Giancarlo Livraghi dicembre 2013
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(migliore come testo stampabile)
Capita, ogni tanto, che qualcuno mi chieda unintervista. Per pubblicarla in qualche giornale, o libro, o sito online. O trasmetterla per radio o televisione. Oppure, in altri casi, si tratta di studenti che cercano contributi per citarli nella loro tesi di laurea.
Non sempre ho il tempo o la capacità di rispondere. Ma faccio il possibile per non essere scortese. E può accadere che, talvolta, domande e risposte contengano qualcosa di interessante e meritino di essere citate in questo sito.
Questa volta si tratta di due vicende che racconto per tuttaltro motivo: la loro stranezza. Non sono mai mancati gli esempi di bizzarria in ogni sorta di dialoghi, commenti, domande e conversazioni. Ma questi, in due modi molto diversi, sono fra i più strambi che mi sia accaduto di conoscere.
In un caso, si tratta di unintervista in televisione. Nelle mie (non molte) apparizioni televisive avevo già sperimentato, ovviamente, un po di tutto. Ma mai una vicenda così complicata e confusa.
Non intendo disperdermi in dettagli autobiografici, ma solo raccontare una stranezza di quelle che si nascondono nei retroscena della televisione e di altri generi di spettacolo.
Unintervista si può organizzare in un giorno, realizzare in mezzora. Questa vicenda è durata sei mesi. È cominciata il 4 luglio 2013, quando mi è stato chiesto di commentare su una serie televisiva che non avevo mai visto.
Si chiama Mad Men. Racconta storie, banali e noiose, che si svolgono cinquantanni fa in unimmaginaria agenzia di pubblicità a New York.
Ho dovuto procurarmi un dvd della prima serie per poterne vedere almeno alcune puntate. Dopo averla vista, ho spiegato che non mi piace, la trovo scadente e comunque non somiglia affatto alla situazione reale (che conosco bene, per averla vissuta) né di quegli anni né di altri periodi.
Immaginavo che con questo avrebbero rinunciato a intervistarmi. Invece no. Benché avessi spiegato le mie perplessità, hanno voluto ugualmente procedere con lintervista, che è stata registrata il 14 ottobre.
Sembrava, allora, che i nuovi episodi di Mad Men dovessero andare in onda alla fine di ottobre e, insieme, la mia intervista. Ma, per non so quale disordine, in quel periodo la programmazione di Rai4 è caduta nel marasma. Così tutto è stato, di nuovo, rimandato di due mesi.
Quando, il 17 dicembre, ho visto i primi episodi della nuova serie, mi sono accorto che sono ancora più noiosi e sciocchi dei precedenti.
Sembra che gli altri spettatori abbiano avuto la stessa percezione. Gli ascolti sono molto scarsi. Dopo lesito deludente delle prime due nuove puntate, la trasmissione è stata degradata a giorni e orari meno rilevanti.
La mia intervista (che non avevo mai visto prima) è stata trasmessa in seconda serata il 22 dicembre. Risente, come era prevedibile, del modo strano in cui si è svolta la vicenda. Inserita in Mainstream con un montaggio disordinato e incoerente, risposte senza domande, poche immagini attinenti e troppe che non centrano.
Temo che, frettolosamente tagliato, rimontato e confuso in quel modo, poco di ciò che avevo detto rimanga comprensibile.
In sintesi: una serie televisiva che era stata imprudentemente definita capolavoro sprofonda nel disinteresse generale. Dellintervista non sono troppo deluso, perché in questa situazione era difficile aspettarsi di meglio.
Inaspettatamente... è stata unoccasione per imparare una cosa che non sapevo. Pare che la parola mad, nel titolo della serie, più che matti voglia significare madison cioè Madison Avenue (un modo di dire, diffuso da quasi centanni, per il mondo delle agenzie pubblicitarie americane).
Visto che è stata chiesta la mia opinione, perché cero, posso testimoniare che labbreviazione mad per madison è assurda. Non è mai esistita nel gergo di New York né in alcun altro modo di dire.
È una bizzarra invenzione di qualcuno che della vera Madison Avenue non ha alcuna conoscenza (come, appunto, gli autori e sceneggiatori di questa balorda serie). Un esempio minuscolo, ma caratteristico, della travolgente cavalcata delle bufale.
Nelipotesi che qualcuno avesse il desiderio di vederla
lintervista-papocchio si trova in streaming
Il secondo esempio è un caso molto diverso. Si tratta di unintervista scritta, per email, il 30 novembre 2013. La stranezza sta nel fatto che a qualcuno sia venuto in mente di farmi cinque domande di cui non capisco il significato.
Non si tratta di bizzarre divagazioni di studenti pazzerelloni. Ma di un tema rigorosamente assegnato, per una tesi di laurea, dal docenterelatore (persona non ignara dellargomento) e basata su alcune ipotesi (citate nella domanda 2) proposte da una fonte ritenuta autorevole e competente.
Non faccio nomi perché non ho alcun desiderio di mettermi in polemica. Mi limito a pubblicare qui le domande, così come le ho ricevute e le mie risposte.
Giudichino i lettori se sbaglio (male interpretando le ipotesi formulate in queste domande) oppure se (come a me sembra) si tratta di alcune fra le tante imperversanti teorie di ipotetiche novità senza alcun significato concreto, verificabile o anche solo teoricamente presumibile.
Comunque è molto strano che nellimpostazione di questi presunti studi accademici nessuno si fosse mai preoccupato di controllare se gli esempi citati avessero qualcosa a che fare con le ipotesi che si è tentato di dedurne.
1. Su queste tesi spesso si sente parlare di morte dellOut of home, ma levoluzione della pubblicità nel contesto urbano sembrerebbe smentire tale idea (digital signage, guerrilla, ambient...). Quali pensa saranno le sue sorti? Come immagina sarà la pubblicità del futuro nel contesto metropolitano?
Non ho idea di quali possano essere i motivi per cui qualcuno parla di morte dellout of home. È vero che oggi sono più abbondanti gli strumenti per comunicare (anche scegliere e comprare) senza uscire di casa ma questo non vuol dire che lumanità viva rinchiusa in qualche spelonca elettronica.
Quanto alle cosiddette evoluzioni della pubblicità, cè una bizzarra e mefitica inondazione di neologismi senza significato. Diffido di presunte innovazioni che non siano spiegabili in parole più semplici e chiare.
Per una sintomatica coincidenza, mi ero trovato a fare unosservazione
analoga in unaltra intervista, su un altro argomento, nel giugno 2013.
2. «Non solo la pubblicità occupa i luoghi più svariati, ma è diventata luogo fisico essa stessa. Vengono progettati con criteri propri dei messaggi pubblicitari gli edifici che ospitano le aziende e anche insediamenti che occupano ampie porzioni di territorio: è il caso di Autostadt, la città dellautomobile costruita da Volkswagen in Germania. Si arriva a parlare di brandscape, parola formata da landscape, paesaggio, e brand, marchio».
Cosa ne pensa di questa affermazione? Quali crede che siano gli effetti di tale estensione degli spazi pubblicitari? Secondo lei, quanto sono in grado di far vivere al consumatore lesperienza di marca senza incrementare il tasso di intrusività e quindi linsofferenza?Per quanto riesco a capire, Autostadt non è una città dellautomobile. Nessuno ci abita. È unesposizione delle automobili Volkswagen, accanto alla fabbrica a Wolfsburg in Sassonia. Dove i visitatori le possono guardare, provare, anche comprare. Non è neppure un museo di storia della motorizzazione, ma solo un salone espositivo di una sola impresa (e, immagino, delle sue varie e diverse brand, cioè marche). Nulla a che fare, mi sembra, con un ipotetico brandscape.
In generale, che gli uffici, le fabbriche e i luoghi di vendita occupino porzioni di territorio non è certo una novità. Si tratta di capire quanto grandi, invadenti o inquinanti possano essere i territori occupati.
Ovviamente linvasione del territorio deve trovare i suoi limiti, perché non si può permettere che inquini o distrugga lambiente urbano o il paesaggio.
Prima ancora che questo provochi una crisi di rigetto nel fastidio degli abitanti e visitatori, è dovere delle autorità (purtroppo non sempre assolto con sufficiente impegno) impedire che lambiente sia deturpato, in città o in campagna.
Ci sono alcuni casi in cui la pubblicità esterna è diventata, da molti anni, un elemento caratterizzante di un ambiente. Come, per esempio, Times Square a New York e Piccadilly Circus a Londra. Ovviamente, in quei casi, va bene così. Ma a condizione che (come infatti è) si tratti di pochi, particolari, specifici luoghi caratteristici, non di indiscriminata e disordinata invadenza.
Comunque, lidea di brandscape mi infastidisce e mi preoccupa. A nessuno deve essere concesso di impadronirsi del landscape, che sia contesto urbano o paesaggio. Già troppe brutture (per esempio antiestetici e malfunzionanti edifici) deturpano lambiente, a tal punto che si è costretti a demolirle.
La forma più antica di pubblicità commerciale è quella sui muri, come dimostrano le scritte che si trovano a Pompei. Ma nulla dimostra che sia mai stato consentito a un mercante imbrattare o scolpire palazzi, templi, terme, teatri, anfiteatri o anche solo le belle case dei facoltosi romani che ci abitavano.
Al giorno doggi, lesperienza ha ampiamente dimostrato che laffissione funziona meglio quando e dove è più ordinata e meno invasiva.
3. Cosa pensa abbia condotto il colosso del mobile low cost Ikea a dare vita al progetto del quartiere di Londra? Crede che la strategia scelta sarà vincente? Quale pensa siano i punti di forza e quali i punti di debolezza di tale progetto?
Ho fatto un po di ricerca online per capire che cosè questo progetto. Risulta che Ikea sta sviluppando una nuova e separata attività nel settore immobiliare.
Sta realizzando a Londra un esteso quartiere, in parte residenziale, ma anche di uffici, attività commerciali e servizi civili. Si chiama Strand East ed è definito Utopian village. Inoltre Ikea ha in programma qualcosa di simile ad Amburgo.
È unimpresa radicalmente diversa da quella dei mobili. Ha intenzioni di qualità ecologica e umanistica che riflettono un atteggiamento abitualmente dichiarato nella cultura di Ikea, ma è del tutto separata dalla sua attività nel campo dellarredamento e accessori domestici.
Perciò se, come credo di aver capito, il progetto immobiliare è fine a se stesso, i punti di forza e di debolezza saranno da valutare (quando sarà pienamente realizzato il progetto di Londra e, più tardi, anche quello di Amburgo) esclusivamente in base alla qualità dei suoi risultati.
Cioè alla soddisfazione dei suoi abitanti e al suo contributo (o danno) allambiente circostante.
4. Come mutano il rapporto tra la marca e il consumatoreinquilino casi come quello di Ikea o quello di Disney, che ha costruito il quartiere Celebration in Florida?
Nel caso di Ikea, non si tratta di consumatoriinquilini, ma semplicemente di inquilini, acquirenti, abitanti, imprese, servizi, attività commerciali che vi avranno sede. Del tutto indipendentemente dal fatto che, come consumatori di mobili e altri prodotti per la casa, siano o no clienti di Ikea. Tanto è vero che, stando alle intenzioni dichiarate, non è previsto che ci sia alcun negozio Ikea a Strand East. Né, per quanto è dato sapere finora, in alcun altro suo progetto immobiliare.
Per poter valutare il livello di soddisfazione degli abitanti e la qualità urbanistica di tutto linsieme ci vorranno, come minimo, alcuni anni.
Celebration, un quartiere di Osceola County, Florida, non è una novità. E non è brandscaping. La costruzione era cominciata ventanni fa, allinizio degli anni 90. I primi residenti si sono installati nel 1996. Nel censimento più recente (2010) risulta avere 7.427 abitanti. Una delle sue strade principali si collega alle vicine Walt Disney World Resorts, ma è ovviamente una cosa del tutto diversa.
Celebration è lunico progetto immobiliare impostato da Disney. Allepoca la Disney Development Company (che si occupava di parchi divertimenti e attività connesse) era una società separata, di proprietà della Walt Disney Company, in cui poi è stata riassorbita nel 1996 quando aveva già abbandonato lesperimento Celebration, vendendolo ad altri che ne hanno completato la realizzazione, senza alcuna ambizione di farne un modello per ulteriori sviluppi su scala più estesa.
5. Quello di Ikea è un modello esportabile ad altri brand di settori diversi? Se sì, quali? Se no, perché?
Non riesco a vedere nelle attività di Ikea (né negli altri esempi citati) alcun modello generalizzato esportabile ad altri brand in diversi generi di prodotti o servizi.
Ikea è unimpresa di grande successo in un settore che ha inventato, la produzione e vendita di mobili da montare e di arredi domestici di buona qualità, moderno design e prezzo non eccessivo.
Ora ha deciso di sviluppare unattività immobiliare con unimpronta avanzata di abitabilità e qualità ambientale. In questa diversificazione si trova in concorrenza con molte altre imprese delledilizia che hanno (o almeno dichiarano) obiettivi analoghi.
Non sembra che abbia intenzione di usare lo stesso brand per i suoi due settori di impresa, né di collegarli in alcun altro modo. E non riesco a immaginare alcun motivo per cui una tale confusione le possa essere utile.
Sono moltissimi i casi di diversificazione in ogni sorta di imprese. Alcuni di successo, molti fallimentari. Spesso deformati o devastati dalla perversità della speculazione finanziaria e dalle voraci fusioni e acquisizioni. Nessuno, per quanto ci è possibile capire, definibile come qualcosa di simile a un orwelliano brandscape.
Insomma sembra essere solo unipotesi astratta, piuttosto azzardata, quella di costruire località omogeneizzate i cui abitanti siano costretti o indotti a usare prodotti o servizi di una particolare marca. Se ci fosse qualcosa di vero, sarebbe da capire come gli inquilini possano accettare (o subire) il ruolo di cavie.
Non aggiungo altri commenti. Spero che le risposte alle domande
e le perplessità sulle varie ipotesi siano sufficientemente chiare.