(Roma)
Con il suo ultimo libro,
Malamore,
Concita de Gregorio fa una
rassegna di numerosi esempi di autolesionismo femminile, e conclude con
un appello appassionato:
attenzione donne, Amore NON fa rima con Dolore! Esce a settembre 2008, per la collana Strade Blu
della Mondatori, - la collana dedicata alla saggistica NON FICTION-
“MALAMORE, Esercizi di Resistenza al Dolore” (€16,00 -180 pg). Questo saggio, un caleidoscopio della sofferenza, o
meglio, della capacità di resisterlo, affronta le vite di diverse donne
(note o sconosciute, vere e immaginarie) attraverso le loro rispettive
tipologie di resistenza al dolore. 19 capitoli, 19 riflessioni su storie emblematiche. Non c’è continuità stilistica né l’adesione a un
medesimo modello narrativo o cronacistico. Sfilano donne del secolo scorso, sfila un personaggio
dei fumetti (Eva Kant, compagna di Diabolik) e della mitologia (Circe),
donne di oggi, di sempre, persino l’autrice narra un aneddoto che parte
dal suo vissuto, (Cap. VI, La mala educaciòn). Donne ricche e povere,
italiane e straniere. Donne accomunate dal genere che sembra avere nel
DNA l’abilità di resistere al dolore, di accoglierlo pazientemente fino
a trasformarlo in bene (nei rari casi migliori), o fino all’annullamento
della persona (come nella maggioranza dei casi). Il libro della De Gregorio mi ricorda in parte le
suggestioni di Sartre del 1946 quando nel “L’antisemitismo”, rifletteva
sulla questione ebraica e sulla necessità – per l’antisemita- di trovare
la propria “vittima”. Il razzismo e la violenza antisemita sono
esaminate come passioni irrazionali che costituiscono una via di fuga
dall’autenticità esistenziale, propria di un essere umano libero e
responsabile. Così l’uomo, in quanto maschio, sembra spinto da un
atavico sentimento a riconoscere nella donna la propria “vittima”, non
tanto razionalmente, ma come spinto da una “passione” primigenia.
Parimenti la donna, di fronte al proprio ruolo “naturale” di vittima
(impostogli invece dalle circostanze, come l’ebreo in fuga descritto da
Sartre), sceglie (oggi ancora di più consapevolmente) di sopportare, di
accettare, di subire. La grande novità di Concita De Gregorio sta proprio,
nell’analisi che scaturisce dal libro, non nella condanna piatta della
violenza in quanto tale, ma nel non giustificare più neanche la
giustificazione delle donne. La capacità che le donne hanno di perdonare
e di vedere con pericoloso “sguardo di donna” l’ira del maschio
sopraffattore. La complicità delle donne è l’assurda capacità di
passeggiare sul crinale del baratro: “cercare di addomesticare la
violenza - la violenza degli uomini - qualche volta andando a cercarla,
persino. Perché è un antidoto, perché è un prezzo, perché il tempo che
viviamo chiede uno sforzo d'ingegno per conciliare la propria autonomia
con l'altrui brutale insofferenza”. Lo stupore di Concita sta tutto nel
non capire più come sia possibile che le figlie dell’emancipazione
femminile e della rivoluzione sessuale possano ancora accettare di
portare le stimmate come una vocazione alla tolleranza. Una condanna,
quella sottomissione, che suona anacronistica e definitivamente non
tollerabile, almeno quanto la violenza stessa. E ancora, un’altra denuncia dell’autrice sta nella
incapacità della legislazione italiana di trovare una legge che punisca
in modo più equo la violenza dell’uomo sulla donna, che sia padre,
fratello, marito, ex. Una legge che contribuisca all’emancipazione da
questo vicolo cieco, da questa orribile tendenza a minimizzare la
violenza maschile sulla donna. C’è una sotterranea e perniciosa forma di
accettazione (anche tra le forze dell’ordine), che con una pacca sulla
spalla tende a “ridimensionare” i soprusi a seguito delle denunce. C’è
un’assurda ed evidentissima complicità della legge di fronte a chi
compie questi reati – quando chi è a commetterla è una pop-star- perché
il colpevole è comunque inserito in una felice “prospettiva di
reinserimento professionale”. E suona agghiacciante, eppure vera, forte, razionale
e insieme tenera, la confessione di Cristina (Cap. III, Cristina) che
racconta come la sua scelta di “subire” i falli maschili, nel suo letto
di prostituta d’alto borgo, sa in realtà di vittoria, il riscatto di una
professionalità mal retribuita, precaria, che trova nella vendita del
proprio corpo, nell’abilità di farlo pagare a caro prezzo, una meno
frustrante alternativa di rimanere a vita commessa in un negozio di
articoli sportivi. Lei, con una media €10.000,00 al mese, nel negozio ci
entra quando vuole e solo per fare shopping! Lei non subisce: è convinta di essere l’antidoto alle
carenze maschili e alla propria precarietà economica, un genio insomma. Cos’è dunque questo Malamore? Una ricerca “di genere”
sui cervelli maschili e femminili ne svela i segreti scientificamente
dimostrabili, la donna è più capace ad ascoltare, a esprimere i
sentimenti ma anche a comprenderli, ad accogliere il dolore e a
sopportarlo. Ne emerge che una donna è “programmata” innanzitutto per
essere madre, e dunque, sa declinare tutte le sfumature comportamentali
che ne consegue: soffrire, ascoltare, sopportare (Cap.XVIII, Disuguali). E allora, “il Malamore è gramigna, cresce
nei vasi dei nostri balconi. Sradicarselo costa più che
tenerselo. Dargli l’acqua ogni giorno, alzare l’asticella della
resistenza al dolore è una folle tentazione che può costare la vita.”
Leggi l’introduzione!
(Delt@
Anno VI, N. 229 del 20 novembre 2008)
Angelica Alemanno |