L’umanità dell’internet
(le vie della rete sono infinite)

omini

di Giancarlo Livraghi
gian@gandalf.it



Post scriptum
Non è una “scelta di campo”


L’impero bizantino durò mille anni. In quell’epoca chiamata “medioevo” che non era così statica e immutabile come la immaginiamo dalla prospettiva di oggi – ma in alcune parti del mondo, fra cui Costantinopoli, cambiava poco. La cultura si arrotolava su se stessa in infinite disquisizioni formali (appunto, bizantine). La città, che governava (male) un esteso e disordinato impero, era divisa in due fazioni: i Verdi e gli Azzurri. Prendevano nome da un contrasto di “tifo” sportivo (che si basava sulle corse dei cavalli nel circo) ma erano diventate due forze politiche in perenne conflitto; separate non dalle idee o dalla cultura ma semplicemente dalla competizione per il controllo del potere. La stessa cosa è accaduta altre volte nella storia. Come quando fra Guelfi e Ghibellini, dimenticata la lotta per le investiture, non c’era alcuna differenza di idee (tanto è vero che a Firenze, visto che erano tutti guelfi, si divisero in Bianchi e Neri).

Non voglio parlare dell’attuale situazione politica, se non per dire che i contrasti di interessi sono molto più evidenti dei contrasti di idee. Ma c’è parecchio di bizantino nella situazione di oggi (anche se, per fortuna, non è probabile che ci vogliano mille anni per attraversare la palude culturale in cui ci troviamo). E non è facile per gli apparati di potere (non solo in Italia) capire il senso dell’evoluzione in corso e cercare di governarne lo sviluppo.

Siamo in un’epoca di grandi e profondi cambiamenti. Poiché ci siamo in mezzo, non ci è facile capirne il senso e la direzione. Viviamo in una cultura terribilmente omogenea e ripetitiva (almeno nelle sue manifestazioni più visibili) e andiamo alla ricerca di cose su cui “schierarci”. Ma non è un caso che gli schieramenti più netti e polemici, talvolta violenti, siano su cose come il gioco del pallone... che ormai non è più uno sport ma una grande speculazione finanziaria e di spettacolo.

Ha senso schierarsi “pro” o “contro” lo sviluppo tecnologico? Credo di no. Le stesse persone che si considerano “nemiche” della tecnologia non hanno alcun desiderio reale di rinunciare ai vantaggi che la tecnologia offre, di cui molti così abituali che non li consideriamo più “tecnologia” (come la luce elettrica, il riscaldamento, il frigorifero, l’automobile, il telefono, eccetera) – e sono pronte a fare la rivoluzione se non dispongono delle più moderne risorse della medicina.

Gli “schieramenti” sono pretestuosi e inutili. E ostacolano il difficile processo di capire non se, ma come il progresso tecnologico deve continuare.

Ha senso parlare di “nuova” e “vecchia” economia? Credo di no. L’ho già scritto alcune volte (vedi per esempio Non è una guerra fra “vecchi” e “nuovi”) ma non abbastanza. Non sono ancora riuscito a spiegarlo abbastanza bene neppure a me stesso. E mi sto sempre più dando dello stupido per il fatto che, in parte, c’ero cascato: usavo parole come new economy senza accorgermi che non sono solo imprecise e confuse, sono prive di significato.

Ha senso essere “pro” o “contro” l’internet? È comprensibile che, ancora oggi, molti vivano la rete con fastidio. O perché individualmente non hanno voglia di avventurarsi nelle “diavolerie” tecniche (che troppo spesso non sono fatte per adattarsi bene alle esigenze umane); o perché, giustamente, infastiditi dalle fissazioni e dalle esagerazioni dei tecnomani; o perché, se hanno potere nell’economia, nella politica o nell’informazione, temono di perdere una parte dei loro privilegi. Ormai il “coro” generale sembra orientato a cantare le lodi della rete, ma non è difficile sentire quanto siano stonate molte delle voci aggregate a quel peana.

Anche all’interno del mondo tecnologico ci sono schieramenti. Ne parlava Umberto Eco alcuni anni fa (prima che si instaurasse l’impero bizantino di Windows – che non sta tramontando così presto come dovrebbe). Spiegava che il Mac è cattolico, il Dos protestante – e Unix talmudico. Al giorno d’oggi, il tema importante della compatibilità e dell’opensource (che non è solo una questione di “codice sorgente”) non è riducibile a una “guerra” fra Microsoft e Linux. (Vedi il capitolo 21).

Quello che sto dicendo a me stesso (e spero non sia inutile condividere con i lettori) è che in questo turbolento sviluppo non ha senso essere “di parte”. Ognuno di noi, ovviamente, ha diritto di avere le sue personali simpatie o antipatie – e anche di cambiarle (per esempio dieci anni fa mi piacevano i telefoni cellulari, oggi sto cominciando a considerarli una sciagura). Ma è già abbastanza difficile capire come districarci nella turbolenza; qualsiasi posizione preconcetta “pro” o “contro” questa o quella cosa serve solo a confonderci le idee. Ed è peggio ancora cercare una “via di mezzo”, perché in questo caso in medio non stat virtus ma solo una palude di compromessi.

La via d’uscita è guardare avanti, cercare la sintesi, capire dove sono i nessi che (al di là di ogni strumentale conflitto di opinioni o di interessi) portano a soluzioni semplici, chiare, utili e coerenti. Con un’equilibrata mescolanza di metodo e intuizione, logica e fantasia, spesso è meno difficile di come sembra.

Non su tutto si può essere “obiettivi”. Ci sono cose, credo, su cui è bene essere “schierati” con determinazione e senza cedimenti. Come la libertà di opinione e di espressione, il diritto alla riservatezza, i valori della diversità, l’indispensabile gerarchia che vuole sempre le tecnologie al servizio dell’uomo (e dell’ambiente in cui viviamo) e mai viceversa. Ma servire con continuità e determinazione questi principi significa tenersi fuori dalle “partigianerie” e dalle contrapposizioni – che tutto fanno fuorché aiutarci a capire.






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