Il canto scomodo di Atonia Arslan sul genocidio del popolo armeno  

 

 

Editoria

 

 

(Roma) La masseria delle Allodole, edito dalla Rizzoli, secondo classificato al Campiello 2004 e vincitore del Premio Stresa, è il primo romanzo di Antonia Arslan,  che debutta come narratrice dopo avere  a lungo insegnato Letteratura Italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova ed avere pubblicato numerosi saggi sul romanzo popolare e sulla narrativa femminile a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento.

Arslan si è cimentata con un tema scottante, ispido, ‘terribilmente’ attuale, soprattutto considerando il momento storico che ci troviamo a vivere: quello del genocidio degli Armeni da parte dei Turchi, avvenuto nel 1915 sullo sfondo della prima guerra mondiale.

Ha cominciato a scrivere: “…perché non ha potuto farne a meno. Quei personaggi, quelle persone dal destino incompiuto, erano lì e l’hanno chiamata. Hanno voluto essere ascoltati” , recita il risvolto di copertina, quasi a ribadire che,  anche se sono passati ottanta  anni, il popolo armeno non ha ancora rinunciato a piangere i propri morti.

Il romanzo storico, perché sicuramente così si può classificare La masseria delle allodole, comincia a Padova, durante la festa di Sant’Antonio, con un Prologo che immediatamente porta nell’atmosfera di un mondo in cui i valori della religione, della famiglia, dell’amicizia, delle tradizioni vengono descritti come momenti di massima comunione col creato, come necessità spirituale e umana  da cui non si può prescindere se si vuole comprendere il senso della vita nella sua pienezza.

I ricordi fluiscono liberamente nella narrazione, che diventa una sorta di film muto in cui i personaggi si delineano e acquistano corpo muovendosi in ambienti ricostruiti magistralmente dall’autrice che ha avuto la straordinaria capacità di descrivere evocando.

 Ci si sente rapiti dalla storia dell’umile gente armena di una piccola città dell'Anatolia, fiduciosa dei nuovi tempi e piena di entusiasmo per il futuro, che invece si è trovata ad essere sterminata e deportata.

Arslan aveva già affrontato il tema dell’eccidio armeno in più d’una occasione ( ricordo la sua bellissima e dotta prefazione al Canto del pane di Daniel Varujan ) e lo aveva fatto documentandosi, con la pazienza di chi ( la laurea in archeologia non è estranea al suo comportamento certosino di indagatrice oculata ) sa che prima o poi affiorerà una scheggia che illumina, un reperto che consolida la verità. Il passo alla narrativa le ha permesso una maggiore libertà di azione, le ha dato la possibilità di far muovere i protagonisti fuori dagli schemi, di renderli persone vive, lontane dalla fissità , seppure necessaria, del documento. Non solo, le ha anche consentito di far emergere la sua particolare sensibilità femminile riscontrabile in tutte le donne del romanzo, forti ed indimenticabili, sopravvissute alla morte dei figli e dei  mariti, caparbie nella volontà di far vincere la vita. Straordinaria la figura di Shushanig, moglie di Sempad, che rimane immobile in mezzo al massacro di tutti i suoi figli con la testa del marito in grembo, una sorta di Giuditta non-carnefice, un affresco di Artemisia Gentileschi.

La sopravvivenza del popolo armeno è nelle mani di un gruppetto di donne e di un bambino vestito da femmina che ricostruiscono la loro identità nel mondo.

Molto incisiva la figura del medico Yerwant, che muore esule  in una solitudine malinconica e straziante senza neppure la consolazione di poter ascoltare, seppure per un attimo, la lingua della sua infanzia, la musica materna delle prime sillabazioni. Egli era arrivato giovane in Italia, aveva studiato medicina con risultati molto brillanti e si era sposato con una nobildonna del posto. Stava per tornare a trovare i suoi cari nel Paese natio quando  lo scoppio della guerra gli impedì il viaggio.

Nelle pagine del libro la tragedia dei singoli assurge drammaticamente a simbolo della condizione di un intero popolo che è stato doppiamente maltrattato dalla storia, prima con lo sterminio fisico ( ne aveva subito un altro molto feroce nel secolo precedente sempre a opera dei Turchi ) e dopo con il mancato riconoscimento storico dell’accaduto.

Non è semplice distinguere il vero dal verosimigliante nella narrazione, ma il filo conduttore è sempre è comunque la verità dell’accaduto, che in una sorta di ricostruzione scenica racconta i luoghi, gli ambienti, gli odori di un popolo che fu colto alla sprovvista e che si prestò inerme ad essere trucidato, quasi incredulo di ciò che gli stava accadendo, perché senza colpa alcuna.

Eppure nelle pagine del romanzo non c’è nessun monito, nessuna rivendicazione, tutto viene raccontato con uno stile semplice e fluido; la narrazione non è un’invettiva tarda e ormai inutile, è semplicemente la dimensione storica in cui l’identità di un popolo affonda le sue radici.

   Arslan racconta con una perizia che ha le sue ascendenze perfino in scrittori della tempra di Dumas ( un certo ritmo, una certa cadenza sembrano prendere l’abbrivo dalla lezione del grande francese ), ma il punto di vista è tutto femminile. Anche il mondo degli uomini è narrato con quella dolcezza e quella forza che appartiene alle donne. Niente dunque lungaggini descrittive, niente arabeschi di carattere psicologico, niente insistenze gratuite sui rituali, che pure hanno una somma importanza nell’economia di questo libro.

 Piace anche la maniera in cui i rapporti d’amore, di parentela e d’amicizia vengono sottolineati. Si sente che Arslan non ha temuto di far rivivere l’umanità alta e profonda di una antica tradizione entro cui ha trovato voce la bellezza di una poesia legata ai sentimenti e alle emozioni. Si badi però che sentimenti ed emozioni restano un filo teso che non scende mai a patti col patetico. Arslan ha la mano ferma, sa dosare ogni cosa, entrare e uscire dal dolore, dallo strazio, dalla nostalgia. E così ogni personaggio si staglia in una nitidezza robusta e priva di fronzoli: le donne non sono manichini o appendici dell’uomo e portano avanti il loro modo d’essere con una dignità che diventa canto sublime della speranza.

   Ma su tutto domina il linguaggio utilizzato da Arslan: corposo e denso di sfumature, di un lievito che rende preziosi e indimenticabili luoghi e persone e crea una sorta di epopea che resta a lungo nei cuori e riapre un problema come quello del genocidio armeno con un grido più forte e più straziante di tanti saggi che spesso hanno trovato la sordità  dei lettori. Insomma, la materia di questo romanzo è incandescente e fa vibrare di sdegno chi lo legge, rendendolo scomodo e inquieto.

(Delt@ Anno II, n. 225  del 17 novembre 2004)                                                                                                     Lara Maffia