Quando sono arrivata ad Ancona, alla “casa Rifugio Zefiro” ero finita,
senza più la mia identità; non avevo più alternative, o morivo o
ricominciavo, a 39 anni, a sperare.
Erano passate due settimane dall’ultima volta che quel pezzo di merda mi
aveva per la quinta volta distrutto il setto nasale. Come al solito,
aveva cominciato a sbattermi la faccia contro il cruscotto della mia
macchina, che lui guidava perché si sentiva padrone della mia vita, dei
miei pensieri. Ricordi di violenza, solitudine e umiliazioni. Del
dolore delle botte, del colore del sangue, del buio della rassegnazione.
E insieme della volontà di rinascere, rafforzata dalla determinazione ad
aiutare tante donne che ogni giorno, ogni minuto, subiscono violenza. La penna di Beatrice Lilli “asciutta, nuda,
essenziale, precisa come una cronaca di polizia” è un pugno nello
stomaco. Lo sguardo lucido e intenso di una donna che ha attraversato
l’annullamento e la perdita dell’autostima. Una vittima della vita e
della violenza, nel corpo e nell’anima, che ha saputo trasformare le
umiliazioni subite in un instancabile sentimento di solidarietà. “Un libro che tutte le donne dovrebbero leggere. E
anche gli uomini”, per mettere in discussione e scardinare finalmente la
propria identità di ruolo e di relazione, misurare il desiderio,
valorizzare le differenze e riconoscerne il valore sia in pubblico che
in privato. “Partire da sé per sé” come Beatrice Lilli, per “un salto di
civiltà e per un debito verso la storia delle donne”.
Occuparsi di violenza domestica significa mettere al centro di tutto la
donna, significa montare sul suo cavallo e non sul proprio, […] bisogna
sapersi calare completamente nella sua sofferenza e aiutarla a tirare
fuori le sue risorse. E non si può avere la presunzione di sapere o
volere aiutare se tutti non si levano il velo giudicante non solo dagli
occhi, ma più profondamente dal cuore.
(Delt@
Anno VII, N. 107 del 20 maggio 2009)
Claudia Frattini |