La mistica femminile ne Il dolce canto del cuore 

 

 

Editoria

 

 

Mechtild di Magdeburg, Margherita da Cortona, Caterina da Siena, Chiara d’Assisi, Teresa d’Avila, Angela da Foligno, Chiara da Montefalco, Ildegarda di Bingen, Gertrude di Helfta, Juana Inès de la Crux, e poi nel secolo scorso Edith Stein e Simone Weil, sono tra le figure femminili di maggior spicco all’interno della tradizione occidentale cristiana. Tra le diverse esperienze religiose di queste donne, all’interno dei loro misteriosi incontri attraverso il tempo (sono “episodi di eternità” come nota Paola Ricci Sindoni nella sua Introduzione, a “intrecciare percorsi”  fra le loro vite) tentano di trovare un filo conduttore le testimonianze di studiose contenute nella densa raccolta di saggi edita nel 2004 da Áncora, “Il dolce canto del cuore”, a cura di Maria Chiaia, con contributi di Paola Ricci Sindoni, Sofia Boesch Gajano, Alessandra Bartolomei Romagnoli, Mariella Carpinello, Francesca Brezzi, Giuliana Cavallini, Rosa Rossi, Neria De Giovanni, Angela Ales Bello, Giulia Paola Di Nicola. Il libro (segnala Franco Incampo nella postfazione)  raccoglie le conferenze presentate dalle autrici nel corso della rassegna “Dialoghi in Cripta” organizzata dalla Rettoria di Santa Lucia del Gonfalone.

   Non nella gerarchia ecclesiastica, preclusa alle donne, né nell’universo dotto della teologia, ugualmente appaltato dal maschio, ma di preferenza nell’esperienza diretta dell’unione con la divinità, esperienza consumata in clausura, con il solo conforto della presenza delle sorelle e di un confessore, esperienza vissuta attraverso il corpo piuttosto che nella attività teoretica, si esprime la maggior parte delle volte la straordinaria capacità religiosa femminile. Ciò accade per ragioni politiche (dato che è, storicamente, la sola esperienza accessibile alle donne) ma anche (crediamo in molte)  perché è esperienza più consona allo specifico femminile, che passa in ogni caso, anche nella più intellettuale delle donne, “attraverso” il corpo. A una simile esperienza di preghiera e di meditazione, la Chiesa Cristiana dà nome di “mistica” (utilizzando un termine che contiene in sé una negazione, l’impossibilità di essere trasmessa verbalmente). Ma, se l’immagine del “mistico” cristiano rimanda troppo spesso all’icona dell’eremita solitario, chiuso nella propria estasi e incapace di comunicare se non con Dio, la mistica che traspare dalle esperienze di queste donne ribalta questa visione, introducendo al contrario l’immagine del superamento di ogni possibile individualismo attraverso l’esplosione-implosione dell’ego sventrato dall’Amore. Mistica capace, dunque, di immense aperture all’esterno, fino a divenire (nell’esperienza delle sante che divennero consigliere personali di potenti politici a loro contemporanei) politica nel senso più schietto del termine. “Mistica sociale”, la definisce ancora Paola Ricci Sindoni. Al centro di questa mistica non è il soggetto, che esce da sé (ex-stasis)  ma un Dio con cui il soggetto può instaurare tuttavia una relazione di appartenenza  talmente stretta da potersi definire “matrimoniale” (e la metafora del matrimonio divino appare quasi sempre, in forme talvolta decisamente pittoresche, nelle descrizioni delle esperienze estatiche delle mistiche).

Ma di quest’esperienza occorre tuttavia dar conto, attraverso un linguaggio mai sufficiente a descriverne la verità, e sempre costretto ad approssimazioni dolorosamente lontane dalla luminosità originale dell’ esperienza vissuta. E il compito doloroso ma pur necessario di darne conto non viene mai eluso, ma sempre ex-per-ito come una missione a cui non è dato sottrarsi .

Fin dalla tarda antichità (osserva S.B.Gajano nel saggio storico “La donna nella storia della santità fra antichità e Medioevo”) “la vita monastica si presenta come la più praticabile per le donne”, sia per la protezione offerta alla debolezza femminile che per l’opportunità unica che fornisce di scampare al destino femminile di diventare moglie e madre in giovanissima età, perdendo qualsiasi altra occasione possibile di dedicarsi alla vita interiore. La vita monastica offre alle donne (continua Gajano) “un’inedita libertà spirituale e comportamentale”. Libertà che veniva vista tuttavia con forte sospetto dalle gerarchie ecclesiastiche (tutte maschili) chiamate ad esaminare casi di presunta santità femminile sempre caratterizzati da fortissima personalità spirituale e, talvolta, anche da grande influenza politica. In questi casi le canonizzazioni trovavano un freno nella diffidenza del potere ecclesiastico, più incline a bollare come “eresie” che a santificare visioni ed estasi troppo emozionali e fisiche per essere teologicamente accettabili. Accomuna le sante monache medievali, colte, ricche e potenti, e le mistiche, spesso illetterate e poverissime, l’esperienza diretta del rapporto con Dio, vissuta come visione, estasi frutto della preghiera, dell’isolamento, della sofferenza, sempre attraverso il corpo.  

Le donne mistiche fra il XIII e il XV secolo infatti (nota Alessandra Bartolomei Romagnoli ne “La questione del corpo nella mistica femminile medioevale”) “escluse dal ministero della Parola si affidarono alle possibilità di comunicazione del corpo” e attraverso il loro corpo, sofferente, piagato, digiunante, martoriato, rimisero in scena direttamente la passione del corpo del Cristo, Dio incarnato e fatto uomo nel dolore. Vivono l’”oggettivazione linguistica” di questa loro esperienza più come “menzogna” o “bestemmia” che come racconto o descrizione (vedi il caso di Angela da Foligno, che accusava il suo confessore di sminuire in modo indegno “il più prezioso che sente l’anima mia”). Ed è questa forma di esperienza fortemente fisica, la testimonianza del legame imprescindibile della donna con il corpo, luogo dell’esercizio del potere maschile e sociale che solo attraverso l’esperienza religiosa a tale potere può in parte sottrarsi,  ma sul quale il torrente dell’esperienza religiosa viene riversato con altrettanta forza distruttiva.

  Pone invece il problema dello statuto filosofico della mistica femminile il saggio di Francesca Brezzi su Angela da Foligno: “Il mio dire è un devastare”. Le donne –afferma Brezzi – a partire dal XIII secolo, “assumono in prima persona un ruolo non più marginale partecipando agli eventi spirituali e intellettuali”. Ne è sintomo significativo la scelta, da parte di Angela da Foligno come di altre importanti figure spirituali femminili del tempo, di restare allo stato laicale.  La parola che le donne scelgono per prendere posto nell’universo spirituale è segnata dalla cifra dell’ambivalenza: attraverso la dichiarata incapacità di rispecchiarsi nel linguaggio ordinario, Angela nella sua lotta con il proprio trascrittore fa emergere un proprio linguaggio “altro”: linguaggio relazionale, sdoppiante, nel quale viene integrato il corpo “linguaggio delle passioni, cioè del desiderio e dell’amore, un dire che non accetta la regola della scissione carne-spirito, ma anzi si costruisce….proprio su quella originaria unità”.

Alla domanda se sia possibile la comprensione dell’esperienza mistica, nel secolo XX hanno tentato di rispondere attraverso il metodo fenomenologico  Edith Stein e Gerda Walter: i vissuti dell’esperienza mistica sono descrivibili, quando vengano presi in considerazione come oggetti filosofici al pari di qualsiasi altro. Dunque è possibile cogliere l’esperienza mistica nel suo vissuto senza sovrapposizioni intellettualistiche, poiché nell’esperienza mistica l’io trascende la tripartizione corpo-anima-spirito, delineandosi come “punto di attualizzazione della coscienza” che può emergere proprio dall’esperienza dell’abbandono.

Sul rapporto fra filosofia e mistica, considerate da Edith Stein come due vie di conoscenza della verità insiste poi il saggio di Angela Ales Bello “Filosofia e mistica in Edith Stein”. In esso la studiosa traccia con precisione la storia del rapporto mistico intrecciato da Stein con Tersa d’Avila attraverso la lettura – rivelazione del Castello Interiore. La conversione di Stein, a partire da tale lettura-rivelazione, si intreccia all’esperienza fenomenologia che la filosofa stava in quel momento compiendo, e che riguardava la struttura  interiore dell’essere umano. In tale contesto si costituisce la teoria steiniana dell’empatia come tratto tipico della relazionalità umana: l’uomo è essenzialmente struttura relazionale empatica. Ma la caratteristica che distingue l’essere umano dagli altri esseri è la sua capacità di progredire o regredire nel proprio cammino spirituale, ovvero (utilizzando la metafora del “castello interiore”) di penetrare all’interno di se stesso oppure di muoversi verso l’esterno. Le tappe successive della penetrazione dell’anima nella propria interiorità sono le diverse “dimore” del “castello interiore”, dove avvengono i diversi stadi della conversione e del dialogo con la divinità.

Il linguaggio di Teresa- apprendiamo dal saggio di Rosa Rossi su Teresa d’Avila-  fu capace peraltro anche di critica sociale feroce. Tanto che l’Inquisizione espunse dagli scritti di Teresa diversi passi in cui ella affermava appassionatamente che le donne venivano ingiustamente recluse e ridotte al silenzio. Il Castello interiore viene da Teresa presentato alle monache, tra l’altro, come un luogo di libertà personale in cui rifugiarsi, dal momento che nel mondo “esteriore” alle donne non è consentito nulla. La forza della personalità spirituale di Teresa impose poi (non prima del 1970) la sua proclamazione a Dottore della Chiesa.

I saggi di Neria de Giovanni (“Juana Inès de la Crux.  Dall’ascesi intellettuale alla rinuncia mistica: il coraggio di una donna”) e Giulia Paola Di Nicola (“Abissi e vette nella spiritualità di Simone Weil”) approfondiscono un cammino alla ricerca della verità che veramente dimostra la potenza del pensiero religioso femminile. Estrema, personale, impermeabile alla seduzione delle ideologie, altruista e sincera fino al paradosso, la fede di Simone Weil irrompe come bisogno inoppugnabile di perfezione assoluta dai suoi scritti: “Non accettare nulla che non è puro…piuttosto nulla”.

Spietata, coraggiosa, consapevole della propria eccezionalità, brillante , Juana Inès de la Crux non esita a chiudersi in convento per proseguire in pace gli studi, ma per l’audacia della sua scrittura è costretta a smettere di leggere. Da allora per il dolore non si riprenderà più, fino a che, autorizzata a riprendere a scrivere, non diventerà la più famosa poeta messicana del XVII secolo.

(Delt@ Anno III, n. 32 del 15 febbraio 2005)                                                                                                                    Nicoletta Bertorelli