(Roma) L’aborto e la responsabilità,
le donne, la legge, e il contrattacco maschile,
libro nel quale l’autrice Cecilia D'Elia ricostruisce l'elaborazione del
principio di autodeterminazione da parte delle femministe degli anni 70
insieme alle vicende che portarono all’approvazione nel 1978 dell’IGV,
nasce da un’insofferenza maturata dall’autrice, per il modo in cui oggi
si parla comunemente d’aborto,
per la distanza che la politica istituzionale pone tra sé e la
politica delle donne, scavalcando in nome del valore della difesa della
vita proprio chi di essa è mediatrice. La questione dell’aborto negli ultimi anni si è
imposta prepotentemente sulla scena pubblica, scatenando un delirio
ideologico: dalle posizioni dei neocons che hanno portato nel L’aborto nella vasta e ricca elaborazione del
femminismo degli anni 70, non è stato mai considerato come un evento
scisso dalla sessualità, dalla maternità e dall’alienazione femminile.
E’ un’esperienza che si incarna nella materialità dei corpi, segnati
dalle relazioni; un vissuto che non può trascendere
la responsabilità
della donna, la sua volontà. Aborto è una parola che non ammette delega.
Alla donna spetta il diritto di parlarne, a lei la prima e
l’ultima parola. E’ questa consapevolezza che anima le femministe degli
anni 70 che pur tra fratture e divergenze hanno rivendicato
l’autogestione del proprio corpo contro il potere che il
patriarcato assume e
impone attraverso il controllo della riproduzione. Sin da allora la
questione dell'aborto rese evidente lo scarto tra la nuova coscienza
delle donne e le norme che avrebbero dovuto riconoscerla. L'autrice
riparte da questo scarto e dalla diversità di piani tra le riflessioni
del movimento femminista e il dibattito tra le forze politiche per
offrire una rilettura di trent’ anni di conflitti che hanno al centro il
riconoscimento della soggettività femminile e della sua libertà.
Posizioni conflittuali, si diceva sopra, che spesso hanno compromesso la
collaborazione stessa delle donne, sono sorte soprattutto tra le
attiviste dei vari movimenti legati ancora al partito dei radicali e
comunista e tra i gruppi separatisti di autocoscienza, ovvero tra chi
come – riporta un testo del collettivo di Via Cherubini- sull’aborto
faceva un lavoro politico diverso.
Diverso da chi rimaneva
schiacciato su una lettura sociale dell’aborto, visto come una piaga
clandestina che devastava la vita delle donne(Udi); diverso da chi
accanto alla lettura sociale esprimeva anche una concezione libertaria e
affermativa dell’aborto, inteso come diritto di scegliere di come e
quando diventare madri(MLD). Due posizioni che convergevano nella
necessità di condurre una battaglia per la legalizzazione dell’aborto ma
non abbastanza per chi invece sosteneva la semplice
depenalizzazione(Rivolta femminile, Col di lana etc). L’elaborazione di
Rivolta Femminile attraverso gli scritti di Carla Lonzi, una delle
figure più importanti del femminismo italiano appariva radicale e
straordinariamente anticipatrice. Il cuore della riflessione di Rivolta
femminile assumeva la presa di coscienza del desiderio della donna,
della propria specificità sessuale non coincidente con la sessualità
procreativa. In questa prospettiva l’aborto dunque era vista come una
riposta di morte, e come una violenza fatta alla donna a causa di una
sessualità che non le appartiene. Dietro il rifiuto di ridurre l'aborto a un diritto
si celava la consapevolezza che attraverso la legalizzazione
dell’aborto, il patriarcato aggiornasse e consolidasse la sua gestione
del mondo. La semplice depenalizzazione, nel sottrarre la parola reato
di aborto dal codice penale, negava autorità legislativa al potere
maschile affermando il principio della piena autodeterminazione della
donna. “Tale principio,
scrive Cecilia l’autrice, sicuramente influenzò la legge 194 ma
assolutamente non può dirsi operante nel testo della legge nel quale la
libertà di scelta della donna è riconosciuto in relazione al suo stato
di salute, o alle sue condizioni economiche, sociali o familiari, o alle
circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di
anomalie o malformazione del concepito (articolo.4)”. Spetta allo
statuto tutelare la vita, mentre la donna è sì considerata soggetto di
scelta in quanto però individuo separato/separabile dal feto, non in
quanto mediatrice di vita. Le legge da molte femministe, giuriste e
teoriche di oggi come di allora è stata letta come un beneficio concesso
alle donne che non potevano adempiere al ruolo materno.
Grazia Zuffa l’ha definita una stridente contraddizione: tra la
concessione di questo beneficio e l’affermazione della libertà di scelta
che invece presuppone un soggetto forte, di desiderio e scelta.
Subita come una legge compromissoria, la 194, era considerata dai
gruppi di autocoscienza come frutto di una cultura patriarcale e di
mediazione tra componenti laiche e cattoliche degli schieramenti
politici in cui non era contemplato il pensiero della sessualità
femminile, in cui non era recata traccia dei saperi delle donne; una
legge nella quale l’autodeterminazione delle donne, come autogestione
del proprio corpo, come consapevolezza del potere generativo non è
riuscita a trovare una sua dimensione simbolica. Il potere riproduttivo
delle donne, nella riflessione della filosofa Claudia Mancina, è una
condizione ontologica ed esistenziale dell’essere donna; la vita è
processo iscritto nel corpo della donna, dunque l’aborto è il nucleo
etico dove si esprime e afferma la soggettività femminile. La libertà
costruita dalle donne su questo taglio esistenziale deve valere per
entrambi i sessi, cioè come un’acquisizione di un riconoscimento
reciproco e quindi di un’etica universale. L’etica della relazione
iniziando dall’esperienza primordiale dell’essere duo in un corpo
dovrebbe informare di sé il diritto, la vita, la concezione del mondo.
Un passo avanti fatto delle donne in cui si concentra l’impegno di
superare la concezione dell’autodeterminazione come mero esercizio di
libertà in contrapposizione all’etica individualistica della libertà.
Questo andare oltre delle donne, eccede continuamente la sfera politica
e istituzionale, fatta di schematismi e riduzionismi. Tutto schiacciato
sul paradigma di difesa della vita, sulla grammatica dei diritti, sulla
maternità come valore piuttosto che come potenzialità riproduttiva, il
dibattito sull’aborto attuale invece “criminalizza la libertà delle
donne, riducendo il corpo femminile a un semplice contenitore di un
processo vitale”. E’ un’operazione a perdere- scrive D’Elia - per la
nostra specie che, in tempi di viluppo tecnologico, rischia di smarrire
la corporeità, il senso del venire al mondo e dell’esperienza della
nascita”. (Delt@
Anno VI, N. 210 del 29 ottobre 2008)
Angela Ammirati. |