Luci e ombre dell’opensource

Intervista della redazione Kuht linux@kuht.it
a Giancarlo Livraghi gian@gandalf.it
su Softwarelibero Kuht

18 maggio 2003


 
Come nel caso di altre interviste
alcune osservazioni sono “ripetitive”
per lettori abituali di questo sito.
Ma poiché persone preparate e attente
si pongono queste domande
spero che sia utile
pubblicare anche qui le risposte.
 



Calamitare l’interesse generale verso gli aspetti tecnici di sistemi come Gnu/Linux, penalizzandone di fatto il messaggio etico/morale, può portare alla sconfitta del software libero come lo intende la Free Software Foundation?

Più che una sconfitta, sarebbe un suicidio. La situazione, per fortuna, non è così grave – ma ci sono molti problemi, ed errori di prospettiva, che ostacolano la diffusione (e l’efficienza) delle soluzioni opensource. Come sapete – e come vedremo nelle risposte alle altre vostre domande.


Il codice sorgente aperto a tutti è sicuramente garanzia di trasparenza e presupposto indispensabile per un modello collaborativo e “comunitario” di sviluppo del software.
Al giorno d’oggi non basta: dal momento che in ormai tutti gli aspetti del lavoro e della vita quotidiana sono implicate tecnologie informatiche e telematiche, una comunicazione efficiente e semplice dei dati si impone come assoluta urgenza,
Come vede Giancarlo Livraghi il cammino verso l’adozione globale di Standard Aperti e cosa si sente di suggerire per accelerarne il processo?

Le soluzioni tecniche sono strumenti, che devono essere concepiti e sviluppati in funzione della loro utilità. Se si parte dalle tecnologie si rischia, quasi sempre, di sbagliare prospettiva. Non si presta sufficiente attenzione alla domanda fondamentale: perché l’uso di software libero e aperto è meglio per tutti? Per la società civile, per l’economia, per la cultura, per le persone? Quali sono i danni che i sistemi chiusi, e i monopoli, provocano non solo al portafoglio, ma anche all’esistenza di tutti noi? Le risposte sono abbastanza ovvie... ma non si ragiona e non si lavora abbastanza da questo, fondamentale, punto di vista.

Troppa attenzione (scusatemi la franchezza) è dedicata ai dialogo interno fra iniziati e adepti, come nelle antiche diatribe delle congregazioni religiose. Occorre una boccata d’aria fresca, un desiderio vivo di capire che cosa (e come) sia significativo e utile per il resto dell’umanità.


In un suo recente articolo su “Netforum” Lei afferma «C’è un gran bisogno di idee e c’è il modo per svilupparle». A chi è rivolto questo appello?

A tutti. Persone, famiglie, imprese, organizzazioni pubbliche e private, scuole, comunità umane di ogni genere. Siamo sprofondati un una palude di abitudini, di imitazione, di “omogeneizzazione”, di manierismi e di passività. Anche il mondo della politica, dell’informazione e della cultura annaspa in una perversa mistura di pragmatismi miopi e strumentali e di ideologie o pregiudizi che non sono idee, ma schemi sclerotizzati. Per uscire dal pantano occorrono idee. Umane, fresche, vive – e praticamente realizzabili.


Come si può stimolare chi ha a disposizione gli strumenti tecnologici della comunicazione e dell’informazione, a sviluppare e far maturare nuove idee e percorrere nuove strade?

Non ci sono formule né ricette magiche. Si tratta di creare un clima in cui si dia respiro alle idee, si abbia la voglia di guardare oltre l’ovvio. Si tratta di usare strumenti che permettano sperimentazione e verifica. (In questo senso può essere utile il computer, se l’elaborazione di molteplici ipotesi favorisce la sperimentazione, come può essere utile l’internet, perché un sistema interattivo permette continua prova-e-verifica). Si tratta di avere molta curiosità e di saper cogliere segnali apparentemente “piccoli” ma significativi (la rete non è l’unico strumento, ma può essere molto utile anche in questo senso). Spero che nessuno si sorprenda se dico che serve anche studiare la storia – non per ripetere il passato, ma per trarne lezioni utili al presente e al futuro.


Riconosce in Italia o nel mondo qualche progetto che più di altri stia in modo rilevante esprimendo il potenziale creativo umano attraverso le moderne tecnologie?

Ce ne sono molti, compresi chissà quanti che non conosciamo. Se dovessi citarne uno, parlerei dell’Islanda che ha deciso di liberarsi dalla schiavitù del petrolio e di diventare la prima “economia dell’idrogeno”. Ciò che è possibile in un’isola con trecentomila abitanti si può fare in tutto il mondo (compresa l’Italia). Vedi L’idrogeno e l’internet. Perché si dedica così poca attenzione a un tema di così fondamentale importanza? Perché si impegnano così poche risorse?

Otre alle “grandi” soluzioni, come nel caso dell’idrogeno, c’è anche una straordinaria molteplicità di “piccole” invenzioni, ognuna con un valore limitato, che tutte insieme possono aiutare a cambiare il mondo. Per esempio... se in Perù si realizzano forni a energia solare (così semplici che si possono fabbricare in qualsiasi garage) che non funzionano solo nelle case o nei ristoranti, ma anche in fabbriche di biscotti su scala industriale... perché quella soluzione (come altre, di geniale semplicità, sviluppate in paesi diversi) non viene applicata estesamente nel resto del mondo?

Sono uscito, intenzionalmente, dall’area dell’informatica, perché il problema delle risorse aperte e condivise non riguarda solo il software. Ma se vogliamo rientrare nel settore, e ritornare sul tema di ciò che insegna la storia... perché (molto prima che si realizzassero le macchine elettroniche) i sistemi a schede perforate furono applicati all’industria tessile nel 1803 e alla gestione dei dati solo nel 1890? (Vedi la “cronologia” nel sito gandalf). In quante situazioni, oggi, sta succedendo qualcosa di simile?


Da Agonistika:  « ..... Proviamo a immaginare che qualcuno, che controlla le tecnologie, stia facendo tutto il possibile per controllare anche i contenuti; e ci stia riuscendo, con la collaborazione del nostro governo (come dei governi di mezzo mondo) e delle nostre scuole. Sono incubi e fantasie? No. Questo è quello che sta succedendo.»  Parole forti, che però descrivono la realtà.
Se alla mancanza di volontà politica dei governi ed alla lentezza di P.A. e scuola nel liberarsi da questa schiavitù l’unico rimedio pensabile sembra essere l’impegno collettivo, qual è il consiglio che si sente di dare a chi, esperto o non di informatica, voglia contribuire a quest’opera “di liberazione”?

Qualcosa si sta muovendo. Se qualche anno fa la disattenzione della “pubblica amministrazione”, della scuola e del mondo politico era totale, ora almeno si comincia a capire che forse c’è un problema. L’Italia è in ritardo, ma anche da noi c’è qualche segnale di “presa di coscienza”. Pochi hanno capito la vera natura del problema, c’è scarsa chiarezza sulle soluzioni, insomma la strada è ancora lunga e in salita. Ma non siamo più del tutto “a zero”.

Non solo occorre insistere, con instancabile ostinazione, ma bisogna anche approfondire meglio il come. Cioè il modo in cui le soluzioni “aperte” possono davvero migliorare la qualità dei sistemi – e così, in un modo o nell’altro, la vita di tutti.


Riallacciandomi alla domanda precedente, quando afferma che ci stiamo avvicinando al modello del “grande fratello” immaginato da G. Orwell, quanto pensa di esser preso sul serio dall’opinione pubblica?
L’ultima volta che ho discusso con dei miei colleghi di privacy e di controllo dell’informazione da parte di un monopolista tecnologico, sono stato trattato come un’allucinata “Cassandra”: quanto è reale il pericolo?
Quanto è poco avvertito questo pericolo, se di pericolo appunto si tratta?

L’opinione pubblica ha una scarsissima percezione del problema. Anche perché è poco e male informata. Qui c’è un’interessante coincidenza... Cassandra è il titolo di un testo che avevo scritto nel 1996 e parzialmente aggiornato nel 1997. Forse dovrei aggiornarlo di nuovo... ma in sostanza la situazione non è molto cambiata. L’avevo chiamato, apposta, “Cassandra” – perché dicendo la verità si rischia di essere considerati profeti di malaugurio, fastidiosi rompiscatole, grilli parlanti da schiacciare... se non eretici da buttare in pasto ai serpenti come Laocoonte.

Il pericolo è reale, non solo per le violazioni della privacy, ma anche per la centralizzazione e il controllo dell’informazione. E non si tratta di un “pericolo possibile”, ma di situazioni già in atto, da parecchio tempo, con tendenza a peggiorare.

Di questi rischi dovremmo essere coscienti fin dalla prima metà del secolo scorso. George Orwell in “1984” non faceva una profezia, ma descriveva situazioni esistenti nel 1948. Il quadro proposto da Aldous Huxley in Brave New World (1932) somiglia molto a cose che sono già successe – o potrebbero succedere. Eccetera...

Non è il caso di darci per vinti o di rassegnarci. Ma forse dobbiamo fare un esame di coscienza. Finché ne parliamo come di problemi tecnici o alchimie di settore, la maggior parte dell’umanità pensa “sono cose che non mi riguardano”. Stiamo facendo tutto il possibile per far capire che non si tratta di astrusità tecniche, ma di problemi concreti che affliggono tutti, anche chi non sa come funzioni un computer o un sistema di rete – o non lavora nell’industria dell’informazione?


Converrà con me che è costume diffuso, in Italia, utilizzare sw proprietario, nelle proprie abitazioni, copiato e privo di regolare licenza; tutto ciò abbinato ad uno spasmodico ricambio di hardware per far girare tale sw proprietario prima citato.
Questa “sub-cultura” caratterizzata da spreco, indifferenza, e inquietante sopportazione di un illogico e perverso schema, viene poi trasferita dalle stesse persone nelle aziende in cui lavorano... come professionista dell’informatica, mi son sentito spesso dire che questa aberrazione in realtà è “
normale”: se fossi pessimista, penserei che sia un’impresa impossibile scardinare questa convinzione inculcata da un ventennio di monopolio “wintel” e ormai così radicata all’interno di una consistente fetta di popolazione...
Lei cosa ne pensa?

Naturalmente sono d’accordo. Che l’elefantiasi del software sia aberrante, e che siano inaccettabili continui finti “aggiornamenti” che arricchiscono il monopolista (o altri che si comportano nello stesso modo) e sono un danno (non solo economico) per tutto il resto dell’umanità... è una cosa evidente. Che questa assurdità sia considerata “normale” è ovviamente un problema, di non facile soluzione.

L’uso di software copiato “senza licenza”, che fa tanto infuriare le major del settore (e che non si risolve con un assurdo inasprimento delle leggi) è una difesa debole, compromissoria. Il solito “arrangiarsi” all’italiana che cerca rimedi ambigui invece di attaccare i problemi alla radice.

Ma.. se posso fare una domanda un po’ cattiva... perché tante applicazioni basate su Linux sono “imitazioni di windows”, paurosamente ingombranti, inutilmente complesse... e per di più di non facile gestione da parte di persone non esperte? C’è una “malattia del software” che non riguarda solo un’impresa monopolista – o solo il settore “proprietario“. Denunciata in libri come The Inmates Are Running the Asylum (“i matti stanno gestendo il manicomio”) di Alan Cooper o The Software Conspiracy di Mark Minasi o Bad Software Cem Kaner.

I programmatori, di ogni scuola o tendenza, hanno capito che le tecnologie devono essere al servizio delle specifiche finalità, e delle persone, e non viceversa? Che fine ha fatto nella progettazione (non solo elettronica) il concetto di ergonomia? In generale, quando arriveremo a capire (e a mettere in pratica) il concetto che le soluzioni migliori sono sempre le più semplici, e che la quantità (e complessità) di tecnologia da usare è sempre “il minimo indispensabile”?

Secondo me abbiamo bisogno di una buona dose di autocritica. Nella qualità e nella gestione delle applicazioni. E nel modo in cui le cose sono spiegate al pubblico, che non ha tempo né voglia di ascoltare discorsi “di bottega” e vuol sapere che cosa c’è di buono, o di non buono, per le persone che non si interessano alle tecnologie, ma (anche quando non le usano) ne subiscono le conseguenze.

Mi irrito quando leggo su un giornale che qualcosa è andato storto “per colpa del computer”. Non è mai colpa del computer, che è troppo stupido per poter determinare un risultato. È sempre e solo responsabilità di un essere umano, che ha male impostato una soluzione tecnica o non l’ha usata nel modo giusto.

Ci rendiamo conto quanto sia pericoloso indurre l’opinione pubblica a credere che certe cose succedano “perché così vuole il computer” e che perciò ci si debba rassegnare a ogni sorta di assurdità? Non si sono avverate quelle terribili ipotesi fantascientifiche in cui le macchine si impadroniscono del mondo e l’umanità è ridotta in schiavitù. Ma se siamo noi a renderci schiavi delle macchine (o di chi progetta i sistemi) la situazione è molto grave e può paurosamente peggiorare.

Mi preoccupo anche quando sento parlare di “alfabetizzazione”. Non si tratta di considerare le persone come analfabeti, né di educarle a “obbedire” alla logica spesso bizzarra delle macchine o dei software. Si tratta di abituarle a capire “la funzionalità, non la funzione” e così adattare (o scegliere) le soluzioni tecniche secondo le proprie esigenze. Fra l’altro questo è un modo per evitare che nelle scuole (di ogni ordine e grado, dalle elementari all’università e ai corsi di specializzazione o di addestramento professionale) si producano “schiavi di windows” – e invece dare una formazione che favorisca la scelta di soluzioni più efficienti (in particolare di quelle opensource).


Il portale linux.kuht nasce dalla condivisione di alcuni appassionati di quella cultura hacker che fin dagli albori è stata la vera forza trainante dell’internet.
Il nostro scopo è quello di contribuire nel nostro piccolo, alla diffusione della conoscenza, al reciproco aiuto e favorire la partecipazione attiva delle persone in alternativa al puro utilizzo passivo delle tecnologie imposte dalla multinazionali dell’informazione.
A questo scopo supportiamo e promuoviamo l’utilizzo del Software Libero e naturalmente la Free Software Foundation con il progetto Gnu è il nostro principale punto di riferimento; ci farebbe piacere avere un suo sincero parere/critica/commento su tale organizzazione e il suo leader Richard Stallman.

Devo confessare che Richard Stallman mi è antipatico. Per la sua arroganza, la sua petulanza, la sua incapacità di ascoltare, le sue manie di grandezza e la sua tendenza ad atteggiassi come un profeta e il fondatore di una religione. Non discuto le sue capacità tecniche (anche perché non ho le competenze specifiche per poterle valutare). Ma non mi piace il suo modo “settario” di affrontare i problemi culturali.

Non è una guerra di religione – né un problema di schieramenti politici. Che senso ha parlare di copyleft quando abbiamo visto politici “di sinistra” prostrarsi davanti a Bill Gates – e, se ci fosse una “destra” con una reale visione politica, in nome del “liberismo” dovremmo vederla schierata contro i monopoli? Lasciamo i dibattiti religiosi ai teologi, e i (confusi) schieramenti di partito ai politici... e cerchiamo di concentrarci sulla realtà dei problemi e delle possibili soluzioni.

Il fatto non solo morale e civile, ma anche pratico, è che i sistemi di base non possono e non devono essere proprietà privata. Ed è ancora meno accettabile che siano di un monopolio – e “chiusi” così che la loro struttura è impenetrabile. Come ho scritto tante volte... è come affidare la fornitura dell’acqua potabile a un privato che non solo la fa pagare quanto pare a lui, ma non ci permette neppure un’analisi chimica per sapere che cosa ci ha messo dentro.

Farlo capire al mondo non è facile. Ma (scusatemi se mi ripeto) non solo bisogna continuare a insistere, ma è anche necessario spiegarsi in un modo comprensibile per le persone “non tecniche”.

E sarebbe anche meglio se i sistemi opensource, che hanno (se non sbaglio) una netta superiorità dal punto di vista “server”, riuscissero a diventare altrettanto funzionali anche là dove sono ancora deboli – cioè dal lato “client”, ovvero nei personal computer. E offrissero soluzioni non solo più “leggere” ed efficienti, ma anche più facilmente gestibili da persone “non esperte”. Non imitando le soluzioni più diffuse (cioè quelle del monopolista) ma offrendo una qualità palesemente e percettibilmente migliore.

Purtroppo si è creata una concorrenza fra diverse release che anziché competere sulla semplicità, efficienza e facilità, e sul servizio ai clienti, si sono assurdamente precipitate a imitare “il modello Microsoft”. E quindi a chiudersi in un territorio dove è facile vincere per chi da anni lo controlla e ne determina le regole. Questo non è del tutto un suicidio, ma è un notevole esempio di autolesionismo.

Quanto all’internet... le sue origini sono diverse da quelle del movimento opensource – e non è del tutto vero che “la cultura hacker ne sia stata la forza trainante”. Ma c’è una profonda analogia. La struttura portante della rete è nata, ed è, libera e aperta. E quando poi, molti anni più tardi, è nata la tecnologia web, di nuovo si è sviluppato un sistema aperto e trasparente. Se oggi ci sono tentativi di complicare le strutture tecniche in modo da “privatizzarle”, e renderle “proprietarie” (nonché “centralizzare” l’internet secondo il modello del mass media tradizionali) si tratta di una tendenza non solo perversa, ma anche contraria alla natura fondamentale della rete.


Ritiene che portali come il nostro, nati e portati avanti da una comunità di semplici utenti appassionati di Information Technology, possano contribuire in modo pratico alla cultura della libera espressione, della condivisione della conoscenza, delle tecnologie aperte e del rispetto per l’utilizzatore finale di tali tecnologie, oppure secondo Lei queste realtà finiscono per essere un bel gioco fine a se stesso?

Creare e far crescere comunità e spazi di dialogo è sempre, comunque, utile. Si tratta di capire come orientare i ragionamenti verso una visione culturale più aperta, che non giri solo dentro, o intorno, alle tecnologie, ma veda problemi e soluzioni nella più ampia prospettiva della società e delle esigenze umane. Con freschezza, con fantasia, con curiosità, con apertura culturale, con la voglia di guardare oltre l’orizzonte... e soprattutto con umanità.





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