Violenza e crudeltà contro le donne
(“presa di coscienza” tardiva e scarsa)

Giancarlo Livraghi – settembre 2013

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(migliore come testo stampabile)


Dopo due recenti articoli su questo argomento, non pensavo di ritornare così presto sullo stesso tema – che comunque è inesauribile. Ma ci sono fatti di questi giorni che meritano di essere approfonditi.

(Le precedenti osservazioni si trovano in Violenza e Banane – agosto 2013).

L’inevitabile intensità di emozione che circonda ogni notizia o commento su queste vicende mi costringe a ripetere una premessa. Non ho alcuna intenzione di sottovalutare la gravità di ciò che accade in Italia. Ma per capire il problema è importante osservarlo anche in una prospettiva più ampia.

Non è certo una “consolazione” constatare che nessun paese al mondo è immune – e in molti la situazione è più grave che da noi. Ma se vogliamo conoscere la perversa natura delle persecuzioni dobbiamo guardare anche fuori dai nostri confini.

Ci sono vicende recenti, di cui alcune particolarmente orripilanti, che hanno richiamato l’attenzione di giornali e telegiornali in giro per il mondo – e anche in Italia. Ma il rischio è che, passata l’onda dello scandalo, le profonde e terribili radici del male cadano di nuovo nel dimenticatoio.

L’India si vanta, legittimamente, di essere “la più grande democrazia del mondo”. Ha un buon livello di libertà di stampa e di opinione. È anche un paese affascinante, di antica e splendida cultura. Ma è afflitta da crudeli storture sociali che imperversano da secoli o millenni – e sono ipocritamente “tollerate”, nascoste, subite passivamente e vergognosamente coperte da una pesante coltre di imbarazzato silenzio e diffusa complicità.

La “novità” sta nel fatto che alcune notizie recenti, invece di essere ignorate, sono state diffuse. In India e anche nel resto del mondo (compresa l’Italia). La strada è ancora lunga per arrivare alla soluzione dei problemi – o anche solo a efficaci tentativi di sistematico contrasto. Ma sta diventando difficile “far finta di non sapere”.

Nel dicembre 2012, in una squallida periferia di New Delhi, una ragazza di 23 anni è stata stuprata e uccisa da quattro giovani indiani. Uno fra tanti crimini di quel genere (si stima che in India «una donna venga stuprata ogni venti minuti»). Ma questa volta i colpevoli sono stati identificati, arrestati e processati – con “insolita velocità” (la giustizia indiana è ancora più lenta e farraginosa di quella italiana). Condannati a morte il 12 settembre 2013.

È ovviamente giusto che la condanna sia “esemplare”. Ma (come osservato da alcuni commentatori indiani) la severità della pena potrebbe essere “controproducente”. Gli stupratori potrebbero essere incoraggiati a uccidere le vittime e far sparire i cadaveri nel tentativo di evitare di essere scoperti.

La corruzione (un male molto diffuso in India) e la tradizionale tendenza a “trascurare” vergognose abitudini sono e rimangono pesanti ostacoli alla soluzione di questi problemi. Ma se cominciano a “venire alla luce” possiamo sperare in un maggiore impegno nel tentativo di risolverli.

Un fatto interessante à che qualcuno a “Bollywood” (la gigantesca organizzazione indiana di produzione cinematografica) ha deciso di superare il tabù. È in produzione un film del regista Siddharta Jain (c’è qualcosa di simbolico nel nome?) intitolato Kill the rapist, in cui una donna aggredita da uno stupratore riesce a sopraffarlo, ma poi non sa come comportarsi. Chiamare la polizia, «di cui tutti conoscono l’inefficienza e l’insensibilità»? O ammazzarlo e seppellirlo in giardino?

(Vedi l’articolo di Nita Bhalla nel Corriere della Sera dell’11 settembre 2013, che contiene anche altre interessanti osservazioni sulla nuova “presa di coscienza” del problema in India).

Fra i sintomi di “nuova consapevolezza” ci sono state manifestazioni di piazza, in grandi città indiane, nel dicembre 2012 e gennaio 2013. I dibattiti «si intensificano nei social media». Alcune personalità “famose”, come “stelle” del cinema e campioni di cricket (lo sport più seguito in India) hanno “preso posizione”. Ma tutto questo è ancora poco rispetto alla gravità del problema.

Nita Bhalla, giornalista di Delhi e corrispondente della Thomson Reuters Foundation, è convinta che la crescita della consapevolezza abbia superato la soglia della tradizionale indifferenza e sia ormai inarrestabile. Speriamo che abbia ragione. Ma solo nei prossimi anni si potrà capire se, quando e come il cambiamento avrà sviluppi estesi e concreti. Comunque è probabile che debba essere graduale e poco veloce.

Ci sono anche altre complicazioni nella situazione delle donne in India. Per esempio, a nessuna è vietato andare a scuola o imparare un mestiere, ma la diffusa abitudine di costringerle a sposarsi troppo giovani, dedicarsi alle attività domestiche e avere figli troppo presto, le obbliga ad abbandonare gli studi e rinunciare a ogni tentativo di attività professionale. Anche senza arrivare all’estremo, tragicamente diffuso, che avevo già citato in un altro articolo: l’uccisione di nuore “disobbedienti” da parte di suocere autoritarie.

(Un altro fenomeno da stroncare à quello degli aborti selettivi per genere, cioè interruzione della gravidanza se il feto à femmina. In India à illegale ed è formalmente vietato ai medici praticarlo, ma ovviamente questo non basta a impedirlo – e solo un’evoluzione culturale lo potrà eliminare).

Ci sono, in altri paesi, situazioni ancora peggiori di quelle da risolvere in India. Di cui solo qualcuna trova un’eco nell’informazione internazionale.

Ci sono opinioni contrastanti sulla credibilità di una notizia diffusa dal Daily Mail il 9 settembre 2013 su un caso mostruosamente tragico nello Yemen. Si tratta di una moglie bambina (otto anni) morta in seguito alla demenziale violenza sessuale del marito nella “prima notte di nozze”.

Forse possiamo sperare che, in questo caso, la storia sia falsa. Ma il problema è che la perversa usanza di “vendere” in matrimonio forzato ragazzine troppo giovani è un’abitudine radicata nella tradizione non solo nello Yemen, ma anche in parecchi altri paesi.

Una troppo mite legge yemenita, che vieta il matrimonio con ragazze di età inferiore a 17 anni, è diffusamente ignorata – senza conseguenze per i trasgressori. E la legittimità di quella legge è negata da abominevoli “autorità religiose” che la definiscono “contraria all’Islam”.

Uno studio condotto dall’ONU in sei paesi asiatici (Bangladesh, Cambogia, Cina, Indonesia, Papua Nuova Guinea e Sri Lanka) indica che «un quarto degli uomini ammette di aver violentato una donna». E «la maggioranza dei soggetti ha riferito di non aver dovuto affrontare alcuna conseguenza legale».

Per una sintesi dei risultati vedi l’articolo di Guido Santevecchi nel Corriere della Sera dell’11 settembre 2013. Un’analisi più estesa probabilmente rivelerebbe situazioni preoccupanti anche in parecchi altri paesi – pricipalmente, ma non solo, in Asia e in Africa.

Un grave problema nelle culture più tradizionali è la vergogna. Le donne vittime spesso subiscono in silenzio perché temono di essere “sporcate” dalla violenza subita.

Non è del tutto risolto neppure nei paesi e ambienti meno degradati e più consapevoli – compresa l’Europa e in particolare l’Italia. Inoltre, dispiace doverlo ammettere, c’è anche un rischio inverso: alcune donne in lite con uomini, per tutt’altri motivi, li accusano falsamente di violenza (sessuale o non) o di stalking o denigrazione o calunnia o varie altre persecuzioni. E così confondono le indagini anche sui casi veri.

Comunque, il “clamore” è pericoloso. Falsi allarmi, “notizie” distorte, ipotesi confuse, preconcetti insensati. Occorre meno frettoloso scandalismo, più serietà e metodo nelle diagnosi e nella ricerca delle soluzioni.

Problemi come questo non si risolvono solo con le leggi, i tribunali e le attività di polizia. Occorre trovare e formare bravi e metodici “specialisti” (in prevalenza, probabilmente, donne – ma anche uomini) che sappiano capirne la complessità. Una risorsa ancora scarsa anche nei paesi più evoluti.

(Spero che a nessuno venga in mente di inventare facoltà universitarie di violenzologia. Servono solo persone di buona cultura che abbiano voglia di impegnarsi a capire e risolvere i problemi – e condividere le esperienze).

Indignazione e disgusto sono inevitabili. Affetto, empatia e solidarietà per le vittime sono importanti. Ma dobbiamo costringerci a capire che le soluzioni efficaci non si trovano senza una forte dose di fredda e concreta razionalità.


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