Rita Charbonnier,
scrittrice.
Trasforma le
esperienze traumatiche in stimoli creativi, condanna l´ipocrisia sul
corpo della donna (l´ignoranza sulla pillola abortiva), cancella le
differenze “di genere” nell´espressione artistica. Una fluida
riflessione per abbattere certi luoghi comuni. Rita Charbonnier,
sceneggiatrice dal 2000, scrittrice dal 2006. Il suo primo romanzo, “La
sorella di Mozart”, è stato pubblicato in 12 Paesi. Il secondo, “La
strana giornata di Alexandre Dumas”, è una novità di Edizioni Piemme. Ha
trascurato per anni il proprio talento di scrittrice per dedicarsi alla
scena: per quasi 15 anni, é stata attrice di teatro. Al momento vive a
Roma; la sua attività si svolge prevalentemente a casa.
Come hai deciso di
cambiare attività e di passare alla scrittura, così diversa
dall´esercizio dell´arte istrionica? Credo di aver sempre
desiderato scrivere, e di averlo desiderato così intensamente da averne
paura. Ci sono arrivata per gradi, attraverso un percorso obliquo e
molto lento. Da bambina ero un’entusiasta e sono stata anche abbastanza
precoce: ho cominciato attorno ai cinque anni a leggere ed elaborare
poesie, racconti, e più tardi un giornalino di quartiere. Con il passare
del tempo, però, il mio entusiasmo per la scrittura si è incagliato in
qualcosa; ho iniziato a leggere meno e a non scrivere altro che lettere
debordanti. Dopo il liceo ho frequentato una scuola di recitazione. Per
la verità non pensavo tanto di fare l’attrice, quanto la drammaturga o
la regista. Mi sono trovata sul palcoscenico quasi mio malgrado; poi
l’esperienza mi è piaciuta e ho avuto la fortuna di riuscire a
proseguirla a lungo. D’altra parte, man mano che passava il tempo,
cresceva la sensazione che nella mia vita mancasse qualcosa. Iniziai a
portarmi un computer in tournée e ad annotarci abbozzi di storie. Presi
a collaborare con giornali e riviste di teatro, poi entrai nella
redazione di un programma televisivo e mi misi a scrivere testi; arrivai
a scrivere sceneggiature. Finché non decisi di trasformare un mio
soggetto cinematografico in un romanzo e l’esperimento, per fortuna, è
andato bene.
Quali sono le
attività quotidiane che temi? Detesto più di tutto
occuparmi dell’automobile: portarla a lavare, dal carrozziere, dal
meccanico, persino mettere benzina. Considero un oltraggio investire del
tempo nella cura di un oggetto che inquina, deturpa le città d’arte ed è
pericoloso; un oggetto che a Roma, dove vivo, non dovrebbe quasi
esistere. E invece hanno tutti le macchine, parcheggiate sui
marciapiedi, l’una sull’altra, e si abbattono alberi bellissimi per
creare parcheggi, come è appena successo nel mio quartiere. La mia
antipatia per l’auto è arrivata a un punto tale che per quasi due anni
non l’ho posseduta. Né auto né motorino. Poi però ho dovuto rassegnarmi
al fatto che a Roma la rete dei trasporti pubblici non è sempre
sufficiente, e ho ripreso a gestire un’automobile.
Quali altre attività
alternative sono invece un valido stimolo alla scrittura? In realtà non ce ne
sono molte. In questo periodo tutto ruota attorno alla scrittura e tutte
le mie attività sono riferibili, direttamente o indirettamente, a essa.
Poiché però si tratta di un lavoro prevalentemente solitario, cerco di
crearmi occasioni di incontro e scambio con le altre persone. Di
particolare importanza sono gli incontri con artisti che si esprimono
con linguaggi lontani e diversi; questi incontri nutrono sia sul piano
psicologico, sia su quello intellettivo. Poi ci sono le attività
professionali vere e proprie, ovvero il lavoro in televisione. Anche in
quel caso si tratta di scrittura, con caratteristiche differenti – in
primo luogo il fato che si lavori in un team. D’altra parte, la
scrittura di romanzi ha bisogno di spazio interiore e la scrittura
televisiva tende a prendersi tutto lo spazio disponibile, e anche di
più. Quindi alcune volte mi è capitato di dover dire di no alla seconda
a vantaggio della prima, che peraltro rende poco, a meno che non si sia
dei “big”.
Quanto pensi che
conti la dipendenza economica dai propri compagni per una effettiva
indipendenza emotivo-psicologica della donna come individuo nella
societá? Moltissimo: se per
vivere si è costrette a chiedere soldi a qualcuno, inevitabilmente si
crea un senso di debito. Alcuni giorni fa parlavo con un’amica, il cui
marito ha un’ottima posizione; il suo reddito basterebbe comodamente a
mantenere lei e i figli. Lei vive un momento professionalmente non
semplice e tuttavia non pensa affatto di abbandonare il proprio lavoro;
questo la metterebbe in una posizione di sudditanza e le toglierebbe i
propri spazi di autonomia. Ma è una situazione conflittuale, perché nel
contempo ama i suoi figli e le piacerebbe passare più tempo con loro,
vederli evolversi. Le madri lavoratrici che conosco vivono spesso un
dilemma tra il desiderio e la necessità di dedicare tempo a se stesse, e
il desiderio e la necessità di dedicare tempo ai figli. Questo anche
perché in Italia non c’è alcun sostegno sociale per le madri
lavoratrici.
E l’altra sera, invece, parlavo con due padri
separati che versano discrete quantità di denaro alle ex mogli, per il
mantenimento della prole. Si potrebbe forse obiettare che queste donne
non sono poi così scontente dell’essere economicamente dipendenti dagli
uomini, con i quali non sono più legate (emotivamente e fisicamente). Ma
è proprio il groviglio di risentimenti e dolore che è alla base di ogni
separazione a provare quanto contenuto emotivo vi sia nel denaro.
Immagino che chiedere e ottenere denaro dall’ex compagno evidenzi la
dipendenza non tanto da lui, quanto dal trauma subito. Immagino che
chiedere e ottenere denaro dall’ex compagno evidenzi la dipendenza non
tanto da lui, quanto dal trauma subito. Ma sempre di dipendenza si
tratta.
Quale credi sia il
valore aggiunto della tua esperienza di donna nella scrittura rispetto a
un uomo che fa la tua stessa attività? Credi che esista una “scrittura
femminile”? Sospetto che il
pensiero della differenza sia molto complesso e che purtroppo si presti
ad essere trasmesso in modo semplificato. Una volta sentii una
giornalista che aveva scritto un libro dichiarare: “Io credo nel
pensiero della differenza, cioè nel fatto che le donne sono diverse
dagli uomini”. Di fronte ad affermazioni come queste, io non so se
scoppiare a ridere o lasciare che mi cadano le braccia. Che gli uomini e
le donne siano diversi è un’ovvietà: alcuni organi non sono gli stessi e
generalmente – ripeto, generalmente – gli uomini hanno le spalle larghe
e le donne il sedere rotondo. Ma che a una differenza innata
nell’aspetto fisico corrispondano differenze innate nella psicologia,
nel comportamento e magari nelle attitudini, io non posso crederlo;
anche perché queste differenze non sono chiaramente definibili e non
valgono per tutti. Mentre la vagina sì che è definibile e vale per
tutte, così come vale per tutti il pene, che si può persino facilmente
misurare (cosa che pare molti passino la vita a fare, anche
metaforicamente). Insomma, affermare che esista, in assoluto, un
comportamento “di tipo maschile” e uno “di tipo femminile”, o magari una
“scrittura femminile” e una “scrittura maschile”, mi sembra
un’affermazione generica e anche criptodiscriminatoria. Chi fa queste
affermazioni spesso ha paura di usare il termine “femminista”. Oh, che
parolaccia! Forse qualcuno potrebbe
affermare, che so, che la scrittura femminile è più sottile o profonda;
che le donne sanno gestire meglio i sentimenti… ma io credo che
affermazioni così generiche (e facilmente confutabili) non abbiano una
grande utilità. E in ogni caso, se è vero che una storia sul pugilato
viene scritta più probabilmente da un uomo, non è solo per via del
testosterone; è soprattutto perché veniamo tutti educati in modo da
aderire a uno stereotipo di mascolinità e di femminilità. Piuttosto che
interrogarsi sulla presunta specificità della scrittura femminile,
quindi, mi sembrerebbe interessante occuparsi dei dati: ci sono molte
meno scrittrici che scrittori. Possiamo intervenire su questo? In conclusione, non
credo di dover scrivere in modo particolarmente diverso da come lo
farebbe un uomo. Nei miei romanzi tratteggio grandi personaggi
femminili, ma magari lo farei anche se fossi un uomo, chi lo sa;
moltissimi autori maschi hanno creato magnifiche eroine. E non è una
cosa che “devo” fare. E’ una cosa che “desidero”.
Come pensi si debba
relazionare, oggi, la donna al mondo del lavoro, e come credi che sia
cambiato il “valore-lavoro” rispetto alla generazione precedente? In Italia il femminismo
è riuscito a cambiare le leggi sul lavoro e sulla famiglia, che fino a
pochi decenni fa trattavano le donne come persone con meno diritti. Ma
la mentalità non è troppo cambiata, per cui è ancora raro che gli uomini
si occupino delle incombenze familiari; e così la figlia di una
casalinga a tempo pieno oggi si ritrova ad essere casalinga e
lavoratrice; può avere una vita serena solo se ha la possibilità di
pagare colf, baby sitter, badanti. Alcuni anni fa frequentavo una
ragazza per metà francese che si è poi stabilita a Parigi e si è sposata
con un francese. Lei ha un ottimo lavoro. Lui non lavora affatto. Hanno
tre figli. Lei li mette al mondo, poi li affida a lui e torna in
ufficio; ed è lui a occuparsi dei bambini e della casa. Possiamo
immaginare una situazione del genere in Italia? Su quell’uomo graverebbe
una pressione dall’esterno, e anche una derisione, tali da distruggere
lui e il loro rapporto in brevissimo tempo. D’altra parte, mi
sembra che oggi vi siano fenomeni preoccupanti che un tempo erano
probabilmente meno accentuati. Per molte ragazze oggi il valore più
importante sembra essere la fama e il titillamento da parte dei media;
ci siamo spostate molto sul corpo e stiamo cedendo al pensiero che il
corpo sia la chiave per ottenere tutto. Anche il lavoro. L’altro giorno
leggevo su un giornale una dichiarazione di una ragazza molto brillante,
con due lauree, poliglotta, che dichiarava di mettersi la minigonna ai
colloqui di lavoro perché le sue gambe sono innegabilmente più
importanti del suo curriculum, per i selezionatori (maschi). Io non ho
niente contro le minigonne (le metto anch’io) e credo che ognuno debba
avere la libertà di vestirsi come meglio crede. E non ho niente contro
la bellezza; se facessi la selezionatrice, anch’io sarei probabilmente
più colpita da un bel ragazzo che da uno scorfano. Ma prima di tutto
guarderei alle sue capacità. Qui invece sembra che si ritenga una donna
aprioristicamente incapace, e degna di essere inserita in un gruppo di
lavoro solo se è piacevole alla vista. Se questa è la cultura dominante,
una cultura che limita gravemente la libertà delle donne di esprimersi e
il loro diritto a farlo, anziché adeguarsi bisognerebbe opporsi a essa.
Conosci la realtà
sociale, familiare o professionale delle donne negli altri paesi
europei? Sai parlarmi di qualche legge che ti ha colpito (in negativo o
in positivo) di un altro paese e che si differenzia dalla legislazione
italiana? Credo sia piuttosto
emblematico il caso della pillola abortiva, il farmaco mifepristone,
RU-486: è in uso in tutti i paesi europei tranne Irlanda e Portogallo;
in Italia si tenta inutilmente di introdurlo da anni, ma è tuttora
distribuito “in fase sperimentale” solo in alcune regioni. Prima di
tutto, sull’argomento c’è una clamorosa disinformazione: quasi tutti
confondono la pillola abortiva, che provoca una vera e propria
interruzione di gravidanza, con la pillola del giorno dopo, che è invece
un contraccettivo di emergenza. La pillola abortiva, rispetto all’aborto
chirurgico (regolato dalla legge 194) presenta diversi vantaggi. Non si
finisce sotto i ferri. I costi per il servizio sanitario nazionale sono
minori. E soprattutto, il trauma per la donna è meno grave; proprio per
questo, a mio avviso, l’uso della RU-486 è così osteggiato. Si ritiene
che se una donna decide di abortire, debba anche soffrire come una
cagna, per punizione. Si pensa che consentirle di interrompere una
gravidanza in condizioni più umane sia un errore, perché allora vanno
tutte ad abortire. Che sciocchezza! L’aborto è sempre e comunque
un’esperienza angosciosa. Con la pillola
abortiva, peraltro, la gravidanza si può interrompere molto presto,
mentre con l’aborto chirurgico si deve aspettare che l’embrione si
sviluppi un pochino, altrimenti l’intervento non riesce. Come sappiamo,
secondo una certa scuola di pensiero l’embrione è addirittura una
persona, e più passa il tempo, e l’embrione cresce, e più la persona si
definisce. Non sarebbe quindi meglio, anche per chi la pensa in questo
modo, interrompere la gravidanza quando l’embrione è più piccolo?
Purtroppo attorno a questo tema c’è molta ipocrisia, e a farne le spese
sono le donne.
Hai mai subito una
qualche forma di violenza in famiglia o sul lavoro da parte di un uomo?
Se te la senti prova a raccontarci la tua esperienza. Violenze vere e
proprie, per fortuna, non ne ho mai subite. Sul lavoro però mi sono
capitati alcuni episodi molto brutti, che potremmo definire tentativi di
coercizione. Con estrema franchezza alcuni uomini di potere mi hanno
chiesto prestazioni sessuali in cambio di vaghe promesse di particine in
televisione, oppure hanno pronunciato la classica frase “io potrei
aiutarti molto nella carriera, potrei cambiarti la vita” e mi hanno
messo una mano su una coscia. In uno di questi casi mi è stato
addirittura offerto del denaro, attraverso un falso contratto di
collaborazione professionale! Il che configura, se non sbaglio,
l’induzione alla prostituzione (oltre all’uso fraudolento del denaro
aziendale). Ero molto giovane e rimasi sconvolta; anche perché il
ruffiano che gestiva gli uffici amministrativi di quell’azienda, al mio
rifiuto, si arrabbiò moltissimo e cominciò a insultarmi. Non mi dilungo
oltre perché vorrei raccontare questa vicenda, e altre simili, in un
nuovo romanzo. E’ lo strumento che ho a disposizione per tentare di
incidere, nel mio piccolo, sulla realtà.
Per finire ti
chiedo una breve riflessione sulla condizione femminile nel
tuo mondo, quello dell´editoria. Il mondo editoriale è
gestito prevalentemente da donne. Ad esempio, se entri negli uffici
dell’editore che ha pubblicato il mio nuovo romanzo vedi solo donne:
dalla persona che risponde al centralino fino ai piani più alti. Per non
parlare degli agenti letterari: in prevalenza donne. Questo vuol dire
che nell’editoria italiana c’è una particolare attenzione per i libri di
autrici? Non saprei. Se guardiamo le classifiche di vendita, la
stragrande maggioranza dei successi proviene da scrittori e non da
scrittrici; quindi si potrebbe forse sostenere che si punta sui maschi
perché i maschi si vendono di più. Ma chi gestisce la cultura non
dovrebbe anche tentare di crearla? “Il pubblico vuole questo” è la scusa
che viene comunemente usata per giustificare la propria scarsa volontà
di opporsi all’imbarbarimento; l’ho sentita usare troppo spesso in
televisione. Sospetto che molti
uomini, in molti ambienti, facciano tuttora una resistenza tenace a dare
spazio alle donne e che, anche quando sono in minoranza numerica,
esercitino un controllo strisciante del quale le donne non sono del
tutto consapevoli; oppure, lo accettano perché ritengono di averne una
qualche convenienza. Oggi le donne tendono a rincantucciarsi nel mito
della loro specificità e a trascurare la lotta comune per l’ottenimento
di un’effettiva parità, che è l’unica cosa concreta da perseguire. E
questo può valere non solo per chi i libri li pubblica, ma anche per chi
li scrive.
Che senso ha
per te
Questa è la domanda più complessa di tutte. Credo
che ognuno di noi abbia un proprio specifico modello di riferimento e
che tale modello si modifichi nel tempo, parallelamente all’evoluzione
personale. Il rapporto con l’idea di famiglia, inoltre, è una delle
tante possibili varianti del rapporto dell’individuo con il gruppo.
L’incremento delle separazioni, negli ultimi decenni, testimonia uno
spostamento dell’attenzione sull’individuo: se io non sto più bene con
il mio compagno di vita, o con la mia compagna, in nome di questa
esigenza accetto e perseguo la dissoluzione del gruppo familiare, con
tutto il dolore che comporta, soprattutto per gli eventuali figli.
Ritengo
comunque che sia un prezzo da pagare e che ognuno di noi, figli
compresi, in futuro ne avrà dei vantaggi.
In sostanza, sciolgo il gruppo nell’intento di perseguire il bene degli
individui. Ma dopo qualche tempo, molto probabilmente, andrò a creare
una nuova famiglia con altri individui, magari “allargata” e variamente
composita. L’associazione tra esseri umani in tutte le sue forme,
statiche, dinamiche, tradizionali, reinventate, complicate, piene di
fantasia, è indispensabile. (Delt@ Anno VII, N 146 del 7 luglio 2009) |