La violenza contro le donne

Giancarlo Livraghi – agosto 2013

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(migliore come testo stampabile)


Sono continuamente irritato, disturbato, preoccupato per la moltiplicazione di neologismi confusi e devianti, che sarebbero solo ridicoli se non avessero il pernicioso effetto di confonderci le idee. Farne un elenco, anche limitandomi ai più diffusi, sarebbe lungo, noioso e complicato. E non potrebbe mai essere aggiornato, perché continuano a nascere nuove balordaggini lessicali.

Perciò mi limito a sceglierne qualcuno, come spunto di ragionamento su un problema mal definito e inadeguatamente affrontato. Questa volta si tratta dell’ambiguo e deviante concetto di “femminicidio”.

Ovviamente non ho alcuna intenzione di sottovalutare la gravità dei fatti. Ma il “grido di dolore” su ogni singolo episodio (fra quelli più rumorosamente riferiti dalle cronache, mentre tanti passano inosservati) si spegne presto in un effimero rumore di indignazione e sgomento. Per essere poi dimenticato fino a quando altri susciteranno “sfoghi” altrettanto inconcludenti.

Confondere fatti e situazioni diverse in un’unica definizione vuol dire rinunciare a ogni significativo tentativo di capire. E perciò indebolire – o soffocare del tutto – ogni possibilità di efficace contrasto.

È umanamente difficile ragionare “a mente fredda” su fatti e situazioni così orribili e dolorose. Ma, per andare alle radici dei problemi e tentare di risolverli, occorre una gelida chiarezza nelle diagnosi e nella ricerca di metodi efficaci di terapia – soprattutto di prevenzione.

Il 12 luglio 2013 un’assemblea delle Nazioni Unite ha solennemente ascoltato e applaudito il discorso di Malala Yousafzai, il giorno del suo sedicesimo compleanno. È la ragazza pakistana fortunosamente sfuggita al tentativo dei talebani di ucciderla – ricoverata e guarita in Gran Bretagna.

Ha letto un testo preparato con cura. Probabilmente aiutata a esprimere il suo pensiero con un linguaggio adatto alla circostanza (così tutti i presenti hanno il dovere di aver capito). Ma poi, passata la festa, che cosa rimane?

Qualcuno che l’ha ascoltata sta tentando di fare qualcosa per tanti milioni di donne private di ogni diritto, di cui non poche perseguitate, anche uccise, se tentano di ribellarsi – o anche solo di esprimere un’opinione?

Non solo nel paese di Malala. In tanti altri la repressione imperversa, poco ostacolata o contrastata da una distratta comunità internazionale.

Per esempio – fra i problemi più mostruosi c’è la mutilazione genitale femminile. Se ne parla da molti anni, ma solo nel 2012 è stata “condannata” dall’ONU. L’attenzione rimane sporadica e siamo lontani da una soluzione.

Non è un “femminicidio”, perché solo alcune muoiono per la rozza e feroce operazione. Ma le vittime restano orribilmente lese per tutta la vita.

Una particolare mostruosità sta nel fatto che a volere la mutilazione di bambine o adolescenti sono madri che hanno subito la stessa violenza e si sentono obbligate dalla “tradizione” a infliggere il tormento alle loro figlie.

Recenti statistiche pubblicate dall’Unicef denunciano numeri spaventosi. Spero che siano un po’ esagerate, ma comunque sono impressionanti. Più di 125 milioni di donne, nel mondo, così mutilate (secondo altre fonti, 140).

In una precisa area geografica: 28 paesi in Africa e due nel Medio Oriente (Iraq e Yemen). “Usanza” ora un po’ in diminuzione, ma ancora orribilmente diffusa. In questa mappa, vediamo dove si trova.

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Le percentuali sono imprecise (e variano secondo fonti diverse). Ma il quadro generale è chiaro.
I paesi in bianco sono quelli in cui la mutilazione genitale femminile “non è praticata largamente”.

A differenza del resto del Nord Africa, l’Egitto risulta fra i paesi a più alta concentrazione di mutilazioni (oltre 90 % delle donne). Perché nelle cronache dei conflitti ora in corso, come nei proclami degli schieramenti contrapposti, non c’è mai alcun accenno a questa perversa “abitudine”?

In questo caso, non si tratta di islamismo. È vero che questo orrore (come tante altre forme di maltrattamento delle donne) è particolarmente diffuso in paesi musulmani, ma l’origine sta in altre (non bene identificate) tradizioni.

Al secondo posto “in cifra assoluta” c’è l’Etiopia. Dove, secondo i dati dell’Unicef, le mutilazioni sono inflitte al 71 % (ma potrebbe essere 80) della popolazione femminile. In Etiopia i cristiani sono il 63 % – di cui 43,5 % ortodossi copti, 18,6 % protestanti, solo 0,7 % cattolici. (Islam 34 %). Non risulta che alcuna di queste religioni si sia mai impegnata seriamente, né in Etiopia né altrove, contro la barbarie delle mutilazioni genitali.

I paesi più gravemente afflitti sono (in ordine di percentuale sulla popolazione) Somalia, Guinea, Gibuti, Egitto, Eritrea, Mali, Sierra Leone, Sudan (nord), Gambia, Burkina Faso, Etiopia, Mauritania e Liberia. In “cifra assoluta” al terzo posto c’è la Nigeria, con mutilazioni inflitte al 27 % della popolazione femminile – un impressionante totale di 20 milioni di vittime.

*     *     *

Sono diffuse, più di quanto le abituali cronache ci raccontano, tante altre forme di atroce repressione in cui non sempre sono gli uomini a perseguitare le donne. Per esempio in India ci sono giovani spose, costrette a matrimoni imposti dalle famiglie, che improvvisamente muoiono per una cucina che si incendia o per un altro “incidente domestico”. È noto che in realtà sono uccise, “perché disobbedienti”, dalle feroci suocere (non dai mariti). Ma è difficile dimostrarlo – e c’è omertà per usanze antiche che tardano a scomparire.

Ed è noto che in Cina (benché con l’urbanizzazione cadano i motivi di antiche usanze agricole) non è ancora estinta l’abitudine di uccidere bambine appena nate. La “modernità” sta nel fatto che con le ecografie il neonatiticido delle femmine può essere sostituito dall’aborto.

Questi sono solo due fra i molti, orribili esempi di situazioni in cui il maltrattamento (fino all’uccisione) delle donne non è opera solo di maniaci depravati, ma è voluto e praticato sistematicamente dalla cultura dominante.

Ovviamente sarebbe sbagliato farne un problema di religione, ma è un fatto che molteplici forme di repressione delle donne prosperano in culture musulmane. Compresa la persecuzione, che arriva troppo spesso all’uccisione, di quelle che tentano di ribellarsi. E c’è una deplorevole carenza di intervento da parte delle autorità religiose e culturali dell’Islam per contrastare queste perverse deviazioni da una più civile interpretazione della loro dottrina.

Ma questo, ovviamente, non significa che altre culture (religiose o non) siano indenni da squilibri e ingiustizie sociali – oltre a svariate forme di violenza, individuale o di gruppo, di cui in molti casi (ma non sempre) le vittime sono donne.

Il problema è complicato, molteplice, spesso confuso. Ci vuole attenzione, pazienza, metodo per capirne le complessità – e i tanti modi in cui situazioni diverse, vicine o lontane, hanno un’origine comune o una reciproca influenza.

*     *     *

E da noi? La percezione generale del ruolo femminile è già molto migliorata. Nessuno più si stupisce che una donna possa essere chirurgo, ingegnere, pilota di aereo, astronauta o comandante militare. Al vertice di una grande impresa o in un importante ruolo politico. Alla guida di un camion o con un ruolo importante in un laboratorio di fisica nucleare. Ovviamente l’evoluzione non è ancora completa, ma la strada è tracciata e si tratta di percorrerla con ostinata e lucida energia. Con l’irriducibile intenzione di eliminare del tutto ogni sorta di pregiudizi – non solo di sesso o di genere.

Come dicevo all’inizio, parlare di “femminicidio” può essere deviante. Muoiono assassinati uomini e donne anche indipendentemente dal sesso.

È vero che ci sono casi, chiari e precisi, in cui l’uccisione di una donna è direttamente connessa al fatto che è femmina. Occorre capirli come tali. Ma si corre spesso il rischio di fare confusione.

Gli assassini e i violenti non sono tutti uguali. Uno psicopatico stupratore non soffre della stessa anomalia mentale di un depresso deluso in amore o intossicato dalla gelosia. Un “orco” che rinchiude e maltratta crudelmente tutta la sua famiglia non è lo stesso mostro di uno stalker persecutorio e aggressivo. Eccetera.

Non si tratta di metterci a giocare allo psichiatra. Servirebbe solo ad aumentare la confusione. Né di mobilitare un esercito di “profilatori” come quelli che vediamo o leggiamo in tante storie poliziesche. Ma qualcosa occorre fare perché ci sia una più efficace prevenzione. Compreso un lavoro più serio di giornalismo d’inchiesta, che con pazienza e metodo aiuti tutti (dalle poco efficienti “autorità preposte” all’opinione pubblica in generale) a capire meglio l’origine dei problemi e così agire con più efficacia per prevenirli.

Il fracasso disordinato sugli episodi di violenza, passata l’effimera rabbia, può avere un paradossale effetto di assuefazione. Con la constatazione che i casi più clamorosi non sono nel nostro abituale “vicinato”, ci illudiamo di non correre rischi. Che invece si annidano un po’ dovunque – anche in ambienti apparentemente “insospettabili”.

Uno dei problemi è la vergogna, che induce le vittime a subire e tacere. Per fortuna è in diminuzione – cresce il numero delle persone (in particolare donne) che hanno il coraggio di denunciare. Ma non ancora abbastanza.

E a complicare le cose c’è anche il noto rischio di accuse all’incontrario, persecutori che recitano la parte della vittima.

Anche in questo senso, troppo rumore non aiuta. Bisognerebbe essere più severi nella riservatezza. Come lo trovano, il coraggio di denunciare, persone che giustamente temono di essere immolate sul bieco altare della pubblica umiliazione? Anche quando la vittima è stata uccisa, è mostruosa violenza assoggettare famigliari e amici al supplizio di “spettacolizzazione” del dolore.(Che a qualcuno una tale visibilità possa piacere è un’altra forma di barbarie). È ignobile il diffuso tentativo di trasformane tragedie umane in reality show.

Insomma non è teatro, non è spettacolo, è umana realtà. Non sono un criminologo, né uno psichiatra. Non mi azzardo a proporre metodi per risolvere, o almeno ridurre, questi problemi. Ma due fatti sono chiari.

Uno è che occorrono meno piagnistei e lamentazioni, più concreto buon senso e impegno sistematico (non occasionale e sporadico) per estirpare le radici del male e disinfestare il terreno di cui si nutrono. L’altro criterio è che è sempre utile saper guardare oltre i confini. Un insegnamento importante può venire, quando meno ce lo aspettiamo, da un’esperienza approfondita agli antipodi – o a pochi passi dalle nostre frontiere (fisiche e mentali).

Comunque non posso concludere senza ritornare sul doloroso argomento delle orribili repressioni che imperversano in molte parti del mondo. Illuderci che non ci riguardino non è solo egoistico, è anche stupido. L’umanità è una sola – e con la “globalizzazione” (che non è un banale modo di dire) gli incroci fra diverse culture, comprese quelle che sembrano più remote, continuano a crescere e moltiplicarsi. Una risorsa che può essere illuminante. Ma c’è un diffuso rischio di contagio – infestarsi di atteggiamenti e comportamenti mal capiti e rozzamente imitati, che oltre a confonderci le idee ci rendono anche goffi, ridicoli e imbarazzanti.

In mezzo a tutta questa confusione ci sono parecchie organizzazioni (spesso poco visibili) e tante persone coraggiose che si impegnano in ogni angolo del mondo per rompere (o almeno indebolire) le feroci catene della repressione. Sarebbe utile e interessante conoscere meglio le loro attività. Per aiutarle, se possibile. Ma anche per imparare dalle loro esperienze. Con molta prudenza nel pubblicare – o comunque rivelare – dettagli troppo precisi, per evitare ogni indizio che possa individuare la loro identità e così esporle al rischio di essere perseguitate o uccise.


Post scriptum

Questo è, in italiano, il discorso di Malala Yousafzai all’ONU.
Ovviamente le esortazioni e le “buone intenzioni” non bastano.
Ma il messaggio è forte e chiaro. Merita di essere letto.

Malala
Malala Yousafzai

Cari fratelli e sorelle ricordate una cosa. La giornata di Malala non è la mia giornata. Oggi è la giornata di ogni donna, di ogni bambino, di ogni bambina che ha alzato la voce per reclamare i suoi diritti.

Ci sono centinaia di attivisti e di assistenti sociali che non soltanto chiedono il rispetto dei diritti umani, ma lottano anche per assicurare istruzione a tutti in tutto il mondo, per raggiungere i loro obiettivi di istruzione, pace e uguaglianza.

Migliaia di persone sono state uccise dai terroristi e migliaia di altre sono state ferite. Io sono soltanto una di loro. Sono qui, una ragazza tra tante, e non parlo per me, ma per tutti i bambini e le bambine. Voglio far sentire la mia voce non perché posso gridare, ma perché coloro che non l’hanno siano ascoltati. Coloro che lottano per i loro diritti: il diritto di vivere in pace, il diritto di essere trattati con dignità, il diritto di avere pari opportunità e il diritto di ricevere un’istruzione.

Cari amici, nella notte del 9 ottobre 2012 i Taliban mi hanno sparato sul lato sinistro della fronte. Hanno sparato anche ai miei amici. Pensavano che le loro pallottole ci avrebbero messo a tacere. Ma hanno fallito. E da quel silenzio si sono levate migliaia di voci. I terroristi pensavano che sparandoavrebbero cambiato i nostri obiettivi e fermato le nostre ambizioni, ma niente nella mia vita è cambiato tranne questo: la debolezza, la paura e la disperazione sono morte. La forza, il potere e il coraggio sono nati. Io sono la stessa Malala. Le mie ambizioni sono le stesse. Così pure le mie speranze sono le stesse.

Cari fratelli e sorelle io non sono contro nessuno. Nemmeno contro i terroristi. Non sono qui a parlare in termini di vendetta personale contro i Taliban o qualsiasi altro gruppo terrorista. Sono qui a parlare a favore del diritto all’istruzione di ogni bambino.

Io voglio che tutti i figli e le figlie degli estremisti, soprattutto Taliban, ricevano un’istruzione. Non odio neppure il Taliban che mi ha sparato. Anche se avessi una pistola in mano e mi stesse davanti e stesse per spararmi, non sparerei.

Questa è la compassione che ho appreso da Mohamed, il profeta misericordioso, da Gesù Cristo e dal Buddha. Questa è il lascito che ho ricevuto da Martin Luther King, Nelson Mandela e Muhammed Ali Jinnah. Questa è la filosofia della non-violenza che ho appreso da Gandhi, Bacha Khan e Madre Teresa. E questo è il perdono che ho imparato da mio padre e da mia madre. Questo è quello che la mia anima mi dice: siate in pace e amatevi l’un l’altro.

Cari fratelli e sorelle, tutti ci rendiamo conto dell’importanza della luce quando ci troviamo al buio, e tutti ci rendiamo conto dell’importanza della voce quando c’è il silenzio.

E nello stesso modo quando eravamo nello Swat, in Pakistan, noi ci siamo resi conto dell’importanza dei libri e delle penne quando abbiamo visto le armi. I saggi dicevano che la penna uccide più della spada, ed è vero.

Gli estremisti avevano e hanno paura dell’istruzione, dei libri e delle penne. Hanno paura del potere dell’istruzione. Hanno paura delle donne. Il potere della voce delle donne li spaventa. Ed è per questo che hanno appena ucciso a Quetta 14 innocenti studenti di medicina. È per questo che fanno saltare in aria scuole tutti i giorni. È per questo che uccidono i volontari antipolio nel Khyber Pukhtoonkhwa e nelle Fata. Perché hanno avuto e hanno paura del cambiamento, dell’uguaglianza che porterebbero nella nostra società.

Ricordo che un giorno un bambino della nostra scuola chiese a un giornalista «perché i Taliban sono contrari all’istruzione?»«I Taliban hanno paura dei libri perché non sanno che cosa c’è scritto dentro». Pensano che Dio sia un piccolo essere conservatore che manderebbe le bambine all’inferno soltanto perché vogliono andare a scuola. I terroristi usano a sproposito il nome dell’Islam e la società pashtun per il loro tornaconto personale.

Il Pakistan è un paese democratico che ama la pace e che vorrebbe trasmettere istruzione ai suoi figli. L’Islam dice che non soltanto è diritto di ogni bambino essere educato, ma anche che quello è il suo dovere e la sua responsabilità.

Onorevole Signor Segretario generale, per l’istruzione è necessaria la pace, ma in molti paesi del mondo c’è la guerra. E noi siamo veramente stufi di queste guerre. In molti paesi del mondo donne e bambini soffrono anche in altri modi. In India i bambini poveri sono vittime del lavoro infantile. Molte scuole sono state distrutte in Nigeria. In Afghanistan la popolazione è oppressa da decenni dalle conseguenze dell’estremismo. Le giovani donne sono costrette a lavorare e a sposarsi in tenera età. Povertà, ignoranza, ingiustizia, razzismo e privazione dei diritti umani di base sono i problemi principali con i quali devono fare i conti sia gli uomini, sia le donne.

Cari fratelli e sorelle, è giunta l’ora di farsi sentire, di lottare per cambiare questo mondo e quindi oggi facciamo appello ai leader di tutto il mondo affinché proteggano i diritti delle donne e dei bambini. Facciamo appello alle nazioni sviluppate affinché garantiscano sostegno ed espandano le pari opportunità di istruzione alle bambine nei paesi in via di sviluppo. Facciamo appello a tutte comunità di essere tolleranti, di respingere i pregiudizi basati sulla casta, sulla fede, sulla setta, sulla fede o sul genere. Per garantire libertà e eguaglianza alle donne, così che possano stare bene e prosperare.

>Non potremo avere successo come razza umana, se la metà di noi resta indietro. Facciamo appello a tutte le sorelle nel mondo affinché siano coraggiose, per abbracciare la forza che è in loro e cercare di realizzarsi al massimo delle loro possibilità.

Cari fratelli e sorelle vogliamo scuole, vogliamo istruzione per tutti i bambini per garantire a ognunno un luminoso futuro. Ci faremo sentire, parleremo per i nostri diritti e così cambieremo le cose. Dobbiamo credere nella potenza e nella forza delle nostre parole.

Le nostre parole possono cambiare il mondo. Perché siamo tutti uniti, riuniti per la causa dell’istruzione e se vogliamo raggiungere questo obiettivo dovreste aiutarci a conquistare potere tramite le armi della conoscenza e lasciarci schierare le une accanto alle altre con unità e senso di coesione.

Cari fratelli e sorelle non dobbiamo dimenticare che milioni di persone soffrono per ignoranza, povertà e ingiustizia. Non dobbiamo dimenticare che milioni di persone non hanno scuole. Lasciateci ingaggiare dunque una lotta globale contro l’analfabetismo, la povertà e il terrorismo e lasciateci prendere in mano libri e penne.

Queste sono le nostre armi più potenti. Un bambino, un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo. L’istruzione è la sola soluzione ai mali del mondo. L’istruzione potrà salvare il mondo.

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