Madri assassine - diario da Castiglione delle Stiviere

 

 

Editoria

 

 

(Roma). Presentato martedì scorso presso la sede dell’ Associazione “Voce Romana” in via Rubattino 5, a Roma, “Madri assassine- diario da Castiglione delle Stiviere” di Adriana Pannitteri, pubblicato dall’editore Gaffi di Roma per la collana “i Sassi”. Parte da una ricerca “del cuore”, diventando così già da subito indefinibile (romanzo, inchiesta, diario: ma più di tutto, autentico percorso conoscitivo, fuori e dentro di sè) il coraggioso lavoro di Adriana Pannitteri, che ha saputo utilizzare la sua esperienza di giornalista (nasce come cronista e poi diventa conduttrice dei telegiornali del mattino al TG1) e la sua sensibilità umana (la ricerca ha alla base un’urgenza, un bisogno profondo di comprensione di sé e dell’altra attraverso il dialogo, che desta ammirazione e commuove), per andare incontro a una delle realtà più difficili da interpretare per il senso comune e persino per la psichiatria criminale, un vero e proprio “buco nero” morale: il filiicidio materno, che va in primo luogo distinto da quello paterno, di tutt’altra origine e natura, e dall’infanticidio (che si commette se fra assassina e vittima non c’è, o non c’è ancora, un rapporto affettivo, come nel caso della madre che getta il figlio nel cassonetto). In questo libro si parla di omicidi commessi da madri contro figli che erano stati da loro allevati per mesi o anni, omicidi avvenuti spesso fra le mura domestiche, in un giorno come tanti, magari nel bel mezzo delle attività di cura quotidiana. 

Atto di violenza estrema, “contro natura”, inaccettabile, l’assassinio dei figli, proprio per il contrasto fra la quotidianità rassicurante del contesto e l’efferatezza del gesto, è sempre golosamente sezionato dalla cronaca , prima con morbosa curiosità (le interviste ai vicini: “una donna gentile, una madre affettuosa, nessuno screzio in famiglia, niente che potesse far pensare...”) poi con costernata, semplicistica estraneità, magari infarinata di formule pseudo-psichiatriche (“un raptus”, “era in cura per depressione”) o pseudo-sociologiche (“solitudine, ignoranza, povertà”). Formule generiche, superficiali, dovute all’incapacità di decifrare un orrore tanto grande nei pochi minuti o nelle poche righe di un servizio di cronaca, formule che però sembrano quasi fatte apposta per alimentare il panico che la notizia dell’assassinio di un figlio da parte di una giovane madre inevitabilmente suscita, specialmente nel pubblico femminile: “Un raptus? Depressione? Allora potrebbe succedere anche a me...”.

Se la superficialità dei cronisti è fortemente criticabile, ancora più sconcertante è la scoperta che la psichiatria non sembra saper andare tanto più a fondo: la postfazione della psichiatra Annelore Homberg al libro di Adriana Pannitteri  sottolinea come anche gli specialisti si dividano, sostanzialmente, in due grandi categorie, in base ai diversi presupposti ideologici di fondo: quelli che sostengono che in ognuno di noi ci sia un potenziale assassino, e quelli che sostengono che la follia “non esista” o sia da leggersi piuttosto come una forma di “differenza”.

Ma l’assassinio del proprio figlio (o dei propri figli) ha implicazioni che impongono di andare oltre questi presupposti ideologici: se la follia delle madri assassine può, in alcuni casi, essere inquadrata fra le “psicosi” o fra le “depressioni maggiori”, tuttavia queste categorizzazioni non spiegano fino in fondo la sua origine e soprattutto i suoi effetti, né servono, da sole, a compiere l’opera più importante, quella di comprendere per guarire, prevenire, curare. Opera che spetta alla medicina, ai servizi sociali territoriali, alla nostra complessa e poco preparata “società”, ma soprattutto alle persone, e le persone siamo noi. Noi, che con le madri di Castiglione delle Stiviere condividiamo sicuramente un presupposto molto pesante: il senso morale che in ogni coscienza occidentale, sana o malata, condanna in modo inappellabile l’assassinio di un bambino, e che non può accettare l’orrendo paradosso che questa morte arrivi proprio dalla mamma. A questo si aggiunge, per le donne che hanno commesso il filiicidio, il profondo senso di colpa e la condanna di sé che le ha spinte, “dopo”, a cercare il suicidio, e che oggi rende paurosamente difficile il loro recupero, il ritorno a una vita “normale”, l’accettazione di un possibile futuro per chi ha distrutto il futuro di un figlio. Non si vuole sopravvivere a un orrore simile. Eppure sembra che proprio l’odio per se stesse, il mancato riconoscimento di sé come persona, l’anaffettività, lo scollamento insanabile fra il proprio ruolo di cura e i propri bisogni affettivi profondi, insoddisfatti dalla notte dei tempi, siano fra le molle che possono fare scattare la follia materna.   L’attacco omicida della madre contro il figlio sembra essere nella maggior parte dei casi, in primo luogo un attacco contro se stessa, contro la propria stessa vita.  Delle 20 madri filiicide detenute (in quel momento) in tutto il territorio italiano, una ricerca psichiatrica presentata a Roma dal Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica del Policlinico Umberto I di Roma nel gennaio 2005 affermava che la maggioranza era stata separata dalla madre subito dopo il parto, istituzionalizzata nel primo anno di vita, che all’interno delle istituzioni ospiti (oppure delle famiglie adottive) aveva subito violenze da parte di figure primarie di riferimento, che era stata deprivata dal punto di vista affettivo (assenza totale di comunicazione carezzevole durante l’infanzia), aveva vissuto la prima infanzia in stato di semi-isolamento sociale, e aveva subito abusi sessuali e/o punizioni di tipo sadico da parte dei coetanei o del personale dell’orfanotrofio o del collegio. Questi, i “fattori intrapsichici” che possono concorrere a formare un terreno fertile per l’evento drammatico. Ma per farlo esplodere occorre, spiegano gli psichiatri, un “quid novi” o “quid plus”, che faccia da detonatore a questo pesante vissuto passato: improvvisa incertezza affettiva (eventuali relazioni extraconiugali del marito) grave limitazione relazionale dovuta alla cura della prole, squilibri ormonali eccetera eccetera. In questo c’entriamo anche noi, “la società”. Questo “quid plus” porta con sé sintomi evidenti, in questa fase spesso la donna chiede aiuto a chi le sta intorno, mostra inequivocabilmente i segni della sofferenza. In questa fase, spesso non trova alcun ascolto nemmeno da parte dei medici. 

Mossa dal desiderio di andare più a fondo, e forse consapevole che non tutto si può spiegare con criteri soltanto scientifici o sociologici, Adriana è partita per Castiglione delle Stiviere, l’“ospedale psichiatrico giudiziario” che ospita un certo numero di madri assassine (possiamo riconoscerle, nonostante i nomi cambiati per rispetto alla privacy, per averne seguite le vicende fino al momento dell’arresto). È partita seguendo un impulso non troppo spiegabile, per tentare di incontrare una possibile, diversa verità. Ha cercato di non portarsi dietro pregiudizi, di incontrare direttamente la sofferenza e il mistero che stanno dentro queste donne, di trasmettere loro la fiducia nell’onestà del suo lavoro, fiducia di cui le ringrazia alla fine del libro. Segno che il suo intento era anche terapeutico: fare arrivare alle donne di Castiglione uno sguardo, un interesse non “giornalistico” e non “psichiatrico”. Comunicare su un piano prima di tutto umano, dunque ascoltare prima di condannare. Di questi incontri ha tenuto un diario, fatto di impressioni personali sul luogo, sulle persone, sul paese circostante, di opere d’arte pittoriche o poetiche generosamente concesse alla pubblicazione dalle loro autrici, pazienti della struttura, e anche di testimonianze crude come esplosioni, e di messaggi non scontati sul recupero, sull’elaborazione del lutto, sul rientro in famiglia. Emerge un quadro di donne in cammino tra giornate atroci e giornate sopportabili, tra licenze e crolli inevitabili, tuttavia non sempre e non soltanto disperate. Un quadro in cui si impone la sospensione del giudizio, il rispetto non facile per un percorso di cui è estremamente arduo, anche per le donne che lo compiono, accettare fino in fondo la possibilità. Un percorso conquistato giorno per giorno, minuto dopo minuto, come la pericolosa scalata di una parete liscia di montagna. 

La prima emozione emersa spontaneamente da questa ricerca, ci racconta Adriana in un’intervista successiva alla presentazione del libro, è stata la rabbia. Rabbia verso le istituzioni, rabbia per l’incapacità di ascolto generale di fronte a una forma di follia che non è affatto un “raptus” ma che si alimenta e si coltiva in anni di solitudine, di sofferenza, di degrado. Rabbia perché queste persone potevano essere curate. Rabbia perché siamo sempre tutti pronti a spenderci per aiutare una persona ammalata, per esempio di tumore, ma se questa persona è profondamente, gravemente depressa, non diamo importanza e diciamo sempre: “passerà”. Rabbia per il pregiudizio che affida all’”istinto materno” una capacità di sacrificio personale e di sopportazione che non corrisponde alla realtà nemmeno per una donna “normale”, figuriamoci per una malata.

A queste impressioni personali e alle testimonianze Adriana alterna, per un’esigenza interiore che non è soltanto letteraria, capitoli di un racconto che ha per protagonista Maria Grazia, una bambina figlia di una donna malata di depressione. Il dialogo si dipana, così, nelle pagine di questa breve, densissima opera prima, sia tra Adriana e le donne detenute a Castiglione, sia tra Maria Grazia e la misteriosa figura della “bella signora dai capelli neri”, grande assente e protagonista sconosciuta della sua infanzia. Tra luci intense e fantastici godimenti infantili, la vita di Maria Grazia lascia intravedere in controluce la tragedia della malattia materna, un non-detto che amareggia il gusto delle troppe caramelle dispensate per consolarla di un’assenza inspiegata.

L’opera di Adriana Pannitteri offre così uno sguardo personale, acuto e sensibile sulla sofferenza psichica, e costituisce un raro esempio di uso etico della professionalità giornalistica (offrendo al lettore anche una ricca bibliografia di approfondimento), nonché un’opera letteraria di stile gradevole e curato. Una nuova presentazione del libro, arricchita degli interventi della psichiatra Annelore Homberg, autrice della post-fazione, e di un criminologo, è attesa a Roma per il 19 giugno alle ore 18,30, presso la libreria “Book City” di viale Marconi 92.

(Delt@ Anno IV, n. 122 del 5 giugno 2006)                                          Nicoletta Bertorelli