Elisabetta Rasy ricostruisce l'amore tra Nadezda e Osip Mandel'stam nella Russia del 1919

 

 

Editoria

 

 

(Roma). Un romanzo “amico”, così lo definisce Nadia Fusini, un romanzo che restituisce al lettore, alla lettrice, una delle relazioni più intense e significative del secolo scorso, quella tra il poeta russo Osip Mandel’štam e sua moglie Nadežda Chazina. La scienza degli addii, ultima fatica letteraria della scrittrice e giornalista Elisabetta Rasy, stato presentato l’altro ieri, presso l’elegante e suggestiva cornice architettonica della neo-nata Casina del Cinema di Villa Borghese,  narra di una storia d’amore, di coraggio, di pazienza e di grande forza, tutto ravvisabile nella figura dei due protagonisti, ma ancor più in quella femminile di Nadežda, rimasta fino all’ultimo al fianco del poeta, trascrivendone, dopo la sua morte, i versi delle sue poesie, rendendole così vive ed immortali: “Se c’è una cosa di cui Nadežda è fiera è il suo ruolo di copista, Osip è la voce e lei la mano che scrive, lei non è più la figlia, la sorella, la bambina immaginaria che lui vagheggia nelle sue tenerezze. E’ molto di più: è la mano che si muove al suono della sua voce. (…) Lei non sarà l’ombra di suo marito, sarà l’ombra della sua voce”. L’invenzione è forse la qualità suprema che deve possedere lo scrittore nell’atto creativo. La scrittrice è colei che possiede la fantasia, ma anche le emozioni, quelle particolari emozioni capaci di interessarla e sconvolgerla al punto di farle rivolgere lo sguardo, la mente e il cuore verso qualcosa, o qualcuno apparentemente lontano e a noi sconosciuto. Questo è quanto accaduto all’autrice, imprigionata dalle parole di un poeta: Osip, a dire il vero da molti poco conosciuto, ma che fu grande nella storia del ‘900 russo, e che Rasy, innamoratesene, ha voluto far rivivere oggi, per restituirgli ciò che la sua epoca ingrata gli ha tolto con arroganza ed inaudita violenza. “Ciò che mi ha interessato non è tanto la difficile storia russa del primo ‘900, quanto ciò che la storia normalmente tralascia” – sottolinea la scrittrice – “ Tutto ciò che la grande storiografia normalmente fa cadere, a me incuriosisce e affascina. Amo osservare la gente, il loro modo di vivere, di camminare, di fumare, di sognare, tutto chiaramente incorniciato da un dato periodo storico”. Un poeta, Osip, ai margini della sua storia. Un’epoca che lo vuole fiero, quella della Rivoluzione russa e della successiva guerra civile, da lui definita “secolo cane-lupo”, e per questa sua avversione, per questa sua poesia dichiaratamente avversa a Stalin, finì i suoi giorni in un gulag siberiano. Dopo la morte di Osip, la moglie Nadežda lascia Mosca per dedicarsi all’insegnamento e all’attività di traduttrice, ma la sua grande forza consiste nell’aver salvato interi poemi del marito, imparati a memoria, ricopiati e nascosti a lungo fino alla fine delle persecuzioni staliniste, trascorrendo gli ultimi anni della sua vita a farsi strumento e memoria vivente del marito: “La Russia è l’unico paese al mondo dove si uccide per una poesia”, riporta Rasy parafrasando il poeta scomparso. La scrittrice si dice profondamente toccata e commossa dal tema della libertà, una libertà che la Rivoluzione russa ha tolto a molti artisti, considerando i poeti persone pericolose al regime. Nonostante ciò, il romanzo di Rasy tocca questo tema con grande pudicizia ed estraneità, perché alla scrittrice non interessa fare un’apologia, un manifesto politico, o strumentalizzare l’argomento, a lei interessa solo far affiorare una bella storia d’amore fatta di sacrifici, di paure e di abbandoni. Da subito infatti, emerge l’amore di una fanciulla che si innamora dell’eroe-poeta: Osip. Il poeta come eroe, un uomo sicuro e innamorato del suo lavoro e che trova la forza di vivere proprio grazie alla poesia e all’affetto della sua compagna. Leggendo le prime righe del prologo sembrerebbe sia Nadežda a parlare, ma in realtà  è Osip che narra dell’incontro tra i due, e lo fa con il punto di vista della ragazza. Un incontro che cambierà l’agiata vita della giovane, per una vita fatta di stenti. Il romanzo d’amore e il mistero di questo incontro stinge poi nel noir delle vicende storiche, ma senza mai perdere d’occhio i due protagonisti e le loro personali vicende, un amore narrato senza alcun appiccicoso sentimentalismo. I due non si lasciano andare a smancerie, ma alla comune passione per l’atto creativo e poetico, troppo forte e invadente per lasciare il tempo a romanticismi. Il loro amore è continuamente espresso in chiave poetica; poesia sono le lettere di Osip a Nadežda, poesia le frasi sussurrate tra le mura di casa, poesia gli sguardi e i loro quotidiani timori. La qualità linguistica del romanzo è grande,  e Rasy fa un uso della lingua quasi familiare, emotivo, le parole sembrano volutamente non esser state scelte con cura ed attenzione, ma al contrario sono spontanee, quasi distratte, volutamente dimesse, perché dimessa è la vita dei due protagonisti. Anche la punteggiatura sembra voler evidenziare la perdita di realtà, il senso del terrore che spezza e rallenta il fiato, ma che accelera i battiti del cuore. Una lingua emotiva che lascia libertà al lettore/ alla lettrice di provare la propria verità su ciò che legge. Verità non dette, dunque, ma che danno peso al romanzo e fanno calare  chi legge nel vivo della storia. Scrivere la storia di chi non c’è più è come farne rivivere l’anima e ripagare con la libera letteratura contemporanea, la mancata libertà del poeta russo, vittima della suo stesso desiderio di libertà. “Nonostante la tragicità di questa vita, Osip e Nadežda questa vita la amavano profondamente” – sottolinea la scrittrice – “E’ forse da questa sofferenza che trovavano la forza per viverla fino in fondo. In tutto ciò è da ravvisare il coraggio nel voler difendere la libertà della parola espressa in poesia, una poesia tanto amata, che però lo ha poi condannato alla morte”.

(Delt@ Anno III, n. 136-137 del  16-17  giugno 2005)                                                                                    Simonetta Corrias