Erano le tre di notte,
nel reparto di maternità c’era un silenzio che sembrava denso di
possibilità – la possibilità di nascere. […]. Ebbi paura. Ma non fu
paura del dolore […]. No, la paura terrificante fu la solitudine. La
solitudine di una donna di fronte alla nascita che nessun medico,
ostetrica, marito, madre o sorella può sconfiggere. La solitudine di
trovarsi di fronte all’infinita onnipotenza e all’infinita impotenza. La
solitudine e la paura di trovarsi di fronte a se stessi. Stavo per
partorire di nuovo e sapevo ciò che la volta prima mi era oscuro: sarei
stata sola di fronte a me stessa. Il materno è sacro. Da sempre. Come sacro e
intoccabile è il mito vuoto e superficiale della madre «eternamente
appagata e felice», frutto di un mistero biologico ed esistenziale di
fronte al quale l’uomo si sente ancora estraneo. E non si può intaccare
quell’aura di sacralità senza ricevere in cambio sgomento. Quasi mai si parla delle emozioni negative suscitate
dalla maternità come vissuto autenticamente umano; di altri episodi che
co-abitano, confinati nell’oscurità del malessere, nella vita della
madri insieme alla felicità, alla commozione, alla totale dedizione e al
senso di autorealizzazione. Vissuti scomodi, ma reali, come la
solitudine profonda, gli inevitabili errori, le molte cadute, i
frequenti dubbi; ma anche la rabbia, l’egoismo, l’amarezza, il
sentimento di perdita. Luci ed ombre di una fase ricchissima e complessa
della vita femminile, con le sue difficoltà e le sue gioie, che Marilde Trinchero affronta nel dettaglio, con delicatezza, ironia e cognizione
di causa, esplorando, con strumenti sottili e variegati, il vissuto
delle donne. Un contributo importante per la lettura della gravidanza e
della maternità - ha sottolineato Alessandro Defilippi, medico
psicanalista che ha curato l’apertura del libro -, un tentativo di
riportare la maternità, oggi culturalmente sommersa da significati
estranei, alla sua naturalità. Una galleria di ritratti di madri, faccia a faccia
con un’esperienza densissima di contenuti arcaici e primitivi, che
l’autrice accompagna attraverso le settimane ed i mesi della gravidanza
e della maternità, vissuti, spesso, in solitudine, nella ritualità
dell’attesa prima e del nutrire-cambiare-sonnellino-nutrire poi. Mesi in
cui impariamo la pazienza e la speranza e capiamo che i nostri figli non
sono noi, e noi non siamo loro. Mesi densi di emozioni, sentimenti
contrastanti, sensazioni fisiche sempre nuove e diverse, gravati
dall’incontro-scontro con le proprie origini e dai sensi di colpa legati
alle esperienze «negative» suscitate dalla maternità. Mesi di errori,
dubbi e inevitabili cadute, normalmente celati sotto la patina
dell’adeguatezza, che, preservando dall’arroganza di essere sempre nel
giusto, sono più positivi di troppe certezze.
Credo che ogni donna in
qualche modo sappia, se si ferma un attimo ad ascoltarsi, e mette un po’
a tacere le parole esterne, quale sia la strada migliore per lei. Quali
i suoi bisogni e che cosa la possa aiutare di più ad attraversare
un’esperienza sconosciuta e forte. […]. Sapendo che partorire quel
piccolo […] ci metterà a confronto con la nascita non solo sua, ma del
nostro essere madri. E che infine in quell’attimo, quel breve attimo in
cui la testa e le spalle del bambino sono già fuori nel mondo, e il
dolore è terminato, l’ultima spinta accompagnerà il resto del suo corpo,
che sguscerà via in una sensazione liquida e piacevole che si imprimerà
nella memoria per sempre.
(Delt@
Anno VI, N 251 - 252 del 19 - 20 Dicembre 2008)
Claudia Frattini |