(Milano)
Milano multietnica, melting pot di culture, religioni e tradizioni
interroga la coscienza delle donne di sinistra, che giovedì 14 settembre
si sono incontrate alla libreria del Festival dell’Unità a Lampugnano
per discutere di multiculturalismo e femminismo.
Spunto per il dibattito è stato il recente libro di Moller Okin Susan:
“Diritti delle donne e
multiculturalismo”, edito da Cortina Raffaello; ha condotto la
serata Patrizia Bergami, ospiti: la curatrice Alessandra Facchi, docente
di Teoria generale del diritto alla Facoltà di Scienze Politiche
dell'Università degli Studi di Milano, Graziella Carneri, ex vice
presidente di Agesol, da sempre impegnata nella battaglia a favore dei
diritti delle donne, Ilaria Cova, segretaria regionale dei giovani della
Margherita, assente Arianna Censi, per via di urgenti impegni politici.
Il testo, nel quale la femminista radicale Susan Moller Okin discute
assieme a quindici interlocutori, del calibro di Martha Nussbaum e
Saskia Sassen, su temi legati al multiculturalismo e al femminismo,
nasce in seguito ad un dibattito su di un saggio della medesima autrice,
tra intellettuali americani, esperti di filosofia morale e giornalisti.
Il titolo originale era: “Multicuralism is bad for women?”. Questo
titolo fa ben comprendere come il tema centrale sia il delicato confine
tra rispetto della differenza culturale, presente nelle varie etnie in
società multietniche come quella americana, e la difesa dei diritti e
delle libertà che le donne occidentali hanno faticosamente conquistato,
diritti che per alcune culture, come quella islamica sono ancora
sconosciuti, o addirittura denigrati, perché non onorevoli ai membri
della stessa, né quindi alle donne.
Così Okin intravede la possibilità di contrasti tra il multiculturalismo
e il femminismo, benché negli Stati Uniti, sul finire degli anni ’90,
anno in cui nasce il dibattito, siano viste come due prospettive alleate
di visione progressista di sinistra.
La differenza nelle diversità è un fenomeno che esiste nelle donne, nel
mondo multiculturale. Infatti negli anni del dibattito vi sono numerosi
gruppi, sessuati, che richiedono tutela contro la condizione di
oppressione e discriminazione in cui versano le donne.
Il contrasto osservato da Okin emerge da casi di cronaca e vicende
giudiziarie ove le donne hanno una posizione discriminata rispetto a
quella dell’uomo, in quanto vittime di segregazione domestica o ribelli
rispetto a pratiche sociali e culturali tradizionali. Okin si chiede se
si debbano tollerare gruppi in cui le donne subiscono pratiche
oppressive, in nome dei principi del multiculturalismo.
Individua così tre possibili strategie di politica multiculturale:
il multiculturalismo pluralista, nel quale ciascuna persona ha diritto
ad un’identità culturale e lo Stato ne deve garantire le forme e i
luoghi in cui si esplica. Okin si chiede se però sia conforme al
pensiero femminista questa posizione che lascia ampia libertà a gruppi,
come ad esempio i cristiani ortodossi, nei quali la cultura è
dichiaratamente oppressiva nei confronti delle donne, costrette alla
soggezione maschile.
un tipo di multiculturalismo in cui lo Stato si deve interessare di
tutela delle minoranze e dei gruppi, solo se questi ne fanno esplicita
richiesta. Si pensi se ragazze costrette per cultura a matrimoni
d’interesse abbiano sempre la forza e il coraggio di chiedere aiuto alle
istituzioni, osserva Okin.
il multiculturalismo liberale: nel quale si tutelano i diritti dei
membri di una comunità, tenendo presente le loro peculiarità e le loro
differenze culturali, e non in quanto solo membri di una famiglia, che
di per sé nella maggioranza dei casi è di stampo patriarcale.
Secondo questa posizione è importante riportare la famiglia all’interno
dello Stato politico.
Infatti la maggioranza delle discriminazioni, secondo Okin, non nasce
nella sfera pubblica, ma nella sfera privata. Tutelare queste minoranze
significa anche essere tolleranti con pratiche politiche e culturali di
tutto svantaggio per le donne.
Così Okin invita a porre l’attenzione sui diritti individuali, più che
sui collettivi, ad analizzare meglio comunità e famiglie, ad aprire
strade del dissenso al di fuori dei luoghi tradizionali della politica,
lasciando spazio a movimenti extraparlamentari e soprattutto ascoltando
la voce delle giovani donne, da sempre espressione del nuovo e meno
legate alla tradizione rispetto alle donne più anziane, nelle quali
ormai tutto, anche le discriminazioni culturali, sono consolidate ed
accettate.
La cultura liberale con connotati patriarcali ha eliminato forti
discriminazioni sulle donne ed ha creato il terreno per poter discutere
e dibattere di differenze e discriminazioni che provengono anche da
culture orientali, come quella islamica, che però essa stessa vede come
punti di forza, prima fra tutte l’infibulazione, che può rendere una
donna più appetibile e più inserita socialmente. Altre, come il velo,
che per una donna occidentale è una forma di parziale privazione di
libertà di disposizione del proprio corpo e di espressione, per una
donna orientale sono elementi culturali da difendere. Dunque Okin
intravede nella tutela dei principi femministi e dei diritti e delle
libertà fondamentali un rischio di imperialismo culturale.
Altri rischi, sono quello di subordinare l’uguaglianza tra i sessi alla
libertà religiosa, di sottovalutare gli aspetti discriminatori presenti
nella società occidentale e il non aver dato peso sufficiente ai
relativi diritti.
Okin così auspica un multiculturalismo femminista che tratti tutte le
persone come eguali.
Facchi ritiene che tuttavia è opportuna una differenziazione dei diritti
sociali di queste minoranze per rispettare appunto la dignità di ogni
cittadino.
Graziella Garneri, che ha direttamente vissuto, per lavoro, il conflitto
tra diritti delle donne ed immigrati, trova questo libro interessante ma
difficile dal punto di vista teorico, in quanto fotografia di una realtà
americana diversa dalla nostra, nella quale la convivenza fra diverse
etnie è un fenomeno nuovo e geograficamente circoscritto ad alcune
realtà italiane.
Circa le implicazioni tra femminismo e multiculturalismo, ricorda come
spesso i giornali in relazione ad eventi di violenza perpetrati su donne
straniere si chiedano dove sono le femministe e quale sia la loro
posizione politica. Da noi quasi nessuna è riuscita ad uscire allo
scoperto e ad avere una posizione netta e chiara, ad esclusione di
Daniela Santanchè, che si è fatta coraggiosa paladina dei diritti delle
donne immigrate.
Carneri, convinta che bisogna accettare le differenze culturali ma
conscia delle discriminazioni che certe culture, come ad esempio quella
islamica, operano sulle donne, è favorevole ad una linea graduale e
morbida di smantellamento delle stesse, possibile se si danno alle donne
strumenti per poterne prendere coscienza e combatterle, primo fra tutte
l’istruzione.
Osserva che l’atteggiamento di conflitto nei confronti di queste culture
ha portato questi gruppi a chiudersi per difendersi e ad accentuare i
simboli e i costumi della loro appartenenza culturale.
Disinnescare questa miccia è difficile.
In altri paesi sono stati addirittura creati diritti speciali, ma perché
vi sono comunità ben definite e riconosciute. Da noi ne esiste forse
solo a livello nazionale qualcuna; questo riconoscimento di diritti
speciali non esiste neanche nel nostro ordinamento.
Noi non abbiamo avuto il coraggio di aprire una discussione vera e
coraggiosa. Ribadisce infine l’importanza di consegnare alle donne i
giusti strumenti per operare una presa di coscienza ed un cambiamento.
Sull’opportunità di prevedere diritti speciali si è espressa anche
Ilaria Cova, che tuttavia ritiene che le previsioni normative in essi
contenuti non debbano configgere con i diritti costituzionali garantiti,
secondo il noto principio di gerarchia delle fonti.
L’uguaglianza sancita costituzionalmente, dei cittadini rispetto alla
razza e al sesso, non può essere elusa da questi diritti speciali,
benché particolari forme culturali lo facciano.
Deve essere evidente che talune culture hanno esercitato un controllo
sulla società e un controllo sulla famiglia, di stampo patriarcale e
quindi un controllo sulla donna, che ha un ruolo subalterno rispetto a
quello dell’uomo, anche a causa di credenze e modelli religiosi imposti.
Per questo Cova, sebbene cattolica praticante, è convinta sostenitrice
della laicità dello Stato, anche di quello italiano, “intriso di cultura
cattolica un po’ retrò”.
Dal pubblico una voce osserva che forse è più corretto parlare di
interculturalismo ed io invece ho chiesto come mai donne presenti
parlano di donne assenti, le vittime o le protagoniste appunto di questo
incontro di culture. Quali le forme di emancipazione operate da queste
donne?
«Le ragioni di assenza sono collegate all’orario e appunto alla cultura
che caratterizza queste donne» mi risponde Bergami. Quanto alle forme di
presa di coscienza politica Bergami porta un esempio della sua
esperienza personale di creazione di una consulta multiculturale
collegata al proprio territorio e ricorda come le donne islamiche e
straniere interpellate se e per farvi parte hanno ritenuto crearne una
loro peculiare e tutta al femminile. Questo per Bergami è sicuramente un
passo avanti e la messa in atto di quel principio affermato da Facchi di
dare alle donne gli strumenti della propria emancipazione graduale.
Sarebbe interessante sapere quante donne si muovono in tal senso e quali
istanze culturali occidentali vengono fatte proprie e quali della loro
cultura scartate, perché viste come discriminanti.
(Delt@
Anno V°, N. 180 del 17 settembre 2007)
Valeria C |