L’aborto e la responsabilità delle donne. Un libro di Cecilia D’Elia

 

 

Editoria

 

 

(Roma) L’aborto e la responsabilità, le donne, la legge, e il contrattacco maschile, libro nel quale l’autrice Cecilia D'Elia ricostruisce l'elaborazione del principio di autodeterminazione da parte delle femministe degli anni 70 insieme alle vicende che portarono all’approvazione nel 1978 dell’IGV, nasce da un’insofferenza maturata dall’autrice, per il modo in cui oggi si parla comunemente d’aborto,  per la distanza che la politica istituzionale pone tra sé e la politica delle donne, scavalcando in nome del valore della difesa della vita proprio chi di essa è mediatrice.

La questione dell’aborto negli ultimi anni si è imposta prepotentemente sulla scena pubblica, scatenando un delirio ideologico: dalle posizioni dei neocons che hanno portato nel 2005 in piazza a Milano, più di 250.000 mila donne in difesa della legge 194, alla proposta di moratoria di Giuliano Ferrara; dalla  richiesta della Cei di rivedere la legge in materia di l'aborto terapeutico  all’ irruzione delle forze dell'ordine nel policlinico di Napoli per interrogare una donna che si era appena sottoposta all’IGV. Eventi che impongono una riflessione e costringono ad una domanda: quanto la parola delle donne abbia realmente segnato la cultura politica e l’opinione pubblica del paese. “Salvo rare eccezioni- scrive Cecilia D’Elia – non solo si discute come se le donne non ci fossero ma come se non avessero detto nulla di significativo. Si pontifica di morale non dando nessun valore alla parola femminile come se fosse irrilevante chi abortisce”. Il viaggio attraverso i testi e i documenti di quegli anni riflette proprio l’amarezza e la  rabbia politica dell’autrice, di chi come tante femministe si trova di fronte all’insopportabile condizione di dovere ogni volta difendere la 194 come una trincea; un inciampo che elude la radice del problema, ovvero il rapporto uomo-donna, la funzione dei ruoli sociali, della maternità ma soprattutto della sessualità.

L’aborto nella vasta e ricca elaborazione del femminismo degli anni 70, non è stato mai considerato come un evento scisso dalla sessualità, dalla maternità e dall’alienazione femminile. E’ un’esperienza che si incarna nella materialità dei corpi, segnati dalle relazioni; un vissuto che non può trascendere  la  responsabilità della donna, la sua volontà. Aborto è una parola che non ammette delega.  Alla donna spetta il diritto di parlarne, a lei la prima e l’ultima parola. E’ questa consapevolezza che anima le femministe degli anni 70 che pur tra fratture e divergenze hanno rivendicato  l’autogestione del proprio corpo contro il potere che il  patriarcato  assume e impone attraverso il controllo della riproduzione. Sin da allora la questione dell'aborto rese evidente lo scarto tra la nuova coscienza delle donne e le norme che avrebbero dovuto riconoscerla. L'autrice riparte da questo scarto e dalla diversità di piani tra le riflessioni del movimento femminista e il dibattito tra le forze politiche per offrire una rilettura di trent’ anni di conflitti che hanno al centro il riconoscimento della soggettività femminile e della sua libertà. Posizioni conflittuali, si diceva sopra, che spesso hanno compromesso la collaborazione stessa delle donne, sono sorte soprattutto tra le attiviste dei vari movimenti legati ancora al partito dei radicali e comunista e tra i gruppi separatisti di autocoscienza, ovvero tra chi come – riporta un testo del collettivo di Via Cherubini- sull’aborto faceva un lavoro politico diverso.  Diverso da chi rimaneva schiacciato su una lettura sociale dell’aborto, visto come una piaga clandestina che devastava la vita delle donne(Udi); diverso da chi accanto alla lettura sociale esprimeva anche una concezione libertaria e affermativa dell’aborto, inteso come diritto di scegliere di come e quando diventare madri(MLD). Due posizioni che convergevano nella necessità di condurre una battaglia per la legalizzazione dell’aborto ma non abbastanza per chi invece sosteneva la semplice depenalizzazione(Rivolta femminile, Col di lana etc). L’elaborazione di Rivolta Femminile attraverso gli scritti di Carla Lonzi, una delle figure più importanti del femminismo italiano appariva radicale e straordinariamente anticipatrice. Il cuore della riflessione di Rivolta femminile assumeva la presa di coscienza del desiderio della donna, della propria specificità sessuale non coincidente con la sessualità procreativa. In questa prospettiva l’aborto dunque era vista come una riposta di morte, e come una violenza fatta alla donna a causa di una sessualità che non le appartiene.

Dietro il rifiuto di ridurre l'aborto a un diritto si celava la consapevolezza che attraverso la legalizzazione dell’aborto, il patriarcato aggiornasse e consolidasse la sua gestione del mondo. La semplice depenalizzazione, nel sottrarre la parola reato di aborto dal codice penale, negava autorità legislativa al potere maschile affermando il principio della piena autodeterminazione della donna.  “Tale principio, scrive Cecilia l’autrice, sicuramente influenzò la legge 194 ma assolutamente non può dirsi operante nel testo della legge nel quale la libertà di scelta della donna è riconosciuto in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazione del concepito (articolo.4)”. Spetta allo statuto tutelare la vita, mentre la donna è sì considerata soggetto di scelta in quanto però individuo separato/separabile dal feto, non in quanto mediatrice di vita. Le legge da molte femministe, giuriste e teoriche di oggi come di allora è stata letta come un beneficio concesso alle donne che non potevano adempiere al ruolo materno.  Grazia Zuffa l’ha definita una stridente contraddizione: tra la concessione di questo beneficio e l’affermazione della libertà di scelta che invece presuppone un soggetto forte, di desiderio e scelta.  Subita come una legge compromissoria, la 194, era considerata dai gruppi di autocoscienza come frutto di una cultura patriarcale e di mediazione tra componenti laiche e cattoliche degli schieramenti politici in cui non era contemplato il pensiero della sessualità femminile, in cui non era recata traccia dei saperi delle donne; una legge nella quale l’autodeterminazione delle donne, come autogestione del proprio corpo, come consapevolezza del potere generativo non è riuscita a trovare una sua dimensione simbolica. Il potere riproduttivo delle donne, nella riflessione della filosofa Claudia Mancina, è una condizione ontologica ed esistenziale dell’essere donna; la vita è processo iscritto nel corpo della donna, dunque l’aborto è il nucleo etico dove si esprime e afferma la soggettività femminile. La libertà costruita dalle donne su questo taglio esistenziale deve valere per entrambi i sessi, cioè come un’acquisizione di un riconoscimento reciproco e quindi di un’etica universale. L’etica della relazione iniziando dall’esperienza primordiale dell’essere duo in un corpo dovrebbe informare di sé il diritto, la vita, la concezione del mondo. Un passo avanti fatto delle donne in cui si concentra l’impegno di superare la concezione dell’autodeterminazione come mero esercizio di libertà in contrapposizione all’etica individualistica della libertà. Questo andare oltre delle donne, eccede continuamente la sfera politica e istituzionale, fatta di schematismi e riduzionismi. Tutto schiacciato sul paradigma di difesa della vita, sulla grammatica dei diritti, sulla maternità come valore piuttosto che come potenzialità riproduttiva, il dibattito sull’aborto attuale invece “criminalizza la libertà delle donne, riducendo il corpo femminile a un semplice contenitore di un processo vitale”. E’ un’operazione a perdere- scrive D’Elia - per la nostra specie che, in tempi di viluppo tecnologico, rischia di smarrire la corporeità, il senso del venire al mondo e dell’esperienza della nascita”.

(Delt@ Anno VI, N. 210 del 29 ottobre 2008)                                            Angela Ammirati.