La Pollastra

Musica e Dossier, n. 26, febbraio 1989

"Se non vi si scrive al di fuori: questo è un teatro, nemmeno Edipo ne indovinerebbe l'uso. Gli ingressi, le scale, i corridori, sembrano condurre (...) a una prigione, e al più sucido lupanare". La fine del Settecento non è più il tempo delle occulte"stanze per commedie" in cui si divertiva tanto -pur criticandole- il nobile Casanova: il teatro vuole essere ora lui stesso un "nobile divertimento", meglio situato nei luoghi più centrali della città e in forme consone alla sua nuova positività sociale. Il La Fenice, costruito a Venezia nel 1792 su progetto di Giannantonio Selva, con la dichiarata intenzione di ottenere il primato sugli altri sette teatri della città, ha ben due facciate: una sul Rio Menuo per le gondole degli aristocratici e l'altra sul campo S. Fantin per i borghesi a piedi, di architettura semplice e razionale.

Una fenice, uccello mitico che rinasce dal fuoco, appare un pò dovunque nella decorazione e la gente del teatro la chiama familiarmente "la pollastra" e forma, con il motto "semper eadem" l'impresa del teatro, che esprime un ideale di continuità. Il concorso, animato dall'anziano intellettuale Andrea Memmo, padre della grande impresa urbanistica di Prato della Valle a Padova, fu invece uno degli ultimi tentativi di consolidare l'identità culturale (e politica) della Repubblica. Di lì a qualche anno arriverà Napoleone. La decorazione interna verrà allora rinnovata una prima volta: azzurro e argento, in stile "impero". Dall'incendio del 1836 -venne incolpata una stufa austriaca, unica intatta in mezzo a rovine fumanti, carboni e vetri fusi- si salvarono le facciate, qualche stucco e l'impianto generale dell'edificio. Al Settecento cerca di ritornare con fantasia romantica Giovanbattista Meduna, architetto della ricostruzione e di un radicale riarredo nel 1854.

La creazione drammaturgica porta il disordine nelle abitudini di scrittura, di lavoro, di ascolto. Durante le prove i veri uomini di teatro seguono come cacciatori queste tracce indefinite e ne lasciano di nuove. Non guasta, allora, che uno scenografo sappia leggere la musica o un macchinista metallurgico cucire un bottone; anzi: è proprio questo polimorfismo nell'emergenza che ha reso gli italiani, "specializzati a non essere specializzati", eccellenti in teatro. Attorno a questo "disordine" l'architettura del teatro all'italiana raccoglie -in pratica- ogni diverso opus dalla cui fusione risulta l' opera. Sotto l'enorme tetto del La Fenice è ancora attivo l'antico laboratorio di pittura, raccordato al palcoscenico da una sorta di cordone ombelicale. Al livello del canale c'è una falegnameria che più di una volta ha soccorso parti difficili del palcoscenico. Ma l'architettura si chiude a volte alle ragioni dei propri oggetti e mitizzandoli crede di conservarli mentre in realtà li trasforma. Come fecero alla Scala (ma è un esempio imitabile?) un recente progetto di restauro prevede l'allontanamento dei laboratori, il cui facile riflesso umano sarà l' incremento della specializzazione delle maestranze. I più esperti conoscitori dell'acustica del teatro scelgono le poltrone dell'ultimo terzo della platea, le più lontane dall'orchestra.


©Francesco Sforza