(Roma)
“Noi? Noi siamo a scannarci per ogni parola che non ci piace. Siamo
intolleranti e intransigenti. Noi? Noi, molto semplicemente, abbiamo ricominciato a
mettere in circolazione concetti gravi come quello di “nemico del
popolo”, e affibbiamo questa etichetta a tutti quelli che non la pensano
come la maggioranza, senza alcuna distinzione. Noi? Noi abbiamo riconosciuto che una pallottola in
testa è il mezzo più semplice e più naturale per risolvere qualunque
conflitto, per minimo che sia. Noi? Noi inariditi dalla guerra, odiamo più spesso di
quanto amiamo. L’odio è la nostra preghiera”.
Sarebbero sufficienti queste poche righe a farci
conoscere il racconto di morte e di sopravvivenza intitolato
“Cecenia:
il disonore russo”
di Anna
Politkovskaja, la giornalista russa
assassinata il 7 ottobre 2006 con quattro colpi di pistola in ascensore,
mentre rientrava a casa. Pubblicato in Italia da
Fandango
con l’introduzione di Roberto Saviano che l’ha definito “Uno dei più
grandi documenti letterari del nostro tempo per capire la futilità di
ogni conflitto”.
“Chi scrive, muore”, scrive Saviano, muore chi va
oltre il proprio ruolo di giornalista, di narratore e chi non vuole più
“stare ferma nella folla come tutti gli altri”. Ma è per questa ragione
che A. P. decide di raccontare una guerra
civile
atroce, la seconda in Cecenia
(1999-2006) e di parlare con alcune vittime. Aisha Suleimanov di Grozny,
62 anni, dilaniata da un’arma proibita da tutte le convenzioni
internazionali, una calibro 5.45, per non aver offerto birra ai soldati
russi che avevano fatto irruzione nella sua casa durante una
zaciska.
Malika Elmurzaieva, 44 anni, usata come punching bull per i piedi e
violentata come altre donne in piena notte da un gruppo di ragazzi in
“mimetica, mascherati, sia russi che ceceni”. Il racconto di violenze
ordinarie, atroci e incomprensibili “una goccia in un mare di fango e
sangue”, è scandito anche da un’aspra critica nei confronti del
Cremlino. A. P. denuncia palesemente l’ideologia razzista che anima le
scelte del potere centrale e con esso i media e gli intellettuali
schierati con Putin, troppo timorosi per testimoniare le atrocità
commesse, come se “il cittadino non valesse niente, fosse un grumo di
polvere, un granello di sabbia, un seme di papavero (...). Bisogna
essere un Putin per sentirsi cittadini”. La Russia pare ormai solo sulla
Carta uno stato di diritto, in cui l’opposizione democratica è stata
messa al bando, dove un odio feroce tra “noi” e “loro” viene alimentato
e giustificato in nome di una giustizia sommaria, creando fratture
orribili nel suo popolo. Giovani uomini e donne cadono ogni giorno “nel
loro abisso personale. Non necessariamente la morte. Ci possono essere
situazioni peggiori, ad esempio la perdita totale della propria umanità,
come unica risposta alle innumerevoli nefandezze della vita. Nessuno può
sapere ciò di cui sarebbe capace in guerra”.
(Delt@
Anno VII, N 181 del 6 ottobre 2009) |