


Folla. I volti hanno la stessa espressione, le anime lo stesso pensiero; c'è un equilibrio, come nei vasi comunicanti; regna una calma certezza.


In questo luogo nel quale l'individuo è dissolto, scacciato il mondo esteriore un essere unico ha preso posto. Su tutti uno stesso desiderio di sapere.

E' nata una coesione, una vera riunione: l'uomo è fatto per l'unione e le Scritture gliela promettono.

E' qui che nascono le emozioni; è qui, in questo alambicco singolare, che si distilla tutto ciò che l'uomo porta dentro di sè; è qui che egli può ritrovare la verginità della sua natura, alla quale mirano oscuramente tutte le sue aspirazioni, e il destino cieco nel quale egli si agita e dal quale egli avverte il divino senza poterlo raggiungere.

Il pensiero del pubblico di un teatro sembra fatto d'immagini, di emozioni, di passioni come un pensiero individuale, ma esso ne differisce per una intensità ed una omogeneità sconosciute agli individui: quale entusiasmo solitario può uguagliare quello di certi pubblici? E quale attenzione, anche la più intensa, può uguagliare quella di questo gruppo, di questa folla che non ha altra ragione che l'ascolto di una voce in una scena?

"Qui ognuno diventa mistico e poeta, la nozione di durata è più prossima all'eternità che non il tempo degli uomini.
Non c'è più nessuna proporzione con la vita ordinaria".
André Cuisenier.

Scalpicciando, sbattendo il suo bouquet di anime
Da cui le grida si staccano come petali
Il teatro applaude il suo pensiero trionfale
Jules Romains

"Gli individui non sono trasportati solamente dall'ammirazione dello spettacolo o degli attori, ma dalla coscienza essere insieme ad ammirare"

Lo sdoppiamento non riguarda solamente l'attore, ma tutti quelli che sono entrati in questo luogo.

"Io" è altro da "me", non appena si attraversa la porta del teatro.

Noi viviamo e guardiamo vivere, al di là di noi, un essere nel quale noi viviamo nello stesso tempo; così contemporaneamente noi viviamo e ci guardiamo vivere.

Nulla equivale a questo, salvo il Tempio o la Chiesa.


In questo luogo di oblio ci sono due poli: laggiù la scena, qui la sala.

Chi non è nient'altro che uno spettatore, se sale su questo palco, esperisce improvvisamente, all'interno della stessa sensazione continua, una nuova modificazione di sé. Prima recettivo, perduto, annegato in mezzo al pubblico, eccolo ora isolato; egli osserva questo spazio che la folla, della quale egli faceva parte, occupa normalmente; egli ne diventa all'improvviso il centro responsabile, l'oggetto, il medium obbligato. Esperisce di nuovo la folla intera, la subisce, è il suo oggetto. Egli deve ora rendere ad essa, con uno sforzo, un doloroso dono di sé. Deve vivere per essa. Uno sdoppiamento più intenso dissocia l'essere che è e quello che ora deve essere ed apparire.


Pochi scrittori hanno capito il teatro attraverso questo esorcismo del luogo, in questa spossessione e questo sradicamento del sè. Bisognerebbe farne una raccolta; sarebbe preziosa.

Jules Romains, nell' Ode à la foule qui est ici, convoca il pubblico che si è isolato nel
"vuoto del teatro e che lancia in lui poeta i suoi mille sguardi".-Il mostro è la, davanti a lui, con le sue migliaia di occhi e di orecchie,"e raccoglie la fiamma che scorre da tutti, per farne il suo pensiero e la sua parola".

"Ascolta, a poco a poco la voce esce dalla mia carne
Sale, trema e tu tremi. Senti
La mia parola ascendere a traverso di te,
Ciò che io ti dico, tu devi pensarlo!
Penetrano a schiere nelle teste chinate
Brutalmente vi si stabiliscono, ne sono padrone,
Le parole passano, urtano, spingono fuori
L'anima che vi abitava, come una vecchia in lacrime"

Odes et Prières
"La parola del poeta s'accampa, conquistatrice, nelle anime, caccia i pensieri individuali e plasma un anima unica che il poeta tiene in pugno e che non si distingue più da lui". Un essere unico si è formato in questo momento, la creazione si compie attraverso la parola. Al principio era il Verbo.
"Abbiamo qui il presentimento improvviso di un mondo ben altrimenti reale del nostro".
Jules Romains (Manuel )


La prima traccia dell'edificio drammatico è una circonferenza, ad un tempo scena e orchestra nello stesso tempo: è il "campo drammatico", al centro del quale si compie l'azione. Magnetizzato da questa il pubblico, gli spettatori si dispongono attorno ad esso, concentricamente.

A partire da questa forma, l'edificio si evolve e presenta tre ordini successivi. Il luogo dell'azione, il campo drammatico, sposta all'interno dell'edificio e, come il nucleo di una cellula, genera forme nuove.

Vi sono la scena, il campo drammatico, e la sala, l'auditorium. Sull'asse che le collega, centrate o decentrate in maniere diverse, esse formano dei diagrammi, tre ordini, tre cristallizzazioni differenti:

I.- L'ordine greco-romano

Il campo drammatico è doppio. prima un cerchio, l'orchestra per le evoluzioni del coro, poi un lungo rettangolo sopraelevato, una piattaforma tangente al cerchio dell'orchestra, la scena; un muro ne chiude il fondo con tre grandi porte aperte. La sala a gradini sovrapposti che circonda questo dispositivo è una circonferenza aperta, nell'ordine greco (240 gradi) o un emiciclo, nell'ordine romano (180 gradi).

II.- L'ordine elisabettiano

Una alterazione del greco-romano: Il teatro si è rifugiato in un circo. Il campo drammatico cresce e si ordina. I due campi drammatici del teatro greco-romano sono livellati e unificati. L'orchestra, invasa dal pubblico, non lascia più sussistere altro che un proscenio triangolare, uno sperone amplificante, che prolunga il palcoscenico, approntato sulle gradinate dell'anfiteatro. Le tre porte del muro antico diventano tre alveoli sormontati da tre logge, che formano sei piccole scene avventizie. E' l'edificio più perfetto, il più astratto! E' una forma di evoluzione che non avrà altri sviluppi.

III.- L'ordine italiano

E' una rottura degli ordini anteriori, concentrici e circolari. L' orchestra è sparita. Il campo drammatico centrifugo dell'edificio sfugge, perde il suo centro (il proscenio triangolare del teatro shakespeariano è respinto di là dalla sala). Il campo drammatico, la scena, è situato ora fra i due poli della curva della sala, -un ferro di cavallo, una lira o una calamita. La scena è ridotta a una gabbia vuota per una prospettiva dipinta, e il pubblico è disposto (su una linea a pena incurvata) parallelamente alla linea di boccascena.


I.-Greco-romano.-Curva audio-visuale perfetta circolare di due campi drammatici differenti.

II.-Elisabettiano.-Campi drammatici unificati per la perfezione della recitazione.

III.-Italiano. -Dissociazione del campo drammatico e della sala per la magia di una visione.

Fra i tre ordini, ci sono le stesse analogie, le stesse corrispondenze, c'è la stessa sensazione originale.

Gli ordini "rivelano gli accordi segreti che si fanno fra differenti pensieri, sentimenti di una stessa epoca".

Ogni ordine è uno strumento elaborato da pensieri, da maniere di sentire, a partire da una disposizione dei corpi.

Ogni ordine rappresenta un edificio che è la traccia, la cristallizzazione di un atto sensibile, di un pensiero collettivo; è una sensazione coagulata, l'organo di una funzione drammatica originale e singolare.

E' un rapporto fra due luoghi, due aree differenti.


Nell'edificio drammatico ci sono due posizioni:

-quella dello spettatore; egli contempla, ascolta, accovacciato in fondo a questa cavità, a questo imbuto, a questa conca che è una sala.

-quella dell'attore, situato o centrato in differenti maniere o figure d'insiemi; egli recita, rappresenta e si osserva egli stesso nella massa dei suoi simili.

C'è il luogo dove è posto lo spettatore, dal quale egli guarda e partecipa. Da qui parte verso l'attore l' effluvio di una attenzione consensuale che darà all'azione recitata laggiù la sua vita, effimera ma efficace; è un luogo di condensazione umana.

E c'è il luogo dell'immaginario, laggiù, luogo d' attrazione dove verranno rappresentate azioni immaginarie.

Due aree, due superfici, ordinate l'una rispetto all'altra, in una geometria di magnetizzazione, una disposizione, un ordine, come un campo da tennis o da calcio. Definiti da questa reciproca convenzione, l'attore e lo spettatore si osservano a vicenda, si cercano, si esperiscono, si affrontano, come in un accoppiamento, per l'effusione momentanea dell'atto drammatico.

Attore o spettatore: non si può essere l'uno e l'altro in questo luogo, ma solamente l'uno o l'altro, e tuttavia l'uno e l'altro si scambiano e si completano, sono della stessa natura ma di segno differente; gesto, danza o parola, tutto è comunicazione al di là dei pretesti e delle circostanze. Qui non bisogna evocare il pittoresco di uno spettacolo o le condizioni della sua esecuzione. Ciò che importa provare e avvertire fisicamente, quale che sia l'ordine considerato, è la disposizione dei corpi, per uno scambio e una comunione. E' questa la natura dello strumento, la sua testimonianza umana, il suo senso e le sue proprietà fisiche.

Sono caratteristiche geometriche e fisiche di un luogo.

Quadrato, rotondo, rettangolare, ovale, concentrico o eccentrico, esso è disegnato da linee di forze, da zone magnetiche, da correnti di induzione.

"Tragico", "comico" o "satirico", "pastorale" o "erotico", sono forme della sua utilizzazione.

Il volto del luogo, la sua configurazione, il suo tracciato deve importare l'eccitazione fisica, la modificazione corporea, l'ispirazione alla quale esso invita.

Ogni strumento, ogni edificio ha una sensazione sua propria, ma ogni ordine offre una impressione simile, punto di partenza di un "drammatismo" di specie e di epoca.

Ogni ordine induce una alienazione, uno spostamento dentro di sé, una astrazione caratteristica degli atti drammatici che sono stati celebri o praticati nel luogo.

Ogni ordine ha una sua comunione particolare, in cui l'azione è essenziale e che l'edificio, dopo un momento di mediazione fisica, suscita in sé, come un odore o un sapore che si cerca e che a poco a poco si rivela. Bisogna ritrovare una attesa, una ricerca, creare la notte, il nero, spegnere tutto ciò che non è sensazione. E' così che comincia, che è cominciata l'arte drammatica. Il primo luogo drammatico è una grotta oscura protetta da un labirinto tenebroso.


Pratica, consumo della notte.


-Onde successive di gradini che fanno di Dioniso o di Epidauro una conchiglia.

-Carpenteria in forma di prua, carcassa marina della scena di Shakespeare, rinserrata fra i banchi di un grande O.

-Palchi della Scala, che fanno del teatro italiano un colombario.


Lo strumento si modifica; organo e funzione interagiscono, si evolvono, c'è un trasformismo drammatico.


E le differenze fra gli strumenti, i cambiamenti di sistema di ogni ordine hanno la stessa sensazione di base; prima attesa, divenire, solitudine, poi comunicazione e solitudine più alta e pienezza. E' questo il sentimento drammatico.

In ogni ordine si da una collaborazione differente dei partecipanti, autore, attore, spettatore. Da ciò differiscono i dati dell'arte drammatica, da ciò si rivelano i caratteri transitori di un' epoca nella permanenza del sentimento drammatico.


Che cos'è il sentimento, lo stato d'animo drammatico? E' prima di tutto sensazione: questa sensazione cercata qui, durante la visita del teatro vuoto, del luogo drammatico deserto. Uno stato di comunione ("è essere dello stesso mondo" dice Peguy).

E' uno stato impossibile a definire al di là della sua constatazione; volerlo definire è cercare ciò che sfugge alla definizione: il vuoto.

Tutto ciò che è stato definito non è altro che applicazione o conseguenza, serenità ritrovata, inquietudine, oblìo di sé, nuova spossessione o ripossessione, inusitata solitudine, divertimento, distrazione o presenza: è uno stato primitivo, essenziale, permanente, funzionale all'individuo, un vuoto profondo in sé, ritrovato, che si colma e si compie.

L'edificio induce una disposizione del corpo e dell'anima: estasi, emozione, attesa amplificata, nella quale tutte le teorie di aboliscono e si dissolvono; e che mette in fuga le funzioni dell'intelligenza o del sapere.


Le sensazioni interne costituiscono qui l'essenziale dell'uomo, poichè "tutte le cose che sono nello spirituale sono adeguate alle sensazioni".

Attraverso i sensi si apre la via della comprensione.

In partenza c'è il senso del corpo.

Per l'attore, senso e percezione si identificano.


L'edificio per un attimo sembra prometterci il segreto del mondo.

Esso rende autentico un momento della nostra vita, ci rimette in libertà.

Esso abolisce il tempo e lo spazio, può richiudere l'eternità in un ora o dilatare un'ora fino all'eternità.

Contemplazione, metamorfosi, ascensione, certezza di una comunità umana, di una verità, rivelazione delle apparenze e della verità del sogno, senso interiore del mondo.


L'edificio drammatico è uno strumento per turbare la ragione umana, un luogo per "perdersi, per darsi, per abbandonarsi".


Suo paragone con il tempio o la cattedrale.


Un edifico non è una collezione per archeologi, ma un museo della sensibilità umana.


Bisogna avvertire il tutto dell'edifico, la sua composizione.


Qui l'uomo ha conoscenza del suo destino; egli sa i fini che dominano la vita; egli vede le realtà dal punto di vista dell' eternità; egli può rifiutare il nulla; qui si ricercano, sotto le apparenze, il terribile e la serenità.

Sconforto, miseria, malinconia, dolore, crudeltà, mistero, fatalità, conflitti umani sono la prima espressione del sentimento drammatico alla sua nascita.


RAINER MARIA RILKE

"Al teatro di Orange... La conchiglia aperta dei gradini , tagliata dalle ombre del pomeriggio, era là come un enorme quadrante solare concavo... Salendo fra le gradinate sentivo quanto io sminuissi questo ambiente... Cedevo all'assalto di una violenta felicità. Ciò che si levava là, occupato da una disposizione di ombre che ricordava una figura, con l'oscurità concentrata nella sua bocca, al centro, limitato in alto da una cornicione simile a una corona di riccioli: era la possente maschera antica che nasconde tutto e dietro la quale l'universo si condensa in un viso.

Quaderni di Malte Laurids Brigge

PAUL VALERY

M. Teste guardava solo la sala. Aspirava il grande soffio torrido, sul bordo del vuoto. Una immensa fanciulla di rame ci separava da un gruppo che mormorava al di là della stupefazione. In fondo al vapore brillava un pezzo di donna nuda, tenero come un sasso... Il mio sguardo compitava mille piccole figure, cadeva su un volto triste, scorreva su braccia, volava su persone, e finalmente si bruciava. Ognuno, al suo posto, era libero di fare un piccolo movimento. Assaggiavo la classificazione sistematica, la semplicità quasi teorica dell'assemblea, l'ordine sociale. Avevo la sensazione deliziosa che tutto quello che respirava in questo cubo avrebbe seguito le sue leggi, si sarebbe acceso di risa a grandi cerchi, si sarebbe emozionato a placche, avrebbe risentito a masse di cose intime, -uniche-, dei sommovimenti segreti, elevarsi a l'inconfessabile! Erravo su questi piani di uomini... Una musica ci toccava tutti, abbondava, poi diventava piccola piccola. M. Teste mormorava: "Sono mangiati dagli altri!"... Egli non perdeva un atomo di tutto quello che diveniva sensibile, in ogni istante di questa magnificenza rosso e oro. Dalle lontananze della sala, i suoi occhi vennero verso di me; la sua bocca dice: "La disciplina non è cattiva... E' un piccolo inizio..." ... Dice, con la sua voce bassa e in fretta: "Che essi godano ed obbediscano!"... La stupidità di tutti gli altri ci rivelava che stava succedendo qualcosa di sublime. Osservammo il morirsi del giorno, come facevano tutti i volti della sala. Quando fu molto basso, quando la luce non raggiò più, restò solo la diffusa fosforescenza di queste mille figure. Avevo la sensazione che questo crepuscolo rendesse passivi tutti questi esseri. La loro attenzione e l'oscurità crescente formavano un equilibrio continuo. Ero io stesso costretto a stare attento dall'atto di tutta questa attenzione.

M.Teste disse: "Il supremo li semplifica. Scommetto che pensano tutti, sempre più intensamente, alla stessa cosa"... Aggiunse: "Posseduti dalla luce" Dissi ridendo: "Anche lei?" Rispose: "Anche lei." 


©Francesco Sforza