Madri selvagge e tecnorapine maschili

 

 

Editoria

 

 

(Milano). Il libro “Madri selvagge” di Alessandra Di Pietro e Paola Tavella è in vendita presso la Libreria delle donne di Milano. “Questo manifesto radicale di amore per la vita”, come lo definiscono le autrici, è stato recentemente presentato da Mariangela Mianiti, giornalista ed autrice di “Una notte da entraîneuse” già recensito su Delt@.

Le autrici si definiscono due femministe libertarie e di sinistra; il libro ha fatto sicuramente discutere per le posizioni non consuete e molto coraggiose per due esponenti del femminismo come loro.

Tocca svariati argomenti concernenti la maternità e la procreazione assistita, e si schiera apertamente contro l’ipocrisia del dibattito etico e scientifico sulla natura dell’embrione e sulla sperimentazione di massa operata su di esso, ma soprattutto sul corpo femminile. E’ un appello alle donne a svegliarsi di fronte alle ingiustizie mascherate con il nome di ricerca e per rincorrere una presunta maternità, che potrebbe anche non esserci. Esortano così le donne a pensare anche a una terza via rispetto alla seconda della procreazione assistita e cioè a quella di essere femminili e creative di opere d’arte e materne nei confronti delle altre donne in una dinamica sia orizzontale che verticale, di crescita e scambio politico, donando le proprie risorse e talenti alle loro compagne di viaggio, più adulte o più giovani!

Presagiscono la possibilità che i figli, concepiti nel piacere, partoriti accucciate nel dolore e nel sangue, attaccati al seno con gusto per anni, possano un giorno vendicarsi nei confronti delle loro madri di averli fatti nascere come umani, non selezionati, non diagnosticati, non testati, confidando in una sorte che avrebbe potuto essere predetta e scelta. Ebbene in Italia non esistono ancora queste situazioni tristi e contro natura, ma in Francia e negli Stati Uniti, figli che si ritengono mal riusciti hanno già intentato una causa legale nei confronti delle loro madri e dei medici che li hanno lasciati nascere e crescere, senza preoccuparsi di identificarli come malformati e malati fin dal concepimento.

Mianiti, nella sua presentazione del libro, si focalizza sui tre capitoli più politici, in quanto più intensi e ricchi di materiale su cui riflettere.

Uno di questi è “Maternalia”, che significa maternità. Esso raccoglie il senso e il significato di essere madri, frasi dette e stereotipi, una riflessione sul corpo della madre, che, in quanto corpo, è da sempre luogo della politica; è un invito ad essere attente al proprio corpo e ad averne sensibilità. E’ un corpo dove avvengono bombardamenti ormonali, per poter procreare, dove la mestruazione può essere luttuosa se prevale il desiderio di fecondità, che può diventare delirio di onnipotenza, quando si pensa di poter essere moglie, madre, donna in carriera, e riuscire bene in tutti questi ruoli. Noi trentenni spesso lo pensiamo e Dio solo sa quanti dubbi ci attraversano sul che fare con in mano una laurea e come affrontare tutti questi ruoli…viviamo in un periodo fortemente precario e convulso che ci trascina nella sua confusione.

Le autrici invitano a riflettere sulla terza via di maternità e a non raccontarsi favole, ma a comunicarsi ricchezza, quella che solo la sensibilità e la cultura possono fare. E’ una risposta dura, di parte e chiara nei confronti della polemica che ruota intorno alla legge 40, a cui tutte noi siamo state chiamate a dare una posizione nei recenti quesiti referendari.

L’altro capitolo sul quale Mianiti si è focalizzata è stato “Eugenetica quotidiana”, un fantasma che temiamo, molto vicino alle tecniche che operano sull’embrione e sul feto.

L’eugenetica (dal greco 'buona nascita') è stata, cronologicamente, innanzitutto una disciplina scientifica volta al perfezionamento della specie umana attraverso lo studio e la selezione dei caratteri fisici e mentali, ritenuti positivi e la rimozione di quelli negativi; utilizzata soprattutto durante la propaganda nazista, per l’epurazione di esseri malati e razze considerate inferiori a quella ariana, perché scomode.

Attualmente questa necessità culturale dell’amniocentesi, secondo le autrici, si muove un po’ sulla scorta di questo mito creato dall’eugenetica e dalla paura della malattia o della diversità; spesso infatti non si sa come approcciarsi dinanzi all’imperfezione e si tende al mito della salute; le autrici invitano a non demonizzare chi accetta di non fare questa scelta e lasciare che un bambino fragile abbia la possibilità di esistere.

L’ultimo capitolo, scottante, interessante, che per le autrici è di grande interesse e di attualità è quello intitolato “La rapina delle uova”, il cui incipit è: “Se lo sperma è isterilito, avvilito, analizzato, congelato, l'ovocita è diventato una merce preziosa. E infatti l'emergenza morale posta dalla ricerca sulle cellule staminali embrionali riguarda le donne sfruttate per produrre gli ovuli necessari per gli esperimenti di clonazione terapeutica. Se questa piaga sarà riconosciuta e guarita, anche intorno all'utilizzo dell'embrione ci sarà più chiarezza.”

Le autrici denunciano ancora una volta il potere maschile della scienza e della tecnologia sul corpo femminile, in merito a questioni come natalità, procreazione e procreazione assistita, che dovrebbero essere sicuramente elementi tipici della cultura femminile, e legati ad un potere decisionale della donna, se resa consapevole.

E’ un capitolo che mette in guardia di fronte al facile ricorso alle ecografie, alle analisi del sangue, all’utilizzo del latte in polvere per i neonati, al considerevole aumento del taglio cesareo, parto sicuramente contrario alla naturalità, e di fronte al cui frequente ricorso – la città Messina tocca l’apice con un 66% - occorre mettersi in allarme e informarsi. “E’ una tecnorapina?” Si domandano le autrici.

Esse prendono posizione anche di fronte all’aborto e alla libertà raggiunta dalla donna di fronte a questo atto, libertà tuttavia non slegata dal dolore, perché dolorosa è la scelta di ricorrere a quest’ultima ratio nei confronti di una vita che si porta in grembo, non voluta.

Ma veniamo alla rapina delle uova…ecco quello che le autrici denunciano:

“Nel maggio del 2005, i tecnoscienziati coreani guidati dal veterinario Hwang Woo-suk - che poi stando ai suoi stessi colleghi e a «Science» avrebbe contraffatto i risultati dei suoi esperimenti - e gli inglesi dell'Università di New-castle annunciarono a ventiquattr'ore gli uni dagli altri di aver clonato embrioni umani che si erano disfatti dopo qualche giorno. Il nostro amico Jeróme, meditante e francese mangiapreti, ci mandò un'e-mail scherzosa chiedendo se fossimo in lacrime per gli embrioncini morti. No. Non piangiamo per gli embrioni, ma per le donne rumene, indiane, californiane, coreane, colombiane che - spesso nell'estremo bisogno e pagate una miseria, raramente al corrente dei rischi, di solito non protette dalla legge - sono stimolate, operate e mutilate delle centinaia di ovuli necessari per arrivare a donare un solo embrione.

Ufficialmente gli ovociti utilizzati nella ricerca coreana erano centottantacinque, e Hwang Woo-suk dichiarò che erano stati «donati» da diciotto volontarie. L'equipe inglese dell'Università di Newcastle-upon-Tyne, guidata da Alison Murdoch e Miodrag Stojkovic, era arrivata a creare tre blastociti, cioè embrioni al primo stadio, un insieme di cellule non più grande della punta di uno spillo, lavorando su trentasei ovuli «donati» invece da undici donne sottoposte a fertilizzazione in vitro. Tuttavia la stima ufficiale del numero di ovociti che il team dell'Università di Newcastle ha previsto di usare per un triennio per gli esperimenti di clonazione terapeutica è di tremila ovociti, di cui trecento freschi ad hoc e duemilasettecento provenienti dalle cliniche e «non giunti alla fertilizzazione». Attualmente, infatti, i donatori britannici utilizzano soltanto gli ovuli in soprannumero delle coppie che frequentano le cliniche per la fertilità. Ma molti tecnoscienziati ritengono che la bassa qualità di questi ovuli abbia un impatto negativo sulla ricerca e ostacoli la capacità degli ovuli stessi di trasformarsi in cloni sani. Infatti l'iper-stimolazione forza a produrre non un ovulo, come avverrebbe in natura, ma molti di più, anche dieci e talvolta quindici, cosicché «il quaranta-cinquanta per cento degli ovociti ottenuti con processo di iperovulazione presenta un cariotipo alterato» e non è utilizzabile.

Per superare quest'impasse, nell'agosto del 2005 il tecnoscienziato Ian Wilmut, donatore della pecora Dolly, ha invitato le donne a donare ovuli per esperimenti perché, ha spiegato, la raccolta di ovuli «freschi», rispetto a quelli scartati durante i trattamenti di fertilità, renderebbe più rapidi i progressi verso la comprensione e la possibile cura delle malattie dei neuroni motori. Il professor Wilmut si dice convinto che molte sarebbero «felici» di contribuire all'evoluzione della ricerca: «Non ho mai dubitato che le donne donerebbero se sapessero che aiutiamo persone a curarsi», ha dichiarato a «The Guardian».

Sappiamo che esistono protocolli rigorosi sulle fonti del materiale genetico utilizzato per le ricerche, ovuli in questo caso, e i tecnoscienziati dicono di applicarli con scrupolo. Ma sappiamo anche che il bisogno di materia prima della ricerca è molto alto e destinato a crescere. Il problema è serio e pressante ed è diventato V off aire su cui si sta consumando ufficialmente la rivalità e la concorrenza tra i donatori americani e coreani.

Ed è stato proprio il modo in cui i laboratori si sono riforniti di ovociti a sollevare lo scandalo mondiale che ha portato, alla fine di novembre del 2005, alle dimissioni del cin-quantatreenne veterinario coreano Hwang Woo-suk - un eroe nazionale la cui effigie compare sui francobolli - dal suo ruolo di direttore della World Celi Stem Foundation e alla successiva scoperta che aveva contraffatto i risultati dei suoi esperimenti. Fonti giornalistiche avevano dato la notizia che Woo-suk usava per i suoi esperimenti di clonazione ovuli prelevati a pagamento da giovani ricercatrici del suo team. Ma le linee guida largamente condivise nella comunità scientifica impediscono di compiere esperimenti sul personale che lavora nei laboratori di ricerca, per evitarne lo sfruttamento. Questa prima grave violazione delle regole etiche fu aggravata dalla confessione di un autorevole membro del suo staff, Roh Sung-il, che ammise di aver pagato di tasca propria alcune donne fornitrici di ovuli, nonostante la legge coreana vieti la compravendita di materiale genetico e la punisca con la galera. La televisione coreana ha intervistato tre di queste «donatrici» che hanno spiegato di aver venduto i propri ovuli perché si trovavano in una situazione economica precaria e di non essere state informate sui potenziali rischi.

Già qualche giorno prima che fosse scoperta la compravendita di ovuli in Corea, il donatore Gerald Schatten dell'Università di Pittsburgh aveva interrotto una collaborazione di quasi due anni con Hwang proprio perché sospettava che il veterinario coreano ottenesse ovociti «in modo improprio». E nei giorni dello scandalo, un altro importante centro americano, il Pacific Fertility Center di San Francisco, annunciò di voler interrompere un programma di collaborazione con i coreani che avrebbe fornito alla World Stem Celi Foundation guidata da Woo-suk ovociti freschi di «donatrici» americane. Il direttore del Pacific Center, che pure si era dichiarato onorato di questa collaborazione, ora si tirava indietro «per motivi etici», anche se negli Stati Uniti non esiste nessuna regola sull'ovodonazione.

In Europa è stato il Parlamento Ue a sollecitare una presa di coscienza sull'ovodonazione. Nel 2004 venne data notizia di un traffico di ovuli tra la clinica rumena Global Art e alcuni laboratori inglesi. Il Parlamento europeo intervenne adottando una risoluzione comune sul commercio di ovociti umani con la quale ricordava che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione «sancisce il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro»……

Eh sì….siamo arrivati quasi al culmine della bestialità? Commercio di uova e clonazione umana…l’essere umano al pari di un animale, anzi la donna.

Al dibattito due interventi mi hanno colpito molto: quello di una libraia di sinistra, che invitata dai compagni a votare si al referendum sulla legge 40, si trovata in profondo disagio e incertezza di fronte a una tale grave scelta che avrebbe inciso sicuramente sulla cultura femminile e una madre frutto di una procreazione assistita felicissima di esserlo che si è sentita un po’ bersagliata dalla posizione radicale delle autrici.

Chiedo in un’intervista ad Alessandra Di Pietro se conosce il libro di Cirant,  che ha assunto posizioni decise a favore dei quattro si sulla consultazione referendaria  e cosa ne pensa. “Cirant” afferma Alessandra “è favorevole a tecniche di procreazione assistita e all’utilizzo dell’embrione nella ricerca, ma alla fine del suo libro, dice espressamente che se toccasse a lei, probabilmente non ricorrerebbe a queste tecniche.” Non me ne voglia Eleonora che legge, ma la domanda mi sembrava doverosa, vista la confusione e l’enorme portata della questione.

Personalmente ritengo che il libro sia un manifesto volto a superare i radicalismi politici intorno a temi scottanti per la cultura e la sensibilità femminile, come quelli della rapina delle uova, famiglie in provetta, embrioni, travagli, parti, figli naturali e figli dell’eugenetica. E’ un libro che potrebbe essere, per le posizioni che assume di fronte a queste problematiche, un anello di congiunzione tra la cultura cattolica di destra, da sempre in difesa della vita e quella di sinistra, in nome di una difesa della cultura e della consapevolezza femminile, che spesso soccombe nella miseria delle battaglie politiche tra queste due fazioni, sotto il peso della strumentalizzazione e del potere maschile. A voi la riflessione su questi temi. Buona lettura…e buona scelta.

(Delt@ Anno IV, n. 94 del 3 maggio 2006)                                                              Valeria Cazzaniga