Lo stillicidio delle bufale

Giancarlo Livraghigian@gandalf.it

10 maggio 2003



Anche quando non c’è un’esplicita “demonizzazione” dell’internet, continua lo stillicidio di interpretazioni perverse della rete.

Un esempio fra mille: il 9 maggio 2003 il titolo più vistoso, su sette colonne in prima pagina, del supplemento “Milano” del Corriere della Sera diceva: Il marito assassino conosciuto su internet.

Si trattava di una tragica notizia di cronaca. Un uomo, in preda a un raptus difficilmente comprensibile, aveva ucciso la moglie e una vicina di casa, poi aveva ferito alcune persone per la strada, prima di suicidarsi. Dal testo dell’articolo risulta che l’omicida-suicida era in condizioni psicologiche difficili, “era stato due mesi in coma per un incidente e poi non è più stato lo stesso”... eccetera.

Ma di quella travagliata vicenda umana che cosa viene messo in evidenza nel titolo? Che aveva avuto il primo incontro con la moglie, un anno e mezzo prima, “chattando” online. Cosa che hanno fatto tante altre persone, che ora si frequentano abitualmente, o lavorano insieme, o sono diventate amiche, o innamorate, o felicemente sposate.

Se l’omicida e sua moglie si fossero conosciuti in casa di amici, in un locale pubblico, in treno, in autobus o per strada... nessuno avrebbe rilevato la cosa nell’articolo – e tantomeno nel titolo. Ma se ci si conosce in rete... per quel giornalista e per quel “titolista” è un segno di “anormalità”.

Naturalmente conoscersi in rete non è una cosa “strana”. Non lo era all’inizio del 1997, quando avevo scritto L’anima e il corpo – e le persone online in Italia erano qualche decina di migliaia. Lo è ancora meno oggi, quando ce n’è una decina di milioni. Ma ricorre continuamente nei “grandi mezzi di informazione” la percezione che ci sia qualcosa di anomalo, disumano o malato.

Un altro esempio è di due anni fa. Il fatto di cronaca era avvenuto negli Stati Uniti. Anche questa è una storia di violenza, ma “a lieto fine”, Un uomo, che stava in chat, fu improvvisamente aggredito in casa sua. Ebbe appena il tempo di scrivere qualche parola chiedendo aiuto. I suoi amici in chat, che conoscevano il suo indirizzo, chiamarono la polizia. Era gravemente ferito, ma i soccorsi arrivarono in tempo. Insomma la rete gli salvò la vita.

In alcune testate italiane la notizia fu riferita come se l’essere collegato fosse la causa del problema anziché la soluzione. In una (non ricordo quale) compariva un’immagine così bizzarra che decisi di conservarla.

teschio

Perché si mostra “la morte nel computer” per illustrare una storia in cui è accaduto il contrario?

Se questi fossero due episodi isolati non varrebbe la pena di parlarne. Ma il fatto è che sono solo esempi di uno “stillicidio” che continua, in tanti modi diversi, da quando i mass media si sono accorti dell’esistenza della rete – cioè da otto o nove anni. E alcune assurde persecuzioni erano cominciate ancora prima del famigerato Italian crackdown del 1994.

Anche quando non c’è una vistosa “crociata” contro la rete, ci sono, da almeno dieci anni, continue repressioni con ogni sorta di pretesti (dalla “pedofilia” al terrorismo – per non parlare dello scambio di software, di musica o di testi trattato come un’attività criminale – o delle violente aggressioni contro opinioni “scomode”) che si incrociano con le farneticazioni di chi vuol far pensare che essere online sia un sintomo di misantropia, di disagio umano o di patologia psichica. Oltre ad articoli, dibattiti e dissertazioni di quella specie, c’è anche la continua manipolazione di notizie di cronaca.

Che sia deformazione intenzionale, ignoranza, conformismo, superficialità o errore di percezione... poco importa. Il risultato è che della rete e di chi se ne serve si continua a dare un’immagine assurda e mostruosa. E che questo è uno dei tanti sintomi di come, ancora oggi, l’informazione centralizzata e “omogeneizzata” viva con disagio la libertà e l’indisciplinata molteplicità della comunicazione in rete.





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