Godere
Estratto

Che l’Io resista al godere è ben testimoniato dalla sua tristezza post coitum. Ferenczi parla di questa tristezza come di una leggera depressione e spiega il noto adagio omne animal post coitum triste come una reazione al fatto che l’Io si sarebbe spinto troppo in là nell’oblio di sé. Cosa significhi per l’Io spingersi troppo in là nell’oblio di sé lo dice bene Lawrence in due sue poesie in cui si tratta di un Io che, venendo meno a se stesso, è consumato e, per essersi consumato, guadagna il doloroso accesso alla fine del sapere, cioè al sapere senza confini, passaggio obbligato di ogni trasformazione.

Per Ferenczi la depressione post coitum costituirebbe anche una reazione al rimpianto narcisistico per la perdita dei succhi vitali. Tale rimpianto passerebbe attraverso un erotismo di tipo anale (l’idea di perdita e di cadere in miseria) che si oppone allo sperpero che deriva dall’eiaculazione. In altri termini si tratta di uno stare al di qua del confine (ritenzione) o di un far passare al di là del confine ciò che, per essere andato oltre, viene ritenuto perso e, come tale, rimpianto (sperpero). La tristezza che compare nel citato adagio implica insomma la consapevolezza del confine e inchioda, per ciò stesso, l’Io.

La questione dello “sperpero che deriva dall’eiaculazione” viene riconsiderata un anno dopo da Freud in termini di una certa corrispondenza tra l’“espulsione della materia sessuale” e la separazione del plasma germinale dal soma. Da questa corrispondenza deriverebbe, secondo Freud, la somiglianza tra orgasmo e morte, somiglianza che, negli animali inferiori, diventa coincidenza. Una volta estromesso l’Eros, scrive Freud, “è lasciata piena libertà alla pulsione di morte di attuare i suoi propositi”. Se, stando a Bataille, “dell’erotismo si può dire, inanzitutto, che esso è l’approvazione della vita fin dentro la morte”, si può ben comprendere come l’Io possa nutrire non poche remore a riguardo dell’Eros, dell’orgasmo, dello sperpero che deriva dall’eiaculazione. Non sorprende che Reich abbia potuto parlare di paura dell’orgasmo come di un equivalente della paura di morire.

Questo apparente paradosso, per il quale si può avere paura del piacere, non va spiegato soltanto, come anche è legittimo fare, e come ha sostenuto Lowen, a partire dal senso di peccato e di colpa, a meno che non s’intenda legare il senso di colpa anche, e forse soprattutto, a qualcosa di sommamente (starei per dire cosmicamente) individuale, ad una colpa radicale che l’individuo avverte nei confronti di se stesso, nei confronti delle proprie sostanze vitali. Se assumiamo questo punto di vista, allora la paura dell’orgasmo si lascia spiegare anche alla luce delle considerazioni ferencziane sull’erotismo anale quale ritenzione vitale nei confronti di uno sperpero mortale rappresentato dall’eiaculazione. È nei confronti di questo sperpero che l’individuo può sentirsi in colpa. È nei confronti della propria rinuncia a godere che l’Io si sente in colpa.

Godere è infinito. Godere è un infinito, la parola senza tempo, la parola senza confini, la gioia che circonda il dolore. Godere non è un sostantivo. Godere non è il godimento. Non è sostanza. Non si regge su nulla e anzi toglie ogni sostegno. Godere toglie l’Io. Toglie l’Io da ogni sostegno. Toglie l’Io da ogni sua pretesa anaclitica, cioè di appoggio su se stesso, sui propri confini e sulla propria angoscia: difese, resistenze, immaginarie certezze. Il fondo originario del godere è veramente senza fondo. È sospensione assoluta, sospensione sciolta da ogni contingenza. Godere è il verbo che immette nell’infinito. Godere fa entrare nel “senza confini”. Godere fa entrare in quell’En Sof che si è pensato dalle parti dei cabalisti medievali e che potremmo ritradurre appunto come il “senza confini” da cui emana, fluendo, l’albero “senza confini” delle sefirot “senza confini”, l’Adam qadmon. Godere è un’esperienza transpersonale, un processo cosmico, un far parte dell’universo nel suo pulsare, un evento che ci fa accadere nel senza tempo, che è tutto il tempo, di un luogo altro, che è tutti i luoghi.

Se godere è infinito, godere è Dio. Il godere di Dio si traduce, per noi, nell’essere stesso del mondo. Se Dio è dovunque e, secondo la Kabbalah lurianica, si è dovuto contrarre per creare il mondo, allora noi occupiamo il luogo del godere di Dio. Tale assunto armonizza con le tesi dei cabalisti (e non solo) secondo cui il basso ripete l’alto e influisce sull’alto, fa flusso con l’alto, col divino, col sefirotico. Il momento del godere coincide con quello di uno svuotarsi che fa il mondo. Dove gode Dio, là deve esserci mondo, là deve avvenire l’Io. Che l’Io non avvenga dove gode Dio è quanto possiamo ridefinire come castrazione. L’Io è il servitore della castrazione. Quando entra in analisi non può farlo che come servo della castrazione. Quando l’Io serve, c’è un padrone che gode. Nel lessico della psicoanalisi quel padrone si chiama Super-Io. Altri lessici sono certamente possibili, dal momento che i confini godono dei confini, godono del loro moltiplicarsi e del moltiplicarsi dei loro nomi.

Che l’Io non avvenga dove gode Dio è quello che noi, terrenamente, chiamiamo mondo. Il godere perfetto significa l’assoluta messa tra parentesi del mondo, la sparizione del mondo for the moment o, meglio, l’essere il maschile e femminile congiunti a tutto il mondo, il loro pulsare col pulsare dell’universo, for the moment. Godere vale una sparizione e una totalità. Quella stessa che gli gnostici hanno chiamato pleroma, il tutto, il pieno che si compone di sizigie, coppie di eoni. Il pleroma gnostico significa il non esserci del mondo e della storia. In effetti, secondo la mitologia gnostica, il mondo e la storia hanno origine dalla colpevole fuoriuscita di un eone dal pleroma. Lo Yahweh dell’Antico Testamento è in realtà il Demiurgo, un Dio minore, il creatore imperfetto di un mondo imperfetto. Se pleroma gnostico e albero sefirotico sono senza confini, il Demiurgo introduce i confini. Veramente è il Demiurgo gnostico l’archetipo dell’Io.::