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I nodi della rete
di Giancarlo Livraghi
settembre 2008


Disponibile anche in pdf
(migliore come testo stampabile)

Anche in inglese e tedesco



Stupida legge,
perversa sentenza



Da sessantadue anni non c’è “censura” in Italia. Non solo la libertà di stampa e di opinione è “sancita” dalla Costituzione, ma è radicata nel costume e nella coscienza civile. Ci sono, tuttavia, fenomeni preoccupanti. La concentrazione di gran parte del sistema informativo in poche mani. Una generale, “centralizzata” miopia della “cultura dominante” che in parte è volontaria manipolazione e in parte inconsapevole ignoranza. Una sorniona, apparentemente benevola, cultura della superficialità e del pressapochismo che tende a inebetire, assopire e assoggettare.

Un elemento di disturbo, in questo contesto, è l’internet. Prima temuta, poi ambiguamente lodata, comunque mal capita, la rete rimane fastidiosa agli occhi di chi è abituato ad avere il controllo ed è irritato, se non preoccupato, da uno strumento che non riesce a “ingabbiare”.

Sarebbe lungo ripetere qui cose già dette tante volte, da quando nel 1996 avevo pubblicato Cassandra alle molteplici vicende descritte in ottanta testi nella sezione “libertà e censura” di questo sito. Ma un recente episodio merita qualche commento.

In questo ambiguo contesto ci sono varie norme mal concepite e peggio applicate. Una, in particolare, è la legge sulla “stampa clandestina” (1948) cui si è aggiunta, cinquantatre anni dopo, una bislacca interpretazione sulla “autorizzazione” di “pubblicazioni giornalistiche” in rete (2001).

Prima di proseguire, rileggiamo due articoli della Costituzione.

Nell’articolo 3 si dice che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge». Invece no. Ci sono leggi che rendono alcuni cittadini “più uguali degli altri” e varie “corporazioni” che godono di ingiustificati privilegi. Oltre a ogni sorta di limitazioni alla libera attività, economica, sociale e culturale, che si è tante volte detto di voler abolire, ma di fatto rimangono – e, un po’ troppo spesso, peggiorano.

Nell’articolo 21 si dice che «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Invece no. Ci sono norme di “autorizzazione” (come altre di varia origine e conseguenza) che si traducono in violazioni della libertà di informazione e comunicazione (generalmente definita “libertà di stampa“, fin dai tempi dello ”statuto albertino”, ma ovviamente estesa a ogni altro strumento o sistema).

“Ciò premesso”, veniamo all’episodio che ha giustamente suscitato scandalo e che è descritto in vari documenti online, come la notizia pubblicata da Punto Informatico il 19 giugno 2008 e la più dettagliata analisi di MCreporter il 9 settembre – e alle due balorde leggi che l’hanno reso possibile.

Si tratta di una sentenza del Tribunale di Modica, l’8 maggio 2008, che ha definito “stampa clandestina” il sito web dello storico siciliano Carlo Ruta (che era chiuso da quattro anni, perché lo stesso tribunale ne aveva disposto il “sequestro” nel 2004).

Una delle grottesche “anomalie” in quella sentenza è che il sito era definito come “testata giornalistica” perché aveva una “intestazione”. A questa stregua, potrebbe essere considerata “stampa clandestina” qualsiasi lettera pubblicamnente disponibile e scritta su “carta intestata”.

Lascio agli storici della legge, della politica e della cultura il compito di cercare di capire perché, quando era finito il fascismo ed era stata abolita la censura, nel 1948 si fosse emanata una legge di fatto restrittiva della libertà di stampa e in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione.

Mi “azzardo”, invece, a cercare di indovinare perché nell’aprile 2001 sia uscita una mal concepita (e mai efficacemente emendata) legge che “estende” le norme sulla stampa alla comunicazione in rete.

(Alcune osservazioni su quella legge si trovano in Timeo Danaos e Una legge molto confusa – aprile e maggio 2001).

Tutti i governi, e tutti i gruppi parlamentari, di ogni “parte” o tendenza politica, hanno sempre affermato che non hanno alcuna intenzione di limitare la libertà di stampa – e in generale di opinione. Sulla profondità e coerenza di quelle promesse possiamo avere qualche dubbio, ma “prendiamo per buona” l’ipotesi che l’intenzione, dietro la malpensata legge del 2001, fosse un’altra: estendere alle “testate” online quell’ambiguo sistema di sussidi, sovvenzioni e controlli che già esisteva per la “carta stampata” (e che già in quella sede ha prodotto parecchie distorsioni e manipolazioni).

In pratica, la legge del 2001 dice che un “giornale” online (quotidiano o periodico) deve essere registrato come testata – e che il “responsabile” deve essere iscritto a un’istituzione di cui molti, da molti anni, chiedono l’abolizione, ma che continua a sopravvivere come “casta privilegiata”: L’albo dei giornalisti. La conseguenza è che, interpretandola alla lettera, circa cinque milioni di siti web italiani (non solo “blog”) sarebbero fuori legge.

Sono passati sette anni e non c’è stato un “massacro” della rete. Ma la sciagurata sentenza del maggio 2008, di cui si parla in questi giorni, dimostra che “errori” sono possibili. Non è il primo “caso” di quel genere – e purtroppo è probabile che non sia l’ultimo.

Il “caso Modica” è “unico nel suo genere” – e perciò particolarmente preoccupante – per l’applicazione della legge 2001, cioè del concetto di “stampa clandestina” nell’internet. Ma ci sono parecchi esempi di abusi pretestuosamente “motivati” da altre storture delle norme e delle loro applicazioni.

Mi sembra un po’ miope che si “gridi allo scandalo” su questo episodio dopo aver poco badato, per sette anni, al fatto che c’è una legge sballata e non c’è mai stato alcun correttivo che la elimini o ne renda meno perversa l’interpretazione. Per non parlare di altre situazioni in cui, per svariati motivi, si sono “cancellati” o “sequestrati” o resi inaccessibili siti italiani e stranieri, con la troppo facilmente “volontaria” partecipazione degli internet provider, più preoccupati di difendere i loro interessi che di badare alla libertà (e riservatezza) delle persone, organizzazioni o imprese che usano i loro servizi.

Perché, fra tanti, ci si è accaniti proprio su quel sito? Non mi piace fare “dietrologia” o “processi alle intenzioni”, ma il fatto è che i contenuti “cancellati” e “condannati” trattano di collusioni fra politica e mafia – ed è probabile che l’argomento sia fastidioso per qualche centro di potere. Tuttavia “accontentiamoci” di pensare che sia un “errore” nell’interpretazione della legge. Il fatto rimane che “sbagli” di quel genere sono possibili – e inaccettabili in un paese civile.

Sono molti i “trucchi” con cui è possibile limitare, anche se non abolire del tutto, la libertà di opinione e di informazione.

C’è, fra l’altro, un “dettaglio tecnico” non irrilevante. Ci sono vari modi con cui un “sito sequestrato” può essere rimesso online – o i contenuti resi disponibili in modo diverso. I provvedimenti di “sequestro” o “cancellazione” hanno scarsissima efficacia nei confronti di criminali o malfattori di varia specie. L’accanimento repressivo è molto penalizzante per le persone perbene che esprimono opinioni scomode, sostanzialmente inefficace contro i malintenzionati, dall’estremo del terrorismo assassino o del crimine organizzato fino ai molteplici truffatori o diffusori di spam.

Nell’ipotesi (non “dimostrata”) che dietro un’assurda sentenza ci sia la longa manus di qualcuno che vuole sopprimere informazioni e opinioni sgradite, il supposto “censore” si è tirato la zappa sui piedi, perché con l’indignazione e le proteste ottiene l’effetto contrario. Ma questo, ovviamente, non può “giustificare”, né attenuare, la perversità del provvedimento o le storture della legge.

Non è facile distinguere quanto pesi l’ignoranza di chi si ostina a non capire che cos’è la rete – e quanto l’insidiosa voglia di reprimere e controllare la libertà di opinione. Ma rimane il fatto che le intenzioni repressive ci sono – e che la sorveglianza deve essere continua, con un’attenta osservazione di come le cose si evolvono nel tempo, non solo con estemporanee “indignazioni” su un singolo episodio, che purtroppo cadono rapidamente nel dimenticatoio e nella generale distrazione, lasciando il campo libero al ripetersi di ogni sorta di abusi. Senza mai dimenticare che ogni tentativo di censura non è solo perverso, è anche stupido.



Questo articolo è stato pubblicato
anche da MCreporter il 22 settembre
e da ALCEI l’8 ottobre 2008



Post scriptum

 
Anche rappresentanti della “categoria” giornalistica (che assurde leggi fingono di voler “proteggere”) esprimono forti perplessità su questo “caso” – nella sua specificità come nel suo significato “generale”. Per esempio ci sono queste interessanti osservazioni di Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine del Giornalisti della Lombardia.

«Il testo della sentenza emessa dal giudice Patricia Di Marco, che per la prima volta in Italia e in Europa ha condannato per stampa clandestina il curatore di un blog, non solo legittima la preoccupazione e la protesta che si sono levati dalle rete e dal paese negli ultimi mesi, ma offre ulteriori motivi di allarme. Come attestano le carte processuali, la periodicità regolare di “Accadeinsicilia” non è stata assolutamente provata. Il giudice conclude nondimeno che il sito citato non era soltanto un periodico: era addirittura un giornale quotidiano, condotto in clandestinità. Un assurdo, evidentemente».

«Tale fatto giudiziario viene da un contesto difficile. Come testimoniano numerosi eventi, alcuni poteri forti della Sicilia, sottoposti a critica, stanno facendo il possibile per far tacere Carlo Ruta, reo solo di credere nel proprio lavoro di ricerca e documentazione. Basti dire che solo negli ultimi mesi sono state inflitte allo storico quattro condanne, a pene pecuniarie e risarcimenti ingentissimi, per complessivi 97 mila euro, presso tre tribunali della regione».

«La gravità della condanna di Modica va comunque ben oltre gli scenari di riferimento, recando un naturale riscontro nell’attuale situazione politica, che sempre più pone in discussione le libertà sancite dall’articolo 21 della Costituzione. Lontana dai motivi di una vera democrazia, ma prossima alle logiche che vigono a Teheran e a Pechino, la sentenza siciliana apre di fatto un varco pericolosissimo, offrendo ai potentati italiani, sempre più timorosi della libertà sul web, un precedente per poter colpire i blogger scomodi, i siti che fanno informazione libera, documentazione, inchiesta. È quindi importante che la risposta a tale atto, già imponente in rete e significativa in altri ambiti, si estenda ulteriormente».

Benché “tardiva”, come tutte le “proteste” su questo e altri casi, la “presa di coscienza” dimostra che finalmente si comincia a capire come le molteplici forme di repressione della rete siano una seria minaccia per la generale libertà di informazione e di opinione – e come i tanti travestimenti non bastino a nascondere il fatto che si tratta di censura.




Nonostante le persecuzioni, Carlo Ruta
continua la sua attività in rete.
Il suo nuovo sito si chiama Le inchieste.


Ci sono altri casi, non meno allarmanti,
come quello segnalato da Punto Informatico
il 10 giugno 2008 (un sequestro derivante
non dalla legge sulla “stampa clandestina”,
ma da una denuncia per “diffamazione”).
 
Lascio agli esperti in materia legale il compito
di analizzare specificamente questo caso, ma pare
che il giornalista “incriminato” sia stato assolto
e comunque il suo sito è ritornato in attività.
Ma il sequestro c’è stato – e rimane inaccettabile
l’assurda prassi di cancellazione “preventiva”
senza alcun accertamento di un’ipotizzata trasgressione.



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