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La coltivazione dell’internet

Recensione su Goa
1 giugno 2000



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Un libro scritto con esemplare chiarezza


Un libro scritto con esemplare chiarezza. Livraghi affronta con una visione critica e originale il mondo della rete e le sue dinamiche. Il metodo e le finalità del breve saggio sono coerenti nel presentare il nuovo media internet sorvolando su (o forse più precisamente accettando) il dato tecnologico nella sua originaria e primitiva funzione: strumento di comunicazione tra individui.

Ciò che più entusiasma nel libro di Livraghi è la capacità di cogliere lo spirito primigenio del giovane media internet (non più infante ma già svezzato) e presentarlo per quello che effettivamente mostra di poter fare, a chi è o sarebbe tentato di attribuirgli facoltà o attitudini in maniera coercitiva e impropria. L’intento dichiarato nella premessa è di offrire uno strumento alle imprese per "definire in modo concreto i criteri con cui realizzare un uso efficiente dei nuovi strumenti ora disponibili". A modo di vedere di chi scrive l’intento è raggiunto e oltrepassato in quanto Livraghi offre suggerimenti e spunti a parecchie classi di lettori, con ciò intendendo sia classi di tipo anagrafico che classi sociologiche.

L’autore metabolizzando con la sua personale cultura filosofica e della comunicazione (è stato tra l’altro presidente della McCann-Erickson e di Ogilvy & Mather) le idee dei guru della rete angloamericani come Kelly e Barlow, trae conclusioni difficilmente contestabili su ciò che non è utile e appropriato fare con e nell’internet tracciando dei confini etici e normativi non banali, almeno per un pubblico alieno dalla rete.

Piuttosto interessanti e originali i capitoli che riguardano la pubblicità, il problema del branding in rete, il marketing, l’e-commerce e il concetto di comunità. Una menzione a parte merita l’appendice 3 del libro, "Timori infondati e problemi reali" una sorta di glossario in negativo del web e dintorni. La critica della corruzione di senso che l’impatto sociale e la divulgazione di termini tradotti dall’inglese hanno operato sul nostro stesso linguaggio è qui portata avanti con una certa veemenza, comunque utile e necessaria in quanto indica una strada per creare una cultura di rete per le imprese, strada impossibile da imboccare affidandosi alla grossolana sequela di luoghi comuni, cosiddetti tecnologici, che molti sono sollecitati ad usare quando si parla in pubblico (magari in TV) della rete.

Meno convincente è a tratti nella pars construens, ad esempio il vagheggiamento di un ipotetico linguaggio franco della rete il "globalese", oppure la fiducia nel DNA italico per quanto riguarda la possibilità di sviluppo internet. Se ciò va interpretato riduttivamente (come un carattere individualista e creativo degli italiani adatto a sfruttare le occasioni che la rete offre) allora concordiamo. Se invece si oppone una interpretazione estensiva ovvero che la società italiana, il sistema produttivo dell’Italia nel suo complesso mantenga nei confronti della rete nel suo complesso questa prerogativa e attitudine, allora siamo completamente in disaccordo. Le carenze strutturali e sistemiche per quanto attiene alla cultura della rete sono visibili a tutti i livelli, emergendo con chiarezza anche da una comparazione in prima approssimazione delle statistiche sulla diffusione dell’internet in Italia e in Europa sia tra gli utenti che tra le imprese.





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