(Roma)
È viva per raccontare Immaculée Illibagiza. Viva per raccontare, come
lei stessa afferma, la sua
storia di sopravvissuta al genocidio in Ruanda, dopo essere stata
rinchiusa per tre mesi, allo scoppiare della sanguinosa guerra civile,
in un minuscolo bagno con altre sette donne. Viva per raccomandare di
aprire sempre il cuore alla speranza, per testimoniare che il perdono è
possibile, che il “circolo dell’odio”, come Illibagiza lo definisce, può
essere pezzato, con la fede e la misericordia. Immaculée è riuscita a
perdonare i massacratori della sua famiglia e delle tante famiglie
ruandesi ree, agli occhi degli hutu, di essere dell’etnia tutsi; con la
sua incrollabile fede e devozione verso Dio Illibagiza ha percorso con
coraggio un cammino interiore che l’ha portata alla salvezza, ad una
vita nuova, o semplicemente alla Vita: si perché vivere, per Immaculèe,
può essere possibile solo se con animo puro si abbandona l’odio, il cui
sapore amaro corrode e lascia morire l’anima, condannandola alla
sofferenza. Immaculée Illibagiza, raccontando la sua storia, ha voluto
lasciare esattamente un messaggio di speranza.
Le pagine del libro scorrono veloci e il racconto della giovane donna
suscita amarezza, stupore, serenità, ma, soprattutto, suscita domande
sulla strada che siamo pronti ad intraprendere: quella dell’odio? Della
disperazione? O quella della speranza e del perdono?
Sono passati 14 anni dal genocidio in Ruanda. Immaculée, rinchiusa nel
bagno, ha pensato spesso all’immobilità dell’Occidente nella vicenda.
Certo, tutte le nazioni riconoscono il principio del dominio riservato,
limite difficile da travalicare. È importante, tuttavia, non abbassare
mai la guardia, guardare con occhi vigili ciò che succede nel mondo,
anche in aree spesso dimenticate. Ciò che da poco è accaduto in Kenya,
su cui già calano i riflettori, deve farci meditare. Silvia De Silvestri
(Delt@
Anno VI°, N. 19 del 28
Gennaio 2008)
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